SOS Immigrati

 

"Formazione rientro" con tanta formazione e un difficile rientro

In Italia l’alternativa al carcere per gli stranieri c’è sempre meno, qualcuno cerca allora nuove strade: è il caso di alcuni progetti in corso in Piemonte

 

di Elton Kalica

 

Con l’entrata in vigore della legge Bossi-Fini, è iniziata anche l’espulsione di tanti condannati stranieri. Questa norma severa probabilmente non può però davvero raggiungere l’obiettivo che si era proposta, tenere cioè fuori dal territorio italiano gli extracomunitari pregiudicati. Anche perché gli immigrati ricacciati a casa loro si trovano spesso disorientati nel paese dove tornano dopo parecchi anni di assenza, e a quel punto si rifiutano di rimanerci, ripercorrendo il cammino verso l’Italia come clandestini. Sono in tanti ormai ad averlo capito, e qualcuno ora cerca anche di valutare se questa norma, che finora ha causato dolore a migliaia di stranieri, sia stata veramente efficace. Ma c’è anche chi come "Il Comitato Oltre il Razzismo", che opera a Torino, ha pensato di concentrare l’attenzione in un’altra direzione, prendendo in considerazione il senso di smarrimento del ritorno coatto e sviluppando uno studio di fattibilità denominato "Formazione Rientro".

 

Lo studio di fattibilità finanziato dalla Regione Piemonte, Assessorato alle politiche sociali tende ad analizzare gli strumenti che sarebbero necessari per "sopportare" il rientro in modo meno traumatico. Chi ha realizzato queste progetto, con la cooperativa "Società Ricerca e Formazione" di Torino, inizialmente ha fatto un’analisi dei detenuti stranieri, dividendoli in categorie, e definendo questa separazione "discriminazione positiva": sono infatti i giovani e i giovanissimi, che hanno intrapreso la via del crimine non per scelta, ma per necessità, e che rappresentano la maggioranza dei detenuti stranieri, quelli che hanno più bisogno di un trattamento, che viene chiamato appunto "discriminazione positiva".

Questo studio, sin dai suoi primi passi, ha messo in luce la totale mancanza di prospettive per i detenuti stranieri costretti ad espiare la doppia pena "Carcere + Espulsione", ma ha saputo anche riconoscere che, comunque, la maggior parte dei delinquenti stranieri è decisamente recuperabile.

In Italia, esiste un panorama delle politiche penitenziarie assai triste per ciò che riguarda i detenuti stranieri; infatti sono moltissimi i magistrati di sorveglianza poco propensi a concedere loro la possibilità di usufruire di misure alternative. Risulta quindi chiaro che organizzare dei corsi di formazione per i detenuti stranieri rischia di non avere senso senza l’assicurazione di un percorso che in un secondo tempo garantisca loro una collocazione lavorativa nel territorio italiano. Da qui nasce l’idea di orientare la formazione di questi detenuti verso un loro inserimento nel paese d’origine, e quindi di indagare e verificare in questi paesi l’effettiva possibilità d’attuazione di questo progetto.

Ed ecco che entra in scena il progetto ALNIMA che è il passo successivo dello studio, pensato per realizzare in carcere dei corsi di formazione professionale verso dei mestieri spendibili nel mercato del lavoro dei paesi di origine dei detenuti, dove il quadro generale delle possibilità di un eventuale inserimento lavorativo è comunque tutt’altro che rassicurante.

 

Formazione + collocazione lavorativa nei paesi di origine

 

Il progetto prevede la formazione e il reinserimento in particolare di detenuti albanesi e marocchini, e quindi l’indagine è stata fatta in questi paesi.

Nel caso dell’Albania, sono state realizzate interviste ad alcuni funzionari e operatori del posto, tastando così il terreno per raccogliere importanti informazioni. Dati non trascurabili sono emersi da queste interviste: ad esempio la maggior parte degli interlocutori sconsiglia l’attività di creazione d’impresa dei detenuti rimpatriati e consiglia piuttosto una attività di piccolo commercio, oppure inserimenti in lavori subordinati.

