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Una sicurezza che crea insicurezza Serve un carcere più umano, limitato a gravi situazioni, con possibilità di mantenere i contatti affettivi che limitino la "spersonalizzazione"
A scriverci, questa volta, è un funzionario direttivo del corpo di Polizia penitenziaria. Il nostro è un giornale fatto da detenuti e volontari, ma con la voglia di dare voce a tutti quelli che si occupano in qualche modo di carcere, e di mettere a confronto le più diverse opinioni. Questa volta pensiamo che abbia un senso pubblicare una testimonianza che arriva da quella che è considerata un po’ "l’altra parte", quella della custodia, della Polizia penitenziaria. Già è un segno di una forte voglia di dialogo che questo messaggio sia stato mandato a un sito, come è www.ristretti.it, gestito anch’esso esclusivamente da detenuti e volontari, ma poi è un segnale particolarmente importante, in un momento in cui in galera si respira aria di disperazione e di abbandono, che una persona che si occupa della formazione degli agenti scelga, invece di accentuare i motivi di divisione, di esporsi sostenendo con forza la necessità di un clima diverso nelle carceri, di una attenzione più decisa alle persone, di un concetto di sicurezza che parta dal rispetto della dignità delle persone.
La Redazione Salve, sono uno dei funzionari direttivi del corpo di Polizia penitenziaria, con alle spalle una discreta esperienza come comandante nel penitenziario di Prato. Da qualche mese sono impegnato nella formazione professionale riservata, appunto, ai neo funzionari. Il perché vi scrivo è legato a due semplici fattori: semplicemente volevo fare i complimenti a tutti quelli che si impegnano nel prezioso lavoro di questo bel sito; con molta franchezza volevo poi manifestare, e lo farò brevemente, quello che penso: in 21 anni ho visto cambiare molte cose all’interno del carcere, ma manca ancora quel senso di civiltà giuridica ed umana che possa finalmente portare ad affermare che, in questo Paese, si stia parlando in maniera seria di questa istituzione totale e violenta che, anziché far diminuire la recidiva, non fa altro che alimentare disagio sociale e produrre ancor più devianza e criminalità Mi rendo conto che quello che penso è assolutamente scontato. Aggiungo un’ultima cosa: personalmente ribadirò in tutte le sedi l’importanza della formazione per la Polizia penitenziaria, perché il contatto con il ristretto è di questi operatori, prima che di altri (non per importanza, ma semplicemente per quantità di contatti), perché si arrivi ad una cultura diversa di questo importantissimo lavoro. È necessario ripensare la formazione in questi termini (qualche passo in avanti negli ultimi anni si avverte) perché nessuno può continuare a giudicare chi è stato giudicato, perché far bene questo lavoro non significa solo avere l’occhio puntato sul problema della sicurezza, perché è proprio una sicurezza a senso unico, spesso cieca e non lungimirante, che crea insicurezza, anche e soprattutto in carcere. Serve un carcere più umano, limitato a poche e gravi situazioni, con possibilità di mantenere i contatti affettivi e sociali che limitino al massimo la "spersonalizzazione" che "imprigiona" il detenuto, un carcere che non sia più vissuto come vendetta sociale ma come potenziale momento di ripensamento di un percorso di risocializzazione (sempre che le condizioni esterne, in termini di cultura generale dei benpensanti e soprattutto di miglioramento delle protezioni sociali per i tanti nuovi marginali, possano migliorare).
