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Disastri globali Sono le storie di ragazzi italiani e stranieri, che inseguono l’idea di avere soldi e potere, e finiscono per essere sempre più simili, come simile è il loro destino: quello di conoscere molto presto la galera
“Disastri globali”, verrebbe da dire: sono quei modelli di vita che cominciano a circolare sempre di più da un mondo all’altro, portati dai migranti stessi. Il ragazzo tunisino, che vede girare per il suo quartiere il compaesano che “ha fatto i soldi in Italia”, e prova per lui tanta invidia e desiderio di emulazione, assomiglia sempre di più al ragazzo italiano, che insegue il sogno di diventare come il compagno di scuola con i vestiti firmati e la bella moto. Sono storie che finiscono inesorabilmente sul binario morto del carcere, perché inseguire certi modelli, per i ragazzi che arrivano da paesi poveri, ma anche per gli italiani che non hanno una famiglia ricca alle spalle, alla fine costa caro. Io non sarei mai andato a lavorare per un misero stipendio
di A.
Sono nato in un paese della provincia di Padova, dove la criminalità negli anni Ottanta era molto diffusa. Mentre frequentavo ancora le scuole medie, avevo già notato che i ragazzi un po’ più grandi di me viaggiavano con grosse moto, erano vestiti all’ultimo grido, e una delle cose che più mi colpiva era quell’aria di onnipotenza che riuscivano ad avere. Sapevo che non erano figli di gente ricca e mi chiedevo come riuscissero ad avere tutto quel lusso alla loro età. Io volevo diventare come loro! Ero affascinato dalla vita che riuscivano a fare. I miei primi furti li ho fatti solo per divertimento: rubavamo le Fiat Cinquecento e facevamo le gare di velocità. Le usavamo come fossero degli autoscontri, finché un giorno la polizia ci intercettò e ne seguì un rocambolesco inseguimento, dove noi riuscimmo a scappare tra le stradine della campagna. Le nostre avventure iniziarono ad essere raccontate tra la gente, nei bar. Ormai s’era sparsa la voce e io mi gasavo sempre di più a sapere che gli altri parlavano di me. Fino a quando un pomeriggio avvenne qualcosa di inaspettato. I ragazzi più grandi, quelli che andavano a rubare per i soldi, mi chiesero di entrare in “batteria” con loro. Il primo furto in un appartamento mi permise di comprarmi i miei primi vestiti firmati e di togliermi qualche altro sfizio. Da quel giorno iniziò l’escalation: case, ville, negozi, supermercati, fabbriche, casseforti. I soldi erano sempre di più. In poco tempo riuscii ad acquistare anche una moto. Ero sempre vestito tutto firmato e pieno di cose di valore addosso. Quello che avevo sempre sognato si stava realizzando. Un po’ alla volta riuscii ad avere “un nome” nel mondo della malavita, ero qualcuno e mi meritavo il rispetto di tutti. Non mi interessavano i soldi, volevo una posizione in quell’ambiente, e adesso ce l’avevo. Mi sentivo forte e intoccabile. Avevo appena 17 anni quando ho preso in mano per la prima volta un’arma. Serviva per il grande salto: basta con i semplici furti, per aumentare i guadagni bisognava compiere qualche rapina. Mi piaceva tutto di quella vita. Riuscivo ad avere quello che volevo: macchine, moto, ragazze che frequentavano solo “la crème” della zona. Loro, benché fossero di buona famiglia, sembravano attratte dal mio mondo, erano contente di viaggiare in grosse auto, anche se a volte si trattava di macchine rubate. Io mi divertivo, avevo tutto quello che i ragazzi della mia età non potevano avere. Ero al “top”. Quando i miei genitori, onesti lavoratori, s’accorsero che qualcosa non andava, che avevo troppi soldi e frequentavo gente “poco presentabile”, tentarono di recuperarmi in tutti i modi. Parlandomi, minacciandomi, chiudendomi in casa. Ma non c’era verso, me ne fregavo di quello che dicevano e scappavo. Gli spiegavo che la vita normale, quella che stavano conducendo loro da sempre, a me non piaceva. Io non sarei mai andato a lavorare per un misero stipendio. Loro non ne avevano colpa, ero cresciuto in un paese che offriva poco e quel poco era infarcito di criminalità. Pur essendo vissuto sempre in quell’ambiente, non avrei certo pensato però di finire in galera. Mi sentivo onnipotente e non avevo mai neppure immaginato la possibilità che mi prendessero. E invece alla fine per me c’è stato solo il carcere. Un sogno che diventa un incubo
