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Il carcere può diventare una tappa importante della formazione dei giornalisti I giornalisti studiano in carcere Le testimonianze dei detenuti, l’esperienza dei magistrati di Sorveglianza e degli avvocati sono stati al centro di un seminario di studio, importante per la formazione di chi si occupa di cronaca nera e giudiziaria
a cura dell’Ordine dei giornalisti del Veneto
Una mattina in carcere per affrontare i problemi della giustizia da una diversa angolatura, per studiare come funzionano i meccanismi dell’esecuzione della pena; per ascoltare le storie dei detenuti, i drammi che hanno provocato e vissuto, ma anche le loro osservazioni finalizzate ad un’informazione corretta sui temi della detenzione, più documentata e aperta a riflessione e analisi; meno votata al sensazionalismo e alle notizie sull’onda emotiva. È stato un seminario di grande interesse quello ospitato il 13 ottobre all’interno del Due Palazzi di Padova, al quale hanno preso parte una sessantina di colleghi: il numero di adesioni era stato più elevato, ma la direzione del carcere è stata costretta a porre un limite agli accessi a causa del sovraffollamento del penitenziario e della carenza di personale. L’appuntamento, il primo di una serie che l’Ordine dei giornalisti è intenzionato a promuovere sul tema, è stato organizzato dalla redazione di Ristretti Orizzonti (www.ristretti.it), il periodico diretto da Ornella Favero, volontaria all’interno del carcere, e realizzato da numerosi detenuti, che da anni si impegnano a scrivere articoli, elaborare dati e stimolare dibattiti sulle problematiche della giustizia, dell’esecuzione della pena, della detenzione. Dopo l’introduzione del presidente dell’Ordine, Gianluca Amadori, sono intervenuti Giovanni Maria Pavarin e Marcello Bortolato, magistrati del Tribunale di Sorveglianza di Padova, i quali hanno spiegato che non vi è alcun automatismo nella concessione dei benefici ai detenuti (permessi premio, affidamento in prova, semilibertà, liberazione anticipata ecc.). Al contrario ogni caso viene analizzato attentamente, con l’ausilio di esperti (psicologi, assistenti sociali, lo stesso personale del carcere) per verificare il percorso compiuto dal detenuto. “Per la nostra Costituzione la pena deve essere finalizzata alla rieducazione”, ha spiegato il dottor Pavarin. “La detenzione ha la scopo di garantire la sicurezza sociale, ma anche di cercare di recuperare chi ha commesso un reato, per consentirgli di inserirsi nuovamente nella società senza più costituire un pericolo”. Le statistiche dimostrano che i detenuti ai quali sono offerte opportunità lavorative all’interno del carcere riescono a reinserirsi meglio, con percentuali di recidiva più basse. Ma sono pochi i detenuti a cui vengono offerte opportunità di questo tipo. Padova, che pure è un penitenziario tra i migliori d’Italia, fa lavorare non più di un terzo dei suoi detenuti. Le stesse statistiche ci dicono pure che i detenuti ai quali vengono concessi benefici nell’esecuzione della pena, delinquono meno degli altri quando tornano in libertà: il 19 per cento contro il 69 per cento. E la percentuale dei detenuti che violano le disposizioni durante permessi, semilibertà ecc. è molto bassa. La percentuale di evasioni, ad esempio, è appena dello 0,8 per cento; a Padova ancora più limitata: 0,7. “Ma i casi positivi non fanno notizia”, ha evidenziato il dottor Bortolato. “Il nostro lavoro è basato sul futuro, sulla prognosi. Investiamo in un percorso, ma è l’unico modo per dare una possibilità di recupero e reinserimento. Il detenuto abbandonato a se stesso rischia di uscire peggiore di quando è entrato, creando un pericolo ancora maggiore. Lo Stato dovrebbe farsi carico maggiormente della rieducazione dei detenuti: non ha senso un carcere inteso come un luogo dove chiudere a chiave i problemi e poi gettare la chiave”.
