Editoriale

 

Dopo carcere: condannati a correre?

 

di Ornella Favero

 

C’è una vecchia canzone di Bruce Springsteen che si chiama “Born to run”, nato per correre. Mi viene in mente spesso, quando vedo come si dipana la vita di una persona che, dopo anni di galera, esce dal carcere, in misura alternativa o a fine pena, o magari con l’indulto.

L’indulto è al centro di questo numero di Ristretti Orizzonti anche perché ha messo a nudo quello che sapevamo, ma forse non abbastanza, o meglio forse ci voleva uno scossone così per farcelo capire meglio: il fatto che, per chi è impegnato nel volontariato, è il “dopo carcere” la vera sfida, una condizione infinitamente più difficile da affrontare, più frustrante, più esposta a delusioni feroci. È la libertà infatti che scatena i problemi, che riapre capitoli difficili nella vita delle persone, come la tentazione della droga, l’alcol, il disagio psichico, o che ne apre anche di nuovi, come i legami famigliari distrutti e la fatica di costruirne di nuovi.

Quella dei volontari allora diventa una faticosa rincorsa di uomini e donne che sembrano, appunto, “nati per correre”, o meglio “condannati a correre”. È questa, in fondo, la grande fregatura, la condanna che incombe su chi esce dalla galera: abbiamo mai provato a immaginarci, noi che abbiamo delle vite più o meno regolari, che cosa significhi, a quaranta-cinquant’anni, mettersi in competizione con gente più sana, che conosce meglio il mondo, gente che ha costruito qualcosa, delle relazioni, una famiglia, dei figli, un lavoro che qualche soddisfazione la dà, una casa almeno confortevole? Uscire dalla galera ed essere niente, guardarsi intorno e vedere che chi ha la nostra età ha messo radici, ha finito di essere uno spiantato, e noi niente, noi a combattere per la sopravvivenza, e soprattutto senza nessuna speranza se non quella, appunto, di sopravvivere per anni.

È il momento dei confronti quello che spesso scatena i disastri: perché la prima illusione che nasce in chi ha appena finito di scontare una pena è che sia possibile recuperare in fretta il tempo perso. Correre insomma, correre per avere più soldi, correre per avere un legame affettivo solido, correre per esistere. Ho visto storie d’amore nascere e morire in poco tempo perché lui, uscito da poco dalla galera, voleva subito sicurezze, promesse da qui all’eternità, voleva spingere sull’acceleratore perché “non ho più tempo per costruire pazientemente un rapporto, ho bisogno di avere subito tutto quello che il carcere mi ha tolto”. È paradossale, ma la mia attività di volontariato “fuori” è quella di fare prevalentemente il pompiere: spegnere gli incendi, raffreddare i motori surriscaldati, spiegare con la forza del buon senso che il tempo del carcere non si può recuperare più, che è meglio investire su un futuro lento e cavarsi dalla testa che sia possibile riavere indietro la propria vita per rigiocarsela interamente.  Magari cancellando l’esperienza del carcere, dimenticandosela: altro errore, a volte fatale. Perché la galera è come una ferita profonda, che però si rimargina in fretta a contatto con l’aria salubre della libertà. Ma sentirsi “guariti” è un rischio, e il naturale entusiasmo che ho visto in chi usciva dal carcere grazie all’indulto l’ha evidenziato subito, questo pericolo di rimettersi a correre per costruire in fretta quello che la carcerazione aveva bloccato, distrutto, congelato.

 

 

Home Su Successiva