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Una madre dopo il carcere deve rientrare in famiglia in punta di piedi Tutti i dubbi e le paure delle madri detenute raccontati a una psicologa che sa ascoltare
Se una donna detenuta, parlando con la psicologa, dimentica il suo ruolo istituzionale, il fatto che lei possa far parte dell’équipe che valuterà il suo percorso in carcere, significa che quella psicologa sa davvero aiutare le persone, affrontare con loro i nodi dolenti della vita, il dramma della privazione degli affetti, che cosa vuol dire avere un figlio che non vedrai crescere, e passare gli anni nell’impotenza della galera. E Ida De Renoche è davvero così, le donne della Giudecca parlano volentieri con lei perché non la considerano "la psicologa del carcere". L’abbiamo incontrata in redazione, chiedendole prima di tutto di parlarci del rapporto delle madri detenute con i figli: tenerli o no in carcere fino ai tre anni, dir loro la verità e come dirla, come riuscire a "rientrare" in famiglia nel modo più indolore possibile.
Ida De Renoche: Mi avete chiesto se una madre che sta in carcere deve dire la verità a un figlio, e se e come posso aiutare le persone a farlo, e questo è appunto e semplicemente il mio compito, "aiutare le persone". Qual è allora la mia risposta? la risposta naturalmente è commisurata all’età del bambino, però una regola generale che va bene per tutti i fatti della vita è la verità. Questo è un principio semplice che si può generalizzare, un bisogno di verità nei rapporti umani, nei rapporti psicologici a tutti gli effetti. Quando un bambino si sente tradito, quando non c’è la verità, quello è un tradimento ancora più grande rispetto al tradimento dell’abbandono. Il bambino piccolo, tutto quello che succede in famiglia intorno a lui, lo vive sempre come colpa sua, quindi, se il papà o la mamma se ne vanno (questo succede anche nelle separazioni, nei conflitti familiari), è perché lui non se lo meritava, lui non è stato talmente bravo o calmo da riuscire a tenerli vicini. Ecco perché io dico che è sempre bene mantenere una situazione di verità, commisurata però alla capacità di comprensione del bambino. Di che cosa ha bisogno il bambino? Ha bisogno di vedere i genitori. Meglio che li veda in carcere piuttosto che aspettare anni per vederli, meglio che il bambino si confronti con le figure dei genitori, che non siano fantasmi. Confrontarsi con la realtà, questo conta, a tutte le età, non c’è differenza. Un confronto con la verità e la realtà, però preparato tenendo conto delle possibilità del bambino, quindi la realtà gli sarà data, non falsificata, non mistificata, non tenuta sul vago, anche se poi questa verità verrà riempita, completata via via che il bambino cresce. Sto pensando a lunghe separazioni, non a qualche mese, perché pochi mesi è una separazione che può essere riempita molto bene da lettere ed altri tipi di presenza. Sto pensando a tempi molto lunghi di distacco, quando però il padre o la madre il bambino devono comunque vederlo, devono confrontarsi con lui, per questo è importante una attenta preparazione della madre, del padre, del bambino. Quello che è fondamentale è mantenere sempre vivo il ricordo interno del genitore. Il genitore non deve morire. Ecco, a questo sto pensando, a separazioni del passato, alle guerre per esempio, che creano degli squilibri forti, per cui la persona comunque deve essere preparata, e questo è appunto il mio ruolo. Esempio: se il bambino è affidato ad una cognata, ad un parente, ad una suocera, bisognerà che quando ritornerà la madre non sia l’occasione per un altro conflitto o il sorgere di un altro problema. Perché il bambino prima deve riconoscerla interamente, questa madre. Non basta un "sono tua madre, arrivo". Allora bisogna ragionare, mettendosi anche dalla parte degli altri, e invece ho visto che tante volte c’è un desiderio così forte del figlio, che vederlo diventa quasi un diritto e basta. Ci sono queste fantasie, che fanno