Donne Dentro

 

Storia di Maria, ragazza colombiana innocente

Ha vinto una battaglia, dimostrando di essere stata ingiustamente coinvolta in una storia di traffico di droga, ora deve lottare per dimostrare che è anche una buona madre

 

di Laura Caputo

Casa circondariale di Modena

 

Per raccontare la storia di questa ragazza colombiana passata nel carcere di Modena, bisogna cominciare dall’inizio, altrimenti non si potranno sfatare tutte le idee preconcette che la sua origine e la sua vicenda certamente susciteranno.

È arrivata in Europa con la sua famiglia che aveva solo undici anni. Da qualche anno abita a Parigi. Lì ha conosciuto un giovanotto seducente e affettuoso, anche lui colombiano. Hanno vissuto insieme, hanno avuto due bambine, poi recentemente si sono separati. Naturalmente i contatti sono rimasti intatti, perché si può cessare di essere conviventi, ma non genitori. Almeno così pensava lei, Maria. Un piccolo appartamento affittato con l’aiuto dei Servizi Sociali francesi dovuto per legge alle madri single. Un lavoro part-time, un po’ di vestiti colombiani rivenduti in Francia guadagnando di che vivere. Maria va perfino a scuola: presto la figlia maggiore frequenterà le elementari e lei non vuole essere da meno, vuole che il suo francese sia all’altezza, proprio come quello di una nativa.

Il suo ex-convivente si riavvicina. “In fondo si potrebbe ritentare – pensa lei – le mie bambine hanno diritto a un padre a tempo pieno”. Sono giovani, tutto sommato i motivi che li hanno separati non sembrano essenziali, così, quando lui propone una bella gita a Venezia – una specie di viaggio di nozze che non hanno mai fatto – Maria è felice e acconsente. Naturalmente porta con sé le bambine di quattro e cinque anni.

Si fermano a Modena. Li aspetta la polizia: una breve perquisizione individua ben sei chilogrammi di cocaina malamente nascosti nella ruota di scorta. Le bambine vengono affidate a un centro di accoglienza e i genitori finiscono in carcere: doveroso. Passano cento giorni, durante i quali il Tribunale dei Minori di Bologna decreta la sospensione temporanea della patria potestà per ambedue i genitori: altro provvedimento doveroso, quindi comprensibile. Poi il processo, che permette di chiarire l’innocenza totale di Maria. Lui, il padre delle bimbe e ex convivente, reo confesso e pienamente responsabile di avere trascinato la famigliola nella tragica avventura, naturalmente viene condannato.

Tutti a questo punto penseranno che Maria possa uscire, recuperare le sue bimbe, tornare a Parigi e cercare di dimenticare la brutta avventura. Ebbene è proprio a partire da questo preciso momento che la vicenda merita di essere raccontata. Il decreto che sospende la patria potestà ai genitori per affidare la bambina ai Servizi Sociali del Comune di Modena non è ancora stato revocato: senza questo atto, nulla di ciò che parrebbe normale è possibile.

Maria è in una città sconosciuta, ospitata caritatevolmente da un gruppo di suore perché rifiuta di andarsene senza le sue bimbe: fra rinvii, vacanze e altro passa un mese e mezzo. Finalmente l’udienza: nessuno è ansioso perché pare talmente ovvio che il Giudice dei Minori non vorrà aggiungere, al danno, la beffa. E c’è la sentenza del Tribunale Penale, avverso la quale il Sostituto Procuratore nemmeno si è appellato, parendogli equa.

Insomma, quel tale che rappresenta la pubblica accusa, quello che ha indagato per capire esattamente come sono andate le cose, si ritiene soddisfatto, quindi l’assoluzione di Maria ha perfino la sua implicita benedizione. C’è anche un altro fatto: i Servizi Sociali francesi seguono da tempo la mamma e le due bimbe, una di nazionalità francese fra l’altro, con piena soddisfazione. Verrebbe dunque da pensare: non c’è reato commesso sul suolo italiano, sono tutte e tre residenti regolarmente a Parigi, perché non dovrebbe essere permesso a loro di tornare a casa?

Ebbene, no. Il Giudice del Minori si oppone, superando la sentenza penale e senza fornire alcuna prova, sostenendo che – da parte di Maria – ci potrebbe essere stato concorso passivo nel traffico di droga, non perseguibile penalmente, ma moralmente riprovevole. Decreta dunque che, se vorrà stare accanto alle figlie, dovrà accettare di essere ospitata in una casa famiglia affinché si possa studiare il suo comportamento materno nel tempo e magari rieducarla.

E la sua casa a Parigi? E il suo lavoretto? E la sua vita? E le bimbe che non capiscono nulla di quanto è successo e si rifiutano di rivolgerle la parola finché non le riporterà a casa? Non importa: Maria ha il torto di essersi trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato, come si dice. Ha il torto che le sia accaduto in Italia, dove la Giustizia spesso è forte con i deboli e debole con i forti.