Tutti noi abbiamo il dovere di domandarci se il nostro lavoro di poliziotti penitenziari sia un lavoro di qualità
Un problema per me fondamentale è poi che nessuno, e in particolare nessuno dei rappresentanti sindacali, parla seriamente della qualità del lavoro della Polizia penitenziaria, del valore sociale di questo lavoro. Tutti si sbracciano nell’inseguire nuove frontiere professionali nella logica che ciò corrisponda ad un innalzamento professionale per il Corpo. Se questo è vero, lo è in maniera marginale. La Polizia penitenziaria ha cambiato molte cose al suo interno, ed alcune specialità hanno dato un contributo ad innalzare la professionalità. Io ritengo che tutti noi abbiamo il dovere di domandarci se il nostro lavoro di poliziotti penitenziari sia un lavoro di qualità; se non lo è, chiederci i tanti perché, e pensare ai necessari correttivi. Sono per una rivalutazione della qualità del servizio che la Polizia penitenziaria svolge con fatica tutti i giorni negli istituti di pena, perché è solo rivalutando la qualità di questo servizio che ne potrà trarre giovamento, nei limiti in cui ciò sarà possibile (viste le storture del sistema, piegato agli equilibri politico-sociali), un clima diverso all’interno del carcere. Ecco, ho parlato del clima. Il clima secondo me è l’aria che si respira dentro una organizzazione, la faccia delle persone – e non distinguo fra operatori e ristretti ed appositamente parlo di persone – che vi si trovano all’interno con ruoli diversi, il modo di esprimersi e di pensare di queste persone. È necessaria una cultura diversa, rispettosa a prescindere dei diritti di tutti – lavoratori e detenuti – e questa cultura di cambiamento è lontana a venire. Scherzando, qualche mese addietro dissi ad un collega che il mio concetto di sicurezza del penitenziario riflette, per molti aspetti, almeno concettualmente, il modello Parisi. Mi chiese di spiegarmi meglio. Ecco, agli inizi degli anni 80 l’allora capo della polizia iniziò a parlare di gestione di ordine pubblico in modo differente rispetto ai predecessori, ed effettivamente in occasione di grandi manifestazioni la forza pubblica era una presenza discreta ed attenta, i contatti fra i funzionari e gli organizzatori della manifestazione erano intensi nella fase preparatoria e continuavano anche durante la manifestazione. C’era sinergia. L’ordine pubblico in carcere, secondo me, è così. Le aperture trattamentali con un discreto controllo fanno sicurezza, innalzano il livello di sicurezza e portano ad un giudizioso recupero di risorse, a garanzia di una sana amministrazione del personale, i cui diritti sono realmente compressi. Il professor Cazzola, quando qualche anno addietro era assessore in regione in Toscana, affermò che "come non basta nella vita quotidiana, fuori dal carcere, il semplice ricorso all’ordine pubblico ed alla repressione per risolvere i problemi, è ovvio che il solo ricorso alla coercizione non basta a risolvere i problemi all’interno del carcere. Dentro e fuori dalle sbarre, l’unico modo serio di affrontare i problemi è riuscire a governarli, e questo comporta maggiore impegno e maggiore collaborazione interistituzionale e personale, della semplice custodia". Questo concetto per me è centrale. Giuseppe Pilumeli
Non ho mai voluto fare quello che ho fatto. Darei la mia vita in cambio… ma non posso tornare indietro! Un ragazzo detenuto per un grave reato, il suo dolore, la paura, poi improvvisa la morte: ce ne parla Daniela, la sorella, che rivendica anche per chi ha commesso reati di sangue il diritto di parlare in pubblico, e di portare la sua testimonianza
Tempo fa abbiamo pubblicato le riflessioni di un lettore, che aveva letto alcune testimonianze di detenuti, colpevoli di reati di sangue, e da una parte affermava di essere rimasto colpito dalle loro parole, dall’altra si domandava se fosse giusto dar loro modo di parlare pubblicamente. Ha voluto rispondergli Daniela, e la sua risposta è doppiamente importante: perché lei è la sorella di un detenuto condannato per omicidio, e perché quel giovane detenuto è morto in carcere, una delle tante morti "da carcere" che siamo costretti a registrare ogni mese, per suicidio, per disperazione, per droga, per patologie gravi che quasi sempre sono diagnosticate in ritardo e curate quando ormai non c’è più niente da fare.
"Mio fratello soffriva terribilmente per ciò che aveva fatto"
Sono una ragazza di 34 anni, mi chiamo Daniela e vi scrivo innanzitutto per complimentarmi con voi per il vostro giornale, al quale sono abbonata, ed è un abbonamento che consiglierei a tutti gli italiani di fare… E poi vorrei rispondere al messaggio di Riccardo, pubblicato sul numero 4/2004 di Ristretti Orizzonti, perché sono rimasta profondamente colpita nel cuore da una frase che lui ha scritto rivolgendosi a persone che hanno commesso reati di sangue, che diceva "da una parte penso che non dovreste permettergli di parlare pubblicamente…". Spero con questa mia lettera di fargli cambiare idea!