credere che una donna uscita dal carcere riprenda immediatamente il suo ruolo, il suo posto non solo fisico ma anche negli affetti, invece non c’è niente di più sbagliato, perché in quel tempo in cui voi siete state qui, ci sono stati altri affetti, altri legami, altre reazioni che bisogna rispettare, quindi la prima cosa che deve fare una persona è di entrare in punta di piedi, piano piano guardandosi intorno, per capire cosa è successo in questo tempo. Ornella (volontaria): Tu dici giustamente di rientrare in punta di piedi, mi pare una bella immagine. Io vedo le donne che iniziano un percorso fuori con la semilibertà e l’affidamento, e passano da una condizione in carcere che comunque ha qualche tutela, qui c’è lo psicologo, ci sono dei punti fermi, ad uno stato di abbandono fuori. Questo non è un problema grave? Mi sembra che questa sia la fase più difficile, quando una donna rientra in famiglia o comunque rientra nella vita "libera", e ci sarebbe bisogno di attivare delle risorse nuove. Ida De Renoche: Io sono vincolata al mio ruolo qui dentro, il mio compito istituzionale è l’osservazione, la valutazione in carcere, fuori ci sono altri servizi, anche se io naturalmente resto sempre disponibile. Silvia: Il problema mio per esempio è che mia figlia l’ho lasciata con i nonni paterni, perché non ero in grado di tenere un bambino come dovrebbe essere, la tossicodipendenza non ti dà modo di farlo. Mia figlia non lo sa che sono qui e non voglio che lo sappia, e per me anche in futuro sarà dura comunque dirglielo. Lei continua ad avere un buon rapporto con mio padre e mia sorella, si vedono ogni settimana, e attraverso di loro in ogni caso un minimo di presenza mia c’è. Da quello che mi dice mio padre, so che lei ha un equilibrio abbastanza stabile, quindi se io le piombo lì non vorrei rovinare di colpo la sua vita. Io non volevo che mi vedesse in questo periodo, perché mi sento brutta, perché stavo e sto molto male e piuttosto che lei mi vedesse così ho preferito non vederla affatto. Ida De Renoche: Questo mi pare sano e saggio. Silvia: Credo di aver fatto bene a lasciarla ai nonni, anche perché a quest’ora i servizi sociali me l’avrebbero già tolta, invece così so che sta bene. Sarebbe stato egoistico da parte mia volerla tenere con me in questo modo. Adesso sono tre anni che non la vedo. Comunque lei è rimasta con me fino agli otto anni, anche perché avevo smesso di usare droghe, poi ci sono ricaduta e non potevo più tenerla con me. Con la vita che facevo… è successo quando mi sono separata da mio marito, mi sono persa! Io comunque non credo che i miei suoceri parleranno male di me con mia figlia, io l’ho lasciata con loro solo perché era meglio per lei. Giulia: Mio figlio se ne accorgeva quando mi facevo, perché i bambini non sembra ma vedono e capiscono tutto. I primi tempi riuscivo a nasconderlo, ma poi non è stato più possibile. Silvia: Io infatti sono sparita per quello, perché non volevo che mia figlia mi vedesse così. Ida De Renoche: Sì, però adesso il sentimento che vivi è di paura e angoscia, e se vuoi affrontare la vita devi fermarti un attimo a pensare. Perché tu certo ti ritrovi in questa brutta situazione, molto dolorosa, ma questa ragazzina si è vista sparire sua madre e si domanderà dove sarà finita. La realtà è sempre più sopportabile che il non sapere. Questo allora è un problema da affrontare per fare un progetto graduale per il futuro. Ecco, a proposito di maternità, le vostre situazioni sono difficili, a volte drammatiche, è importante che, in questa fase in cui avete la possibilità di confrontarvi e di riflettere, possiate fare un progetto relativo ai figli. Ci possono essere tanti modi diversi di essere madre, tanti altri modi nella vita di realizzare la maternità, tenendo conto di tutto quello che è successo prima. Naturalmente se l’illusione è quella di fare finta che non sia successo niente, allora è grave, perché possono nascere delle fantasie, delle illusioni che non sono realistiche, e possono