Inoltre, e questo è il dato più importante, si è verificato che in loco c’è un’assenza assoluta di Enti e Associazioni italiane che si occupano di questi problemi: l’unica organizzazione italiana è il "Centro di formazione professionale Don Bosco". Quindi risulta molto difficile trovare l’interlocutore a cui fare riferimento. Il risultato più scoraggiante è che non esistono nemmeno organizzazioni albanesi disposte a farsi carico di trovare lavoro a queste persone.

In altre parole la situazione che permane tuttora si può così riassumere: anche se nelle carceri italiane ci sono dei giovani detenuti stranieri pronti a formarsi per poter poi lavorare onestamente, c’è una legge che li vuole spedire in un paese dove non esiste nessuno che gli dia la possibilità di sopravvivere (senza dover delinquere).

Attualmente nel carcere di Torino, il progetto ALNIMA ha preso il via ed una prima classe di detenuti ha già finito il corso di formazione per falegnami. Nel laboratorio istituito all’interno della casa circondariale, gli studenti prescelti hanno potuto studiare e fare molta pratica nella lavorazione del legno realizzando vari mobili, utensili e oggetti di decorazione. Ormai quasi tutti sarebbero pronti ad una collocazione vera e retribuita fuori dal carcere, ma i dubbi e le paure di tutti sono moltissime: saranno espulsi subito? dovranno aspettare molto? oppure saranno rilasciati in Italia dopo avere espiato tutta la pena? Se rimpatriati, troveranno un posto di lavoro come falegnami? Il lavoro sarà abbastanza retribuito oppure dovranno di nuovo emigrare?

Ecco che in realtà dopo la formazione permangono le incertezze su tutto: la pena, l’espulsione e in fine l’essenziale collocamento nel mercato del lavoro.

Il progetto in sé, bisogna ammetterlo, è molto interessante e innovativo nel tentare di percorrere la strada della formazione + collocazione lavorativa nei paesi d’origine. Spesso però anche una seria formazione professionale non basta per trovare lavoro in questi paesi, se non supportata da strutture specifiche. Supponendo pure che dopo la formazione ci sia una puntuale espulsione, quali probabilità potrebbe avere un albanese o un marocchino, che ha fatto un corso di falegnameria nel carcere di Torino, di trovare lavoro in un paese arretrato come l’Albania oppure il Marocco?

Nella ricerca poi si parla di detenuti stranieri che si sono dichiarati "interessati e disponibili" al piano di rientro. Ma è una disponibilità offerta in un momento in cui non ci sono alternative e che si rivelerà per loro ancora piena di problemi quando dovranno affrontare la realtà. Non sarà facile infatti per dei detenuti tornare alle loro case, che spesso sono baracche alla periferia di Tirana, a fare il falegname prendendo 100 euro al mese, dopo essere vissuti per anni in Italia, imparando non solo la lingua, ma anche i costumi, le abitudini e lo stile occidentale di vita. Tanti di loro sceglieranno di emigrare di nuovo alla ricerca di una vita migliore rischiando di cadere nei vecchi errori.

La situazione è complessa ma ci possono essere delle soluzioni da tentare. Ad esempio – si parla sempre con il presupposto che i corsi vengano seguiti dalle espulsioni – si può cercare di risolvere il problema dell’impiego nel paese d’origine appoggiando anche economicamente i tentativi di questi ex detenuti di avviare una attività lavorativa e cercare così di assicurarsi una vita a casa loro. È un modo di procedere con piccoli esperimenti, su un terreno estremamente scivoloso, quello di dare un’alternativa vera a chi sta scontando una pena in un paese che non è il suo, ma dal quale non vorrebbe andarsene.

Irto di difficoltà si rivela anche il reinserimento nel seno della propria famiglia. La decadenza della vecchia struttura economica dell’Albania ha portato povertà e miseria nelle zone rurali e una concentrazione di abitanti nei grandi centri urbani come Tirana e Durazzo. Ormai le zone montuose si sono spopolate, e Tirana, ad esempio, è presumibilmente destinata ad avere quasi il 50% della popolazione di tutto il paese. Questo comporta, per la maggior parte dei detenuti, un rientro in un luogo diverso da quello in cui erano cresciuti ed il ricongiungimento con famiglie con maggiori difficoltà economiche di come le avevano lasciate, spesso con problemi legati alla stretta sopravvivenza. Questa può diventare una ragione in più per spingere chi è stato costretto a rientrare ad emigrare nuovamente.