di Mohamed Madouri
Io ho iniziato a sognare l’Italia quando ero ancora molto piccolo e vedevo mio fratello maggiore e molti dei suoi amici emigrare per fare lavori stagionali. Venivano in Italia per qualche mese e tornavano con un sacco di soldi. Negli anni Ottanta era tutto molto più facile, gli immigrati in Italia non erano ancora molti e quelli che arrivavano nella maggior parte dei casi riuscivano a trovare lavoro. Negli anni Novanta era già tutto cambiato, ma io non lo sapevo. Era quasi impossibile avere il visto e bisognava allora affidarsi a gente senza scrupoli che organizzava viaggi con mezzi precari e favoriva l’ingresso illecito nel vostro Paese. Sono arrivato qui all’inizio del ‘94 quando gli sbarchi a Lampedusa non erano ancora all’ordine del giorno. Quello era il viaggio della mia vita. Avevo mille idee, mille sogni, tanti desideri. E sognavo sempre che accadesse qualcosa di bello, quello che stavo aspettando, anche se non sapevo bene cosa io stessi aspettando! Dopo i primi controlli e gli accertamenti della polizia sono riuscito a raggiungere i miei amici che mi avevano fatto sapere di essersi stabilizzati al nord. Ingenuamente pensavo stessero facendo delle vite normali, che avessero trovato una casa e che lavorassero onestamente. Ma appena arrivato, mi ci volle poco a capire che non era proprio così. Loro conducevano una vita fatta di droga, case e fabbriche abbandonate e polizia e fughe e paura… Un sogno s’infranse subito alla vista di quella realtà, che non riuscivo ad accettare: io avevo ben altre intenzioni. Volevo trovare un lavoro e condurre una vita onesta, anche se da irregolare. Purtroppo però non era facile trovare lavoro per uno che arrivava qui in quegli anni e nelle mie condizioni. Tutto il mio entusiasmo e la mia smania di lavorare sparirono come un fuoco di paglia. Passate le grandi fiamme che emanavano calore, luce, energia, tutto svanì e mi ritrovai costretto a recuperare soldi per mangiare, per vivere. In quel momento la scelta più facile era quella di seguire i miei paesani. Mi diedero in mano la merce, mi indirizzarono nelle zone giuste e cominciai a spacciare. Le prime parole che ho imparato erano quelle che mi servivano per “lavorare”: Serve qualcosa? Quanto vuoi? Avevo anche imparato a distinguere i soldi buoni da quelli falsi. A riconoscere polizia e carabinieri in borghese. Mi ritrovai ad abitare in una fabbrica abbandonata, vecchia e fatiscente. Dopo pochi giorni dal mio arrivo in Italia il mio sogno era diventato un incubo: vivevo come un topo, giocando a nascondino con polizia e carabinieri. Dormivo con i pantaloni addosso, doppie calze e anche il giubbotto, e non solo per ripararmi, ma anche per essere pronto all’arrivo degli sbirri. Quante volte mi sono ritrovato a scappare con le scarpe in mano, con un freddo cane, dai carabinieri che poi bruciavano i nostri miseri materassi e le nostre coperte! Per alleviare quelle sofferenze, dimenticare quelle condizioni in cui ci trovavamo e per poter dormire fumavano spinelli. Qualcun altro tirava eroina o cocaina a lume di candela, perché lì si viveva senza luce e senza acqua. I primi tempi mi vergognavo di entrare nei bar, nei ristoranti o di starmene in mezzo alla gente perché mi rendevo conto che le condizioni in cui mi trovavo facevano schifo. All’inizio mi ripetevo che non lo avrei fatto per molto tempo, ero ancora intenzionato a trovare lavoro. Avrei continuato a spacciare solo finché le cose non fossero cambiate in meglio. Ma è sempre così, quando aspetti non arriva niente! Ora penso che, forse, se una volta arrivato in Italia avessi trovato una realtà diversa da quella, oggi non sarei qui, in carcere, a scontare più di venti anni di condanna. Forse, se le opportunità fossero state altre, forse… Al di là del nero e del bianco Uno spettacolo al Minorile di Treviso. “Andare a teatro” varcando per la prima volta i cancelli di un carcere minorile: riflessioni di una “spettatrice libera” su uno spettacolo dietro le sbarre
di Vera Mantengoli