Ragionando dell’indulto con un sano buon senso

Ma davvero si sarebbe potuto fare tutto con calma, bene, in modo organizzato?

 

a cura della Redazione della Giudecca

 

Chiaramente se facevano un indulto preparato accuratamente con quello che nel 2000 Sergio Segio e Sergio Cusani avevano chiamato un “piccolo Piano Marshall” per le carceri, con posti disponibili nelle Case di accoglienza e nelle Comunità e prospettive lavorative per chi esce, sarebbe stato meglio, però lo sappiamo che da anni la politica si è impantanata in difficoltà paralizzanti quando ha tentato di fare una legge sull’indulto. Allora qualcuno pensa davvero che si poteva ragionarci su, trattare, scaglionare le uscite, ritardarle, predisporre prima un piano serio di accoglienza per tutti? Gli stranieri, per esempio, con loro che cosa si faceva? Gente che scegliesse il rientro, più o meno assistito, nel suo paese spontaneamente non ce n’era o quasi, possibilità di regolarizzazione per quelli che già lavoravano ed erano di fatto reinseriti, men che meno.

E gli italiani? Si faceva l’indulto subito, per evitare che crollasse, come è successo tante volte, quella delicata costruzione di consensi, realizzata con enorme fatica e sempre sul punto di liquefarsi all’ultimo momento, e poi si aspettava un mese ad applicarlo, per predisporre gli interventi di emergenza? Noi siamo realiste, pensiamo che le carceri con migliaia di persone che davano di matto nell’attesa che gli comunicassero l’ordine di scarcerazione, che nell’incertezza non reggevano lo stato di tensione e facevano uscire di testa anche i loro incolpevoli compagni o compagne di cella sarebbero state più ingovernabili di una uscita “non governata”. Per fare un esempio chiaro, abbiamo cercato di raccontare il clima che c’era alla Giudecca in quei giorni.

 

Foto di gruppo in un “interno carcere” in attesa dell’indulto

 

In quei giorni il carcere sembrava un manicomio. C’erano donne che pensavano di avere diritto all’indulto, piantate davanti alla porta del blindo ad aspettare il foglio di scarcerazione, a protestare perché non arrivava, a ossessionare tutte con le loro paranoie. Non parliamo poi di quelle che non sapevano se nell’indulto ci rientravano o no: anche se non dovevano uscire subito, in ogni caso erano in ansia per cercare di capire se potevano avere lo sconto pena.

Ma già quando avevamo letto la proposta di legge, per cui l’articolo 73 del Codice penale aggravato dall’articolo 80, comma 2 (traffico di stupefacenti in grandi quantità) non rientrava nei reati che permettevano di beneficiare dell’indulto, ci sono state persone che, pur avendo con certezza questo articolo, non volevano crederci, e se qualcuna di noi, più informata, che si era letta il testo ultimo della proposta di legge, le diceva con certezza come stavano le cose, si prendeva pure parole, accuse di portare sfiga, di non volere l’indulto, insomma pareva che fossimo state noi a decidere certe esclusioni. 

E poi le congetture, i confronti, le notizie più immaginate che sentite davvero. Alcune poi si facevano i “conti della speranza”, si toglievano anni di galera, sommavano l’indultino come se te lo dessero domani automaticamente, senza tener conto che oggi viene dato a discrezionalità del Magistrato di Sorveglianza: una idea della pena e una idea della  matematica tutte stravolte dall’indulto, che ha finito per essere visto come un miracolo, e un po’ lo è stato davvero, ma poi gli  sono stati attribuiti anche poteri miracolistici, di cancellare, ridurre, riaggiustare condanne magari ritenute eccessive, mal digerite. Anche questo ha contribuito a creare un clima infernale, e il nostro è un carcere piccolo, immaginarsi cosa è stato nei grandi istituti.

Ma a parte le persone che comunque sono uscite, per fortuna, quasi subito, poi sono cominciate le paranoie di chi l’indulto lo aspetta da procure intasate come quella di Napoli, chiaro che ogni giorno è quello buono perché arrivi, però è anche vero che questa incertezza ti consuma. La fotografia che ne è uscita da questa attesa spasmodica è che una delle situazioni più pericolose in carcere è quando ci si autoconvince di cose che non esistono: le persone lo fanno perché faticano a guardare in faccia la realtà, quindi poi reagiscono malissimo se tutto va diversamente da come immaginavano.

Il “mancato indulto” dell’anno del Giubileo, con relativa disperazione nelle carceri e aumenti dei suicidi, a noi ha insegnato ancora una volta a guardare con realismo a quello che succede in galera: un mese in più per prepararsi a gestire le uscite con l’indulto poco avrebbe dato, se non qualche “rattoppo” a una rete di servizi per l’accoglienza che non sempre funziona. Forse è il caso di guardare avanti, e provare a immaginare come si può ora, con molta meno gente detenuta, organizzare davvero una uscita dalla galera graduale e accompagnata.

 

 

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