 

 

Ibrahim Osmani è coordinatore del progetto "Formazione Rientro":

 lo abbiamo intervistato

 

Ci può spiegare che cos’è il progetto Formazione Rientro?

È il resoconto di uno studio di fattibilità. Non si tratta di azioni concrete da sviluppare, ma di uno studio finalizzato a innovare le politiche penitenziarie nei confronti degli stranieri.

 

Ma questo studio dovrebbe avere un seguito?

Il proseguimento dello studio di fattibilità, denominato ALNIMA (Albania, Nigeria e Marocco), è un progetto operativo con il quale si intendono effettuare dei rientri positivi di ex detenuti marocchini e albanesi e inoltre aiutare alcune donne, che sono transitate per il Centro di permanenza temporanea prima di essere espulse, a crearsi una prosperava lavorativa in Nigeria. Questo è un progetto finanziato dalla Commissione Europea, dalla Regione Piemonte, dal Comune di Torino, e dall’UNICRI.

 

Perché proprio Albania e Marocco?

La scelta di queste due nazionalità deriva semplicemente dal fatto che sono le due comunità più numerose presso il carcere piemontese.

 

Come intendete procedere per raggiungere gli obiettivi che vi siete posti con questi progetti?

Gli strumenti che mette a disposizione il progetto ALNIMA sono parecchi e vanno comunque nella direzione di preparare dei rientri positivi in Marocco e Albania. Preme subito evidenziare la caratteristica sperimentale di ALNIMA. È un progetto pilota che riguarda i due paesi e perciò si lavorerà con delle zone particolari: in Marocco la zona di intervento sarà quella di Khouribga e dintorni mentre per l’Albania sarà la zona di Valona, Scutari e Tirana, perché la maggior parte dei detenuti stranieri nelle carceri piemontesi provengono da queste due zone.

 

Quanti corsi avete in progetto e come saranno selezionati i detenuti partecipanti?

A livello pratico saranno organizzati, prevalentemente presso le Vallette di Torino, 8 corsi di formazione. L’adesione da parte dei detenuti deve essere volontaria. Una volta avuto un elenco di nomi procederemo alla selezione, che sicuramente non sarà semplice. Oltre al criterio territoriale bisogna considerare la condizione giuridica e la compatibilità del "fine pena" con i tempi e le scadenze imposte dalla Commissione Europea.

 

Attualmente lavori di tipo agricolo e turistico sono largamente prevalenti in paesi come Albania e Marocco. Avete pensato a corsi che possono essere correlati a queste attività?

Per quanto riguarda le attività agricole in Marocco e quelle turistiche in Albania, stiamo analizzando e verificando la fattibilità di corsi di formazione in queste direzioni. Lo sapete meglio di me che in certi istituti penitenziari non è facile organizzare dei corsi di agricoltura. Per il Marocco, nel settore agricolo, si è pensato all’allevamento polli, alle serre, alle erbe officinali, e per ciò che riguarda l’Albania stiamo valutando l’opportunità di organizzare un corso su come avviare e gestire un campeggio.

 

Per promuovere la micro-imprenditorialità, occorrono sì buone norme ed efficaci politiche di sostegno, ma più ancora adeguati finanziamenti, come intendete muovervi in questo campo?

Ultimata la formazione e preparato il rientro, ci saranno una rete di Enti ed Organismi ad accogliere i detenuti nei due paesi. La Ong Coopi, partner del progetto, oltre all’accompagnamento e alla consulenza tecnica, attraverso degli istituti di microcredito locali erogherà dei prestiti che varieranno tra 3000 e 5000 euro più altre agevolazioni a persona.

 

Una volta arrivati nei loro paesi d’origine, come verranno presentati questi ex-detenuti? L’etichetta di ex-detenuto potrebbe causare dei problemi.

Sul tema della "etichettatura" delle persone ex detenute, secondo me, la soluzione è molto semplice. Basta non dire che erano delle persone detenute, questo non deve rappresentare un elemento di discriminazione. Per ciò che riguarda la trasmissione degli atti (fedina penale o altri documenti) è una pratica poco usata, quindi non esiste neanche questo pericolo.