È un caldo pomeriggio di fine settembre e finalmente è arrivato il giorno dello spettacolo che ho a lungo atteso, “Io amici non ne ho”, scritto e messo in scena dai ragazzi dell’Istituto di pena minorile di Treviso nel corso del laboratorio videoteatrale – iniziato a maggio e finito a settembre – condotto da Valentina Paronetto, attrice e regista, e Nicola Mattarollo, filmaker, consulente e formatore in campo audiovisivo, entrambi dell’Associazione Nats di Treviso. Sebbene da un anno frequenti il mondo carcerario – un po’ per lavoro, un po’ per volontariato – entrare in un carcere minorile per vedere uno spettacolo teatrale mi suscita delle forti emozioni: da un lato una sorta di rispetto – oserei dire quasi sacro – nei confronti di ogni lavoro maturato all’interno di un contesto sociale complesso, dall’altro una sorta di crisi perché questo luogo mi sbatte in faccia una realtà che, paradossalmente, dal momento in cui si apre il cancello in poi, si trasforma in una moltitudine di realtà – quella delle persone che abitano questo luogo di passaggio, delle vite che hanno lasciato fuori e di quelle che hanno incontrato dentro, la realtà che li ha portati in carcere e la realtà che incontreranno appena fuori dal carcere. Questo luogo diventa una sorta di luogo di confine perché, nonostante il perimetro definito da alte mura e il paesaggio statico e immobile non lascino intravedere nessun orizzonte – quasi fosse la fine di un mondo, sicuramente di una terra – si intuiscono nell’aria e negli sguardi di chi lo abita, mondi e realtà vive, che trasformano questo spazio apparentemente vuoto in uno spazio estremamente pieno. Uso la parola «confine» perché ci si scontra e ci si incontra con mondi individuali – e geografici – diversi e, di conseguenza, si mette alla prova anche il proprio mondo, i propri valori e la propria capacità di affrontare una realtà che non viene quasi mai neppure accennata ma che è lì, parte della nostra città, delle strade che percorriamo, della società in cui viviamo. Parcheggio all’interno delle mura e vengo accolta da una delle educatrici, una signora frizzante e solare che mi accompagna dentro la struttura. Mentre cammino tra i corridoi il luogo di confine si manifesta per una sua peculiare caratteristica, quella di essere un contenitore di contraddizioni: infatti, per esempio, nonostante entrare in un carcere dia sempre un certo senso di soffocamento, oggi si respira un clima di festa e tutti sono felicemente ansiosi di vedere che cosa sono riusciti a inventarsi questi ragazzi. Prima di accedere al cortile mi fermo qualche minuto nello studio dell’educatrice per lasciare qualche numero di Ristretti, e poi “Ragazzini e Ragazzacci” e “I buoni dentro. I cattivi fuori”, due libri riguardanti esclusivamente il carcere e la scuola. A questo proposito l’educatrice mi racconta che ogni inizio anno viene spedita a tutti gli istituti superiori della provincia di Treviso una circolare con la proposta di creare un ponte tra i ragazzi dentro e quelli fuori e stabilire un contatto tra due veri e propri mondi paralleli – a conferma della buona riuscita dell’iniziativa oggi ci sarà anche un gruppo di studentesse del liceo scientifico Da Vinci. Ci dirigiamo verso il cortile, un piccolo spazio con qualche albero, un tavolo da ping-pong e un calcetto balilla. L’attesa della rappresentazione provoca uno stato di febbricitante eccitazione in tutti i presenti. Si sente un grande movimento dietro la tenda che separa la sala teatrale dal cortile, dove alcuni ragazzi giocano con una giovane guardia e con il capo della polizia, altri camminano o ascoltano la musica con le cuffie. Piano piano lo spazio si sta riempiendo, entra il gruppo di scout della Caritas e le studentesse dello scientifico che, un po’ spaesate e intimidite, fanno gruppo in un angolo vicino alla porta del teatro. Anche i ragazzi fanno gruppo lì vicino e, se non fosse per queste alte mura, per qualche istante potrebbe sembrare una situazione normale in cui i ragazzi stanno da una parte e le ragazze dall’altra in attesa che qualcuno rompa il ghiaccio. È vero, si sente il peso di tutto quello che si vorrebbe fare “se non fosse per” ma c’è qualcosa di più forte: la giovinezza, l’adolescenza, chiamatela come volete, la voglia di fare, di vedere che cosa c’è dopo questa esperienza di perdità della libertà, il desiderio di giocare e di raccontarsi