solo confondere il percorso futuro. Silvia: Mio marito, il padre di mia figlia, mi dice sempre che quando sarà più grande glielo spiegheremo, quello che mi è successo. Ida De Renoche: Forse, invece di aspettare tanto, sarebbe meglio iniziare a dirglielo ora, dato che non è più piccolina. Chissà quante domande si farà, ci sono i compagni di scuola che magari la informano, poi succede che lo vengono a sapere da altri e dopo è peggio. Allora fate gli adulti e affrontate il problema. Silvia: Ma io non sono, non mi sento ancora adulta. Ida De Renoche: Una bambina comunque a tredici anni sa già tante cose della vita, non è più tanto piccola. Ornella: Mi ricordo che un’altra detenuta, Patrizia, aveva scelto di non dire a sua figlia che era in carcere e per due anni l’ha lasciata ai suoceri e le ha detto che era all’estero, però adesso che è uscita in detenzione domiciliare le ha raccontato tutto ed è andata anche con lei in carcere a trovare il suo compagno, il padre della bambina che è ancora detenuto. Con tutte le sue difficoltà è riuscita a recuperare il rapporto con sua figlia e mi sembra che adesso tutto vada molto meglio. Lidana: La bimba era anche più piccola di quella di Silvia, aveva sette anni. Tredici anni è un’altra età. Ida De Renoche: Però è importante anche avere la consapevolezza di non voler invadere gli affetti che lei ora ha e di non avere pretese particolari. Silvia: È questa la mia paura, ed è quello che probabilmente mi frena. Ho terribilmente paura di entrare in modo massiccio nella sua vita, e non vorrei invece sconvolgere quella sua piccola tranquillità. Mi sento in colpa nei suoi confronti e comunque non farei niente per toglierla dai suoi nonni, quando sarà il momento deciderà lei cosa vorrà fare. Bisognerà anche vedere come mi comporterò io con lei, è una situazione difficile. Zolia: Io mi sentirei molto male se i miei figli crescessero senza di me e senza il mio affetto, quando sono vicini a me sento la vita in un altro modo, una mamma sta sempre in pena per i propri figli e io ho paura di questa cosa. Purtroppo la nostra cultura ci porta sempre in carcere, noi ci manteniamo andando a rubare, ci hanno insegnato così. Io voglio cambiare vita perché non ce la faccio a continuare la vita così e non ce la faccio a resistere senza i miei figli e senza mio marito. Perché non si può continuare a soffrire per anni, proprio non si può. Giulia: Sì, però allora parliamo di come stanno i bambini in carcere, di questa specie di detenzione speciale che vivono fino ai tre anni qui dentro. Ida De Renoche: Ma che cosa è la maternità? Maternità è creare qualcuno di diverso da sé. Tante volte quello che ho sentito qui è anche un bisogno particolare che non si capisce se è un bisogno di sentirsi madre o è di preoccuparsi davvero prima di tutto per il bambino e per il suo bene. Comunque il bambino è debole, il bambino ha tutta la vita davanti e io dico che è sempre bene pensarci, prima di tenere un bambino qui dentro. Lidana: Ma anche una donna che non ha figli e voglia rifarsi una vita e voglia avere un bambino suo, in carcere non si ritrova mai con la possibilità di averlo… e non è semplice neanche questo. Anche perché hanno diritto tutti di rifarsi una vita, sia i bambini che gli adulti. O gli adulti li buttiamo via prima del tempo? Francesca: Io non sono mamma (per ora), però spero anch’io di avere un figlio un domani, e dato che io sono una figlia in carcere e mia mamma è fuori, mi piacerebbe capire se si può paragonare questa condizione con quella della mamma all’interno e il figlio fuori, se la sofferenza del distacco è uguale. Io adesso parlo per mia mamma che è fuori e soffre tantissimo che sua figlia sia in galera. Ida De Renoche: È sempre una separazione di affetti e comunque è uguale, le separazioni sono sempre traumatiche per tutti. Quando c’è un legame molto forte come quello tra madre e figli, è duro il distacco, comunque non basta stare sempre attaccati al bambino per avere un figlio sano