Caro Riccardo, sono la sorella di un ragazzo che ha ucciso una persona, sono rimasta molto sconfortata dalle tue parole, mi hanno fatto molto male, nonostante io sia consapevole che la maggior parte dell’opinione pubblica ha le tue stesse idee, in quanto viviamo in una società che è brava solo a giudicare senza cercare di comprendere il "perché"! Come te, non conoscevo "il mondo dei detenuti", non riuscivo nemmeno ad immaginare come si vivesse dentro un carcere, ma ciò che andava al di là di ogni mio pensiero è quanta tristezza e solitudine "vive" tra quelle mura. La mia educazione però mi ha insegnato a cercare di comprendere gli altri, di non giudicare i loro sbagli e pensare sempre a come avrei affrontato io un determinato problema, ed essere comunque consapevole che ogni persona ha un proprio modo di reagire agli eventi. Ho iniziato ad interessarmi, a "conoscere" e voler in qualche modo aiutare questo "popolo" dopo l’arresto di mio fratello. Christian, questo è il nome di mio fratello, è entrato in carcere a Montorio (Verona) il 21 dicembre 2003: era totalmente sotto shock, non si rendeva conto di ciò che era successo, ciò che lui ha sempre e solo ricordato era l’inizio della lite con l’altro ragazzo, poi buio! Al contrario di ciò che tu e l’opinione pubblica può pensare anche gli "assassini" hanno un cuore, e mio fratello soffriva terribilmente per ciò che aveva fatto ed era pronto a pagare la sua pena. Scrisse anche una lettera ai famigliari del ragazzo che aveva ucciso, ma non ha avuto il coraggio di spedirgliela in quanto rispettava il loro dolore, e la diede in mano all’avvocato. Tra indagini, testimonianze e perizie psichiatriche la posizione legale di mio fratello era migliorata di netto, tante accuse contro di lui sembravano cadere. Mio fratello stava provando a rifarsi una vita, il 21 giugno 2004 si è sposato in carcere con la sua ragazza, lui aveva molti amici in carcere, si faceva apprezzare per la sua sensibilità nell’aiutare quei detenuti "dimenticati" da famigliari e amici, era molto buono e gentile Christian. Il 21 luglio 2004 mi è giunta la tragica notizia che mio fratello, a soli 26 anni, dopo "solo" sette mesi di carcere è deceduto misteriosamente nella sua cella di Montorio, dopo appena 45 minuti che aveva terminato il colloquio con la mia mamma e sua moglie. Ci sono delle indagini in corso e voglio mantenere il massimo riserbo per il grande rispetto che ho nell’operare della magistratura, ma ti assicuro che non si è suicidato e che le sue condizioni di salute erano discrete per l’ambito carcerario, infatti solo due giorni prima era andato a visitarlo un nostro medico legale. Noi famigliari stiamo vivendo nell’angoscia e nel dolore, ma attendiamo con ansia gli esiti dell’autopsia. Al funerale di mio fratello è stata resa nota la lettera che aveva scritto ai famigliari del ragazzo che lui aveva ucciso… questa lettera diceva: "Vorrei che sapessero che non ho mai voluto fare quello che ho fatto. Darei la mia vita in cambio… ma non posso tornare indietro!". Ora chiedo a te Riccardo: pensi che queste siano parole di un essere così crudele? A mio parere sono parole di una persona che in un attimo di follia si è ritrovata un problema più grande di lui… e lui di questo suo gesto soffriva terribilmente! E sappi che di Christian ce ne sono tanti nelle carceri! Io penso valga la pena aiutare seriamente queste persone e dare loro una seconda possibilità! Io sono convinta che dovremmo essere tutti più sensibili verso il popolo dei detenuti. Daniela Orlandi
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