 

 

 

Il progetto ALNIMA: imparare in carcere a fare i falegnami, i pizzaioli, i panettieri, per poi tornare a lavorare al proprio paese

 

di Ibrahim Osmani

 

Il progetto ALNIMA ha una sola finalità: rispettare lo spirito costituzionale della finalizzazione dei percorsi trattamentali ai detenuti stranieri su cui pende l’espulsione a fine pena. Se il carcere non è solo limitazione della libertà, ma anche preparazione all’inserimento socio-lavorativo, nel caso del 99% dei detenuti stranieri non prevedere dei percorsi di rientro in patria, vuol dire venir meno alla seconda finalità istituzionale della detenzione. In Italia, sia prima con la Napolitano-Turco che adesso con la Bossi-Fini, non siamo in pieno regime di doppia pena alla francese. È vero anche che la maggior parte delle persone straniere che transitano per un penitenziario devono essere espulse a fine pena. Questo perché nel momento di ingresso in carcere erano clandestini o irregolari e quindi sprovvisti di un titolo di soggiorno valido da giustificare una permanenza in Italia dopo la scarcerazione. Malgrado l’assenza del pieno regime della doppia pena (ndr: in Francia la "doppia pena" è l’espulsione dal territorio che spesso subiscono i cittadini stranieri, anche residenti da lunghi periodi, dopo aver scontato una condanna), esiste sempre più, non solo in Italia, una tendenza a legare la fedina penale dell’immigrato alla sua autorizzazione o meno a soggiornare nei paesi della UE.

Il progetto ALNIMA attualmente sta collaborando con la sola Amministrazione Penitenziaria. E anche se si è già in due si lavora molto in solitudine. Senza un vero e proprio coinvolgimento della Magistratura di Sorveglianza, della Questura, dei consolati dei paesi di origine dei detenuti stranieri, ma anche degli enti locali e di altre emanazioni del Ministero della Giustizia e degli Interni è molto complicato far coincidere tempi di formazione professionale dei detenuti, scarcerazione, espulsione ai sensi della Bossi-Fini, a fine pena, o rientro accompagnato, accoglienza da parte di una ONG e strutturazione di un percorso di inserimento lavorativo con una azione di accompagnamento della persona rientrata in patria nei primi mesi del suo percorso.

Sui detenuti stranieri con espulsione a fine pena, se vogliamo veramente lavorare su un rientro positivo in patria, ci vuole una vera e propria intesa interistituzionale che porti al rafforzamento sia della politica penitenziaria a favore dei detenuti stranieri sia dei percorsi penali esterni.

Su quest’ultimo punto esistono già dei contatti con il Provveditorato regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, con la Procura Generale e con la Regione Piemonte. Alcuni magistrati di sorveglianza si sono detti interessati, ma siamo ancora molto lontani sia dal tavolo interistituzionale che dall’intesa. Si sono creati anche dei contatti con alcuni consolati dei paesi di origine dei detenuti.

Una grande incertezza deriva anche dal fatto che, con la giustificazione dei motivi di sicurezza, l’Amministrazione Penitenziaria possa decidere una grande mobilità dei detenuti stranieri, escludendoli dalle attività, anche quella di formazione-rientro.

Nella Casa Circondariale Cotugno e Lo Russo di Torino (ex Vallette) stiamo ultimando il corso per operatori del legno a cui hanno aderito 10 detenuti, interessati al rientro positivo in patria. Stiamo poi iniziando i due corsi per pizzaioli e per panettieri a cui hanno aderito 16 detenuti stranieri. La ONG Coopi è già operativa sia in Albania che in Marocco.

Qualche detenuto è già rientrato in patria grazie all’esecuzione della sua richiesta di espulsione ai sensi della Bossi-Fini, e per questa categoria, anche se non è stata formata, si procederà all’accompagnamento e all’inserimento lavorativo valorizzando competenze già possedute.

Per più dettagli e maggiori approfondimenti vi diamo appuntamento a settembre qui a Torino per un primo seminario sul progetto ALNIMA e poi verso gennaio-febbraio del 2005 per il seminario finale.