e di sapere che musica ascolti. È quasi tutto pronto, arrivano alcuni insegnanti, e Christine, l’insegnante di riferimento di “Innocenti Evasioni”, il giornale bimestrale del carcere minorile, mi racconta l’esperienza della redazione coi ragazzi e mi presenta il direttore, Alfonso Paggiarino, entusiasta dell’iniziativa che ormai da cinque anni, racconta, fa parte dei progetti alternativi accolti dall’istituto – di attività obbligatorie c’è soltanto la scuola alla mattina. Negli ultimi anni, prosegue, il carcere si sta sempre più aprendo all’esterno ma non riesce ancora a trovare soluzioni per il problema di molte persone straniere (nonostante i mediatori culturali, la lingua rappresenta una forte barriera per la comunicazione) e alcuni casi di analfabetizzazione – nel carcere di Treviso in questo periodo ci sono 3 italiani, 1 croato rom, 3 romeni, 1 albanese, 1 serbo. Mentre stiamo per concludere il discorso tutti gli attori si riuniscono e, come in ogni gruppo teatrale che si rispetti, viene pronunciata la parola magica – non la posso scrivere! – rituale d’obbligo pre-spettacolo.
Quando si viaggia per cambiare la propria vita, cercare di rovesciare il destino, tentare la fortuna, andare alla ricerca di veri amici…
E poi, finalmente, entriamo! La stanza è piccola ma accogliente: le sedie sono disposte come in un minuscolo anfiteatro, in senso semicircolare, e a ognuno viene consegnata una cartellina stampa con la presentazione del progetto, l’ultimo numero di “Innocenti Evasioni” e un vademecum sulle sostanze stupefacenti dell’Ulss 9. Io mi siedo in prima fila e guardo il palco: due tavoli, un grande televisore, due casse acustiche ai lati e una tenda bianca che funge da quinte teatrali dietro. Il pubblico è numeroso, molti sono in piedi, in fondo. Gli ultimi bisbigli scivolano sotto la tenda e raggiungono noi spettatori lasciandoci col fiato sospeso, le luci si spengono e, dopo qualche secondo di silenzio, lo spettacolo inizia con più voci narranti che raccontano, in un’altra lingua, una partenza, un momento della vita in cui qualcosa di importante ha avuto inizio, la genesi di un viaggio, la scelta di un cambiamento, il desiderio di scoprire il mondo per tentare la fortuna e uscire da una situazione di difficoltà economica. Nel televisore scorre la traduzione in italiano delle storie che lentamente introducono l’azione iniziale: Romeo chiama i suoi due figli e chiede loro di portare una valigia piena di soldi – guadagnati dopo anni e anni di fatiche – al nonno. I ragazzi ascoltano attentamente e promettono al genitore di stare tranquillo perché i soldi arriveranno sicuramente a destinazione. Inizia così l’odissea dei due fratelli, uno più coscienzioso e ligio allo scopo del viaggio – portare i soldi – e l’altro più attratto dai soldi che si possono investire e usare per arricchire la famiglia – un’ottima scusante – e sempre più accecato dal denaro a cui non sa rinunciare, nemmeno quando il fratello gli ricorda che non sono soldi loro, che sono il risultato di un sacrificio. Insomma, uno dei fratelli vuole aprire quella valigetta e mettere mano alle banconote. Entrano intanto in un locale per cena, discutendo sull’aprire o no la valigetta, e non si accorgono che vicino a loro un gruppo di uomini tirati a pennello sta studiando come fregarli. E fregare due ragazzi che non conoscono ancora le leggi della malavita è facile, perché basta incantarli promettendo macchine, appartamenti e chi più ne ha più ne metta. Da questo punto in poi i nostri due ragazzi inizieranno a precipitare in un vortice di bugie, inganni e debiti, la loro ingenuità verrà calpestata dal calcolo senza pietà degli scugnizzi del boss, Ranco, che non guarda in faccia la sofferenza di nessuno. La trama si dispiega in sintonia con alcuni video che, seguendo il viaggio e i dialoghi dei personaggi, sostengono il ritmo della scena attraverso brevi ma incisivi pezzi musicali dove un ottimo cantante – con una presenza scenica davvero notevole – si esibisce con musica gitana e hip-hop. La storia si sposta a questo punto a Napoli, nella terra governata da Ranco, il re degli sfruttatori che, con uno sguardo crudo e duro, fuma un sigaro in attesa che i ragazzi consegnino un camion di bambole di pezza, a loro