psichicamente, questo non è essenziale, bisogna avere una relazione madre e bambino sana. Vuol dire che questa madre dà sufficienti sicurezze al bambino per affrontare la vita fuori e affrontare anche le separazioni. Su questo bambino, da quando nasce, deve esserci quindi un progetto differente da quello che riguarda te, che sei la madre. Allora questi tre anni di vita qui dentro sinceramente a me danno dei problemi, perché il bambino è fuori dal mondo: c’è un primo anno di vita importante, però dopo bisogna vedere in che condizioni psicologiche è questa mamma detenuta, come ha vissuto questo primo anno di vita del figlio, se la struttura l’aiuta a risolvere i problemi psicologici che ha avuto. Francesca: Secondo me è giusto che i bambini rimangano fuori dal carcere e poi vengano a fare i colloqui con la madre, ma almeno non vivano questa realtà, e comunque anche così rimangono in contatto con la madre. Ida De Renoche: Le storie però sono diverse, e non si può mai generalizzare, e se è una carcerazione di qualche mese è bene che il bambino ne stia fuori, ma se gli anni sono tanti le cose sono diverse. Giulia: Si parla tanto di madre e bambino, ma del rapporto tra il padre e il bambino non si parla quasi mai, perché? Capita anche che ci sono padre e madre in galera. È così diverso il rapporto che può avere il papà nei confronti di un bambino? Secondo me è lo stesso, è vero che qui siamo tutte donne e che la donna porta in grembo il bambino, ma in realtà però se parliamo di relazione e di affetti non so… per me può essere più importante mio padre che mia madre. Perché non mi può essere data la possibilità di vivere con mio padre, o di passare con lui un determinato periodo di tempo? Può darsi che con mio padre abbia instaurato un rapporto migliore che con mia madre. Ida De Renoche: Io però vorrei ritornare al bisogno del bambino. Allora il bambino nei primi anni di vita ha bisogno di avere la costanza di una presenza vicina che si occupa di lui, il rapporto con tutto il mondo, il mondo esterno, tutti i rapporti umani che lui avrà, sono condizionati da questo suo primo rapporto che lui prende come punto di riferimento, e normalmente questa sua figura di riferimento è la madre. Però non è detto che un bambino stia male, se comunque cresce con un’altra figura che sia positiva, che riesca a preservarlo dalle ansie, e che abbia un comportamento giustamente protettivo. Katharine: Il genitore che ha da scontare un lungo periodo in carcere, magari di otto-dieci anni, perde spesso il bambino e perde tutto quanto, perché il carcere non ti dà davvero la possibilità di stargli vicino. È questo il nocciolo del problema. Uno stato che è basato sulla famiglia, non dà la possibilità di mantenere questa famiglia unita, perché il carcere la famiglia la distrugge e basta. Si mette uno dentro e poi è finito tutto. È giusto che uno paghi per quello che ha fatto, ma la famiglia non c’entra niente, e invece anche loro pagano insieme a noi. Ornella: Una cosa comunque difficile da far accettare è che una donna che è stata in carcere può essere una buona madre sotto tutti gli aspetti, non è detto che essere una buona madre significhi essere una madre perfetta, alla quale non si perdona nessun errore. Ida De Renoche: La verità del bambino è potersi confrontare con una figura che gli dia fiducia, questo mi sembra importante. Bisogna allora permettere a chi è in carcere di avere rapporti costanti con i propri figli, cercare di preservare i bambini dal peggio del carcere e di far loro affrontare i colloqui in modo non traumatico, e io cerco di prepararli a questo, di sensibilizzare l’istituzione perché l’ambiente sia il più confortevole possibile, perché ci sia una stanza con dei giochi e possa esserci anche uno scambio con il corpo per il genitore. La separazione totale per il bambino non va bene, deve comunque riconoscere i propri genitori per quando sarà più grande e confrontarsi anche con questa realtà.
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