 

 

 

L’avvocato delle cause impossibili quelle degli stranieri detenuti

Ci sforziamo sempre di trovare strade percorribili per evitare l’espulsione di persone reinserite socialmente dopo un periodo di detenzione

 

A cura di Marino Occhipinti

 

Gianni Lopez, avvocato, collabora con l’associazione L’Altro Diritto, che si occupa del mondo penitenziario con la finalità dell’affermazione dei diritti delle persone detenute e, in genere, delle persone emarginate. L’Altro Diritto si occupa anche di ricerche sulla marginalità ed il carcere, ha un sito dedicato a queste tematiche, entra con i propri volontari in molte carceri della Toscana, e soprattutto si occupa attivamente della condizione degli stranieri detenuti. Proprio per questo, per il fatto che c’è ancora qualcuno che non ha rinunciato, neppure dopo la Bossi-Fini, a cercare degli spiragli contro espulsioni, emarginazione, esclusione dai benefici di tanti detenuti stranieri, abbiamo intervistato Gianni Lopez per saperne di più su questi temi.

 

Il principio della irretroattività della legge Bossi-Fini in relazione al rinnovo del permesso di soggiorno è importante

 

Ci sono stati dei ricorsi in Toscana, di persone immigrate, riguardo alla irretroattività della legge Bossi-Fini?

Sì, vi sono stati dei ricorsi relativi alla questione dell’efficacia nel tempo della Bossi-Fini. E vi sono state delle sentenze da parte del T.A.R. per la Toscana che sono sostanzialmente in linea anche con decisioni adottate da altri tribunali amministrativi.

In tal senso, considerando il caso di uno straniero con precedenti penali maturati in seguito a sentenza di patteggiamento, il T.A.R. per l’Emilia Romagna nel luglio 2003 aveva stabilito la non retroattività dell’articolo 4 della legge Bossi-Fini. Ricordiamo che l’articolo 4, una delle norme chiave della legge, ha introdotto tutta una serie di cause impeditive all’ingresso e al soggiorno sul territorio nazionale. Queste cause riguardano l’esistenza di sentenze di condanna a carico del cittadino straniero per i reati di cui agli articoli 380, commi 1 e 2, del codice di procedura penale (i reati che prevedono l’arresto obbligatorio in flagranza), condanne per reati inerenti gli stupefacenti, il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina ecc. L’articolo 4 ha considerato, e qui è il punto, come causa ostativa al rinnovo del permesso di soggiorno anche la sentenza di condanna pronunciata a seguito di patteggiamento. Tuttavia, il T.A.R. Emilia ha stabilito il principio della non retroattività della legge Bossi-Fini e ha ritenuto che l’articolo 4 si applichi solo per le sentenze di condanna all’esito di patteggiamento successive all’entrata in vigore della legge medesima. Ciò per la ragione semplicissima che coloro che sono addivenuti ad una sentenza di applicazione pena su richiesta delle parti lo hanno fatto anche valutando la mancanza di un effetto ostativo quale quello introdotto dall’articolo 4. Ovvero che patteggiando non avrebbero avuto un pregiudizio circa la regolarità del loro soggiorno. Nello stesso senso si è pronunciato anche il T.A.R. per la Toscana con un provvedimento sempre del 2003.

Il principio della irretroattività della legge Bossi-Fini in relazione al rinnovo del permesso di soggiorno è importante. Tuttavia, riferendoci a persone detenute, il problema del rinnovo del permesso riguarda una minoranza, essendo la gran parte dei migranti reclusi irregolare…

 

Ma ce ne sono anche che lo diventano rimanendo in carcere, perché i permessi scadono…

Il problema dei permessi che scadono in carcere è annoso. Vi sono delle circolari che precludono a priori il rinnovo del permesso di soggiorno se effettuato dal carcere, in quanto il provvedimento dell’autorità giudiziaria in forza del quale il cittadino straniero è detenuto fonda l’autorizzazione al soggiorno e rende inutile il provvedimento di rinnovo dell’autorità di pubblica sicurezza. Tuttavia, il Tribunale di Pistoia ha sancito che la scadenza del permesso di soggiorno in carcere rappresenta un legittimo impedimento al suo rinnovo. In tal modo, è possibile che, una volta cessato il regime detentivo, l’interessato possa ottenere un permesso di soggiorno, sempre che si riesca a neutralizzare l’effetto preclusivo al rinnovo derivante dal reato. E, in ordine a quest’ultimo punto, si deve considerare la data di commissione del reato, perché se antecedente alla entrata in vigore della legge Bossi-Fini, non dovrebbero operare tutti quegli impedimenti al rinnovo di cui abbiamo parlato in precedenza, riferendoci all’art. 4 (reati di cui all’articolo 380, commi 1 e 2, reati inerenti agli stupefacenti…). Pertanto, la valutazione dei precedenti ai fini del rinnovo dovrebbe basarsi sulla concreta pericolosità della persona e non fondarsi sulla semplice commissione di certe tipologie predefinite di reati.