insaputa imbottite di droga. I due, nel frattempo, continuano a discutere su come si sono inguaiati, guidando il camion che li porterà in Italia: uno dei due fratelli, simile al grillo parlante di Pinocchio, bombarda l’altro di domande e riflessioni sul loro futuro, l’altro invece evita di fermarsi a pensare. Dopo poco, i due vengono fermati dalla polizia e portati dentro con l’accusa di spaccio. La vertiginosa rovina dei due fratelli porterà anche la loro famiglia a cadere in un profondo baratro di disperazione, che viene rappresentata dall’ultima scena, davvero tagliente e toccante, in cui il padre dei due riesce a trovare Ranco e lo supplica di guardare il suo stato di miseria, di ascoltare la sua storia perché è lui che gli ha rovinato la vita. E allora il boss – che per quasi tutto lo spettacolo non parla ma comanda a gesti o a sguardi – esplode in una crisi urlando «La vita! Ma che ne sa lei della vita? Che ne sa lei della vita? Anche a me hanno rovinato la vita!» con una tale rabbia che lo rende finalmente umano e lascia intuire allo spettatore che anche il personaggio più duro nasconde, in realtà, una storia disperata, che lo ha portato a diventare un automa violento e senza pietà.
Uno spettacolo per mostrare che «anche loro lì dentro non sono cattivi»
Le emozioni che mi ha trasmesso questa rappresentazione teatrale sono apparentemente opposte e contraddittorie: ingenuità e violenza. Mi sono domandata se questi personaggi, estremamente stereotipati ma profondamente vivi, appartenessero davvero alla vita di strada o se fossero mitizzati dalla televisione di cui molti giovani ogni giorno si nutrono. L’ultima scena, però, restituisce una grande umanità all’intera storia. L’intensità del dialogo tra il padre Romeo e il boss Ranco chiude lo spettacolo lasciando un vuoto carico di storie sospese, un vuoto senza risposte che può soltanto essere raccontato da quelle voci iniziali che chiedono di essere ascoltate per uscire dall’indifferenza. È tristemente da evidenziare, infatti, come questi viaggi disastrosi verso l’Italia siano diventati “normali” e noi normali spettatori che guardano – come se non ci riguardasse – un disagio insostenibile di una parte di mondo alla deriva. All’uscita ci fermiamo a festeggiare e parlare: Valentina e Nicola mi raccontano che l’idea dello spettacolo è nata guardando alcuni film tra cui “Il tempo dei gitani” e “Gatto nero gatto bianco” di Kusturica, perché i ragazzi – lo confermano alcuni lì presenti – si riconoscevano nelle storie messe in scena. Hanno iniziato così a lavorare sull’improvvisazione, portando con spontaneità quello che più si era impresso nel loro immaginario, abituando il corpo al movimento e al lavoro di gruppo. Molti non sapevano che cosa fosse il teatro, alcuni ne avevano sentito parlare ma non si erano mai interessati. Uno dei protagonisti non se la sente di raccontare quello che il teatro gli ha trasmesso, perché altrimenti dovrebbe raccontare la sua storia ed è troppo personale – giustamente – ma mi dice che gli ha cambiato la vita e che vorrebbe continuare: lui questo spettacolo lo ha fatto per mostrare che «anche loro lì dentro non sono cattivi». Questa frase mi colpisce perché mi sembra la punta di un iceberg che nasconde una catena di problemi legati alla costruzione della propria identità, alla presa di coscienza della propria storia, a uno stato di confusione legato al futuro e all’idea che un ragazzo che sta dentro può farsi del mondo fuori e di chi lo abita. A questo proposito interviene padre Antonio che sostiene che l’attività teatrale è ancora più importante se si utilizzano i temi emersi per un lavoro più profondo, che serva ai ragazzi in un primo momento per prendere consapevolezza del loro percorso e, in un secondo, per costruire un progetto di vita. Il lavoro teatrale, continuano Valentina e Nicola, è iniziato, infatti, col tentativo di riflettere su che cosa è nero e su che cosa è bianco, su come possono essere le persone fuori, sul giudizio e sul pregiudizio della società che a sua volta è piena di contraddizioni e realtà che appaiono incompatibili. Se dire che cosa è nero e che cosa è bianco ci aiuta, in un primo momento, a fare un po’ di ordine nel caos, in un secondo momento ci fa, invece, riflettere