Editoriale

 

Paura, sicurezza, odio, emergenza

 

Ci sono parole che caratterizzano un periodo storico, negli anni settanta la parola chiave era “lotta”, poi c’è stato “terrorismo”. Oggi c’è un insieme di parole, “paura”, “sicurezza”, “odio”, “emergenza”, che ritornano nelle cronache con una frequenza allarmante e condizionano) pesantemente la nostra vita. Le tante persone, spaventate e incattivite, che vogliono la tolleranza zero non hanno, per esempio, pensato che l’omicidio del tifoso laziale sia nato proprio in questo clima di odio, di paura, di tutti contro tutti, dove l’uso facile delle armi sta diventando una cattiva abitudine di tanti cittadini e anche di tanti poliziotti?

Chi sta in carcere sa bene cos’è la violenza, per averla usata, e qualche volta per averla anche subita: sarebbe importante quindi che proprio in carcere si provasse a ragionare sull’uso della violenza, e a prendere le distanze  da un clima dominato prepotentemente dall’odio.

Invece, c’è una illusione, che circola anche in galera: che se magari si cacciano i rumeni, che in questo momento sono quelli che danno più fastidio, poi la tensione si allenterà e il clima migliorerà per tutti, anche per quelli che stanno in carcere. Noi, al contrario, siamo convinti che chi sta in carcere debba cercare di coltivare una sensibilità diversa, una attenzione particolare a chi è candidato all’esclusione. Anche perché la prossima volta potrebbe succedere che il primo posto nella scala del “fastidio sociale”, lasciato libero da Rom e rumeni, venga occupato da quelli che, secondo l’opinione comune, rafforzata da messaggi ossessivi dei media, commettono reati ma “non si fanno mai tutta la galera”. E in un clima simile non stupirebbe che fosse il ricorso alle misure alternative a farne le spese e a divenire un’eccezione e non la regola che vorremmo che fosse, per dare un senso al percorso di reinserimento di ogni persona detenuta.

Ma che cosa dire a quegli onesti cittadini che sostengono che bisogna garantire condizioni migliori agli stranieri che lavorano, e cacciare tutti gli altri che sono qui solo per delinquere, e che rendono le nostre città sempre più invivibili? Che cosa gli rispondiamo? Certo gli si può dire che la percezione di insicurezza è molto legata al tipo di informazione che riceviamo, ma non possiamo semplificare le cose e non capire per niente le reazioni di tanta gente, che sarà senza dubbio influenzata da un certo tipo di informazione, ma qualche buona ragione per avere paura ce l’ha.

Si può riflettere sul fatto che comunque diventerà sempre più difficile costruire muri ai confini per difendere il modello di consumo e di spreco che abbiamo qui, così come si può tentare di riflettere su un paese come il nostro, dove per lo più abbiamo un senso di legalità bassissimo, salvo poi pretendere il rispetto assoluto della legalità da parte degli stranieri, ma qualsiasi ragionamento sbatte contro l'irrazionalità delle paure.

Noi non abbiamo, sinceramente, ricette, se non quella di continuare a ragionare sulla complessità, contrastando con forza gli appiattimenti e le semplificazioni che arrivano spesso da televisione e giornali. E rifiutando ostinatamente tutto quello che si chiama “emergenziale”: i problemi sono problemi, non sono emergenze, e chi sta in carcere sa fin troppo bene quanti danni hanno fatto le leggi cosiddette “emergenziali”. Il numero di “Ristretti Orizzonti” che state leggendo è dedicato, in fondo, a questo: a smontare certa informazione approssimativa, e spesso disonesta, e a far vedere che, forse, si può lavorare per la sicurezza anche scardinando, dentro e fuori dalle galere, i meccanismi che spingono all’odio e investendo di più sulle persone che  escono dal carcere e che non devono essere abbandonate.

 

 

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