Giovanni Torrente, docente di Sociologia giuridica dell’Università della Valle d’Aosta, ha invece illustrato i risultati di una ricerca dal titolo “Indulto. La verità, tutta la verità, nient’altro che la verità”, dalla quale emerge che, a tre anni di distanza dal provvedimento che ha cancellato fino a tre anni di pena, la percentuale di recidive tra i detenuti che hanno usufruito dell’indulto non è alta; paradossalmente più bassa di quella generale, relativa all’intera popolazione di detenuti che tornano in libertà dopo aver scontato interamente la loro pena. Intervallati dalle testimonianze di numerosi detenuti, hanno preso la parola Vittorio Manfio, avvocato penalista e volontario dello sportello di Orientamento giuridico e segretariato sociale nella Casa di reclusione di Padova, e il direttore responsabile di Ristretti Orizzonti, Ornella Favero, che ha analizzato alcuni titoli e articoli di stampa per mostrare come spesso i temi relativi al carcere e all’esecuzione della pena vengano enfatizzati, amplificando gli aspetti negativi, ad esempio il reato commesso da un detenuto in permesso, oppure appena scarcerato per l’indulto. Notizia legittima, alla quale, però, dovrebbero essere affiancati anche quei dati da cu emerge l’occasionalità di queste violazioni. Il rischio, altrimenti, è quello di rappresentare una realtà che non corrisponde al vero, alimentando allarme sociale e ingiuste misure di riduzione dei benefici. “La gente è sensibile al tema della sicurezza”, ha confermato il dottor Pavarin, “e spesso questo viene utilizzato in modo strumentale per acquisire consenso”. Altro tema di cui si è discusso è quello relativo ad un concetto spesso amplificato dai media: “È già fuori”. Anche in questo caso il giornalista dovrebbe fare uno sforzo ulteriore per cercare di spiegare perché la persona arrestata a volte viene scarcerata dopo pochi giorni (in attesa del processo, per un reato di bassa pericolosità, se non c’è pericolo di fuga, né di inquinamento delle prove), ricordando al cittadino che la custodia cautelare è una misura eccezionale, disposta soltanto se ricorrono particolari condizioni e non come anticipo di quella pena, che va invece scontata soltanto a seguito di una sentenza passata in giudicato. L’espressione “è già fuori” può creare allarme sociale e a volte, sul clima di emergenza, si tende a cambiare le leggi in senso restrittivo, non sempre sulla base di giustificati motivi. “Il rischio è anche quello di creare nell’opinione pubblica la sensazione che delinquere conviene perché tanto non si paga mai, non si finisce mai in carcere. Ciò non corrisponde a verità”, ha spiegato Ornella Favero. “E bisogna farlo capire soprattutto ai giovani per evitare errori che potrebbero costare loro molto cari”. Si è poi parlato della tempestività della pena, attraverso l’esperienza personale di alcune persone detenute, finite in carcere anche 15 anni dopo la commissione del reato, quando avevano già cambiato vita. Alla base della loro testimonianza, il concetto che per essere giusta la pena deve arrivare in tempi ragionevoli, perché, come ha sostenuto un detenuto, “se fossi stato fermato in tempo, forse avrei capito che stavo sbagliando e non avrei continuato a commettere reati”. A concludere il seminario è stato il direttore della Scuola di giornalismo “Dino Buzzati” dell’Ordine del Veneto, Orazio Carrubba, che ha anche invitato i magistrati di Sorveglianza a tenere una lezione al prossimo corso per praticanti. Questo seminario vuole essere il punto di partenza per una collaborazione costruttiva tra chi fa informazione direttamente dal carcere e chi la fa all’esterno. La proposta di Ristretti Orizzonti è di estendere questa esperienza all’Ordine dei giornalisti di altre regioni e ad altre redazioni di giornali dal carcere, e soprattutto di renderla, dove possibile, “permanente”: che il carcere possa diventare, cioè, una tappa importante della formazione dei giornalisti.
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