sul fatto che la vita di ogni essere umano non è un insieme di schemi precisi e di logiche successioni di eventi, ma una moltitudine infinita di sfumature tra il nero e il bianco. Quando si ha una persona davanti, anche se pensiamo di sapere che cosa è bianco e che cosa è nero, dobbiamo allora abbandonare i nostri schemi e aprirci all’ascolto della narrazione di una biografia, andando al di là di quello che noi consideriamo bene e male. Parlando dello spettacolo e di come è cresciuto, i ragazzi sottolineano il ruolo essenziale della musica – ma non solo e non solo in carcere. Credo che la musica possa essere un ponte sicuro per raggiungere e comprendere un certo disagio che è sempre più presente nei giovani, che tentano disperatamente di comunicare le difficoltà che si trovano ad affrontare – si vedano, per esempio, i testi delle canzoni di Mondo Marcio, citato in molti articoli in “Innocenti Evasioni”. La sfida è quella di mostrare che non c’è soltanto un mondo marcio e che, sebbene non si possa negare che esista una parte di mondo così, è anche vero che il mondo non è solo così. Ho provato a riguardare “Gatto nero e gatto bianco” con gli occhi di chi si identifica nel film: soldi, potere, inganni ma anche due grandi amori. Mi domando – ma questa è una provocazione silenziosa che non vuole risposta – dove siano finite nello spettacolo le relazioni affettive e se rappresentino degli equilibri così precari che è meglio mettere in un cassetto di sicurezza, sperando che nessuno ne trovi la combinazione. Lascio aperta questa domanda anche perché un laboratorio teatrale non si risolve solo nello spettacolo finale, ma continua a vivere come spunto di riflessione, come parametro di giudizio della realtà, come mezzo per conoscere le emozioni. Credo che il senso di un laboratorio teatrale sia proprio quello di aprire una specie di fabbrica interna – mettetela nel cuore, nella mente, dove più vi piace – in cui sperimentare i nostri pensieri perché, non dimentichiamoci, lo spazio teatrale è il luogo di confine per eccellenza, dove tutto può accadere senza pericolo, dove si può giocare sempre e guardare il mondo e se stessi... perfino al di là del bianco e del nero.
“Innocenti Evasioni” è consultabile su:
I ragazzi del Minorile di Treviso raccontano ansie ed emozioni di una giornata “a porte aperte”
Una giornata diversa: fare una rappresentazione teatrale per quelli di fuori è stata un’occasione di confronto, un’occasione per vedere persone nuove, un’occasione per dimostrare che volendo anche noi riusciamo ad impegnarci in un qualcosa di buono. Mettersi in scena davanti a tutti non è semplice specialmente per persone come noi, che sono soggette a pregiudizi. Nonostante tutto abbiamo fatto questo per metterci alla prova, per provare un qualcosa di nuovo, tra mille difficoltà e un indulto che ha portato via molti “attori”.
Queste persone che sono venute a vederci e a conoscerci per la prima volta per me forse sono venute per curiosità verso il posto, verso di noi ed inizialmente ci osservavamo entrambi in posizione di difesa. Penso che loro avessero paura di stare in questo posto, forse perché hanno un’idea distorta e posso anche capirli perché l’idea di fuori è ben diversa dalla realtà. Sicuramente la non libertà è quello che colpisce di più e dà un senso di soffocamento, e poi penso che proprio le persone che sono qui dentro sono sempre raffigurate come esseri mostruosi, invece non è cosi, alla fine ci si accorge che siamo tutti simili e che per motivi diversi le vite cambiano.
Però una visita cosi isolata finalizzata ad una rappresentazione teatrale forse non è una cosa ben riuscita, anche perché si rischia di non apprezzare appieno l’impegno di uno e la volontà dell’altro, sarebbe più bello potere conoscere i veri pensieri che uno ha dell’altro scoprendo così chi si ha di fronte, e questo lo si otterrebbe se ci frequentassimo di più.
A mio avviso per gli incontri viso a viso farei venire persone nuove, invece per festeggiamenti, ricorrenze, lavori di gruppo sarebbe opportuno condividerli con persone che già conosciamo e che già ci frequentano e che sanno quanto sia stata difficoltosa ed impegnativa la preparazione.
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