Sempre in ordine alla ostatività al rinnovo del permesso di soggiorno conseguente alla commissione di un reato, è opportuno fare riferimento a sentenze, anche molto recenti, ad esempio del T.A.R. Emilia, che hanno stabilito la sostanziale equiparazione fra riabilitazione ed esito positivo dell’affidamento in prova.

 

Sulla base dell’esito positivo dell’affidamento in prova si può fondare un ricorso per far annullare un provvedimento espulsivo

 

Cioè, una persona straniera che ha concluso il suo percorso in maniera positiva, è da considerarsi riabilitata?

Sì, difatti dal punto di vista dell’ex detenuto, che esce fuori ed è in una situazione di irregolarità, ci dicono sempre: "Eh sì, però non è riabilitato…". Questa sentenza, e ce n’è un’altra, che però è un po’ meno chiara, afferma la sostanziale equiparazione fra riabilitazione ed effetto estintivo derivante dall’affidamento in prova. Quindi, l’esito positivo dell’affidamento opera una restitutio ex quo ante della situazione della persona con la cancellazione di tutti gli effetti penali. La cancellazione di tali effetti apre interessanti prospettive anche per lo straniero irregolare con precedenti penali che ha concluso positivamente il periodo di affidamento in prova al servizio sociale, posto che anche l’espulsione amministrativa può essere considerata un effetto penale della condanna. E, quindi, sulla base dell’esito positivo dell’affidamento in prova si può fondare un ricorso al giudice ordinario per far annullare un provvedimento espulsivo. Ancora non mi risultano pronunce in tal senso e anche il principio che gli effetti della riabilitazione debbano essere considerati eguali a quelli dell’esito positivo dell’affidamento in prova non è detto venga seguito dagli altri tribunali amministrativi, anche se è un buon punto di partenza.

 

Questo accade perché non ci sono indicazioni univoche e precise, ma ogni T.A.R. si esprime in maniera diversa?

Sì, ci sono difformità, però direi che è una strada da percorrere. In proposito stiamo seguendo in questi giorni il caso di un ex detenuto, entrato in Italia con visto turistico e poi divenuto irregolare, che è stato condannato per un reato particolarmente grave. Questa persona ha avuto un percorso penitenziario esemplare, passando per le "tappe canoniche": articolo 21, permessi premio, semilibertà e affidamento in prova. Attualmente ha espiato la pena ma il Tribunale di Sorveglianza non si è ancora pronunciato sull’esito positivo dell’affidamento. La persona continua ancora a lavorare presso il datore di lavoro che lo aveva assunto per il periodo di affidamento. In proposito, può essere utile sottolineare che finché il Tribunale di Sorveglianza non si pronuncia sull’esito dell’affidamento, il soggetto, pur avendo espiato la pena, non può essere espulso e può legittimamente continuare a lavorare.

Per quanto riguarda la situazione relativa al reato, stante l’equiparazione fra riabilitazione ed esito positivo dell’affidamento in prova che abbiamo vista sancita da vari T.A.R., questa è meno preoccupante, paradossalmente, rispetto alla sua condizione di clandestinità. Però, eliminando l’effetto ostativo derivante dal reato, considerandolo sostanzialmente un soggetto riabilitato, la persona potrebbe rientrare sia in future, probabili, regolarizzazioni sia nell’ambito della disciplina dei flussi. Si tenga presente che queste considerazioni vanno prese con il beneficio di inventario perché ancora non mi risultano applicazioni concrete di questa possibile interpretazione.

 

Quindi qual è il suo consiglio pratico per gli stranieri che hanno commesso il reato prima dell’entrata in vigore della Bossi-Fini?

Dipende dal possesso o meno di un permesso di soggiorno. Se il cittadino straniero lo aveva, premesso quanto detto circa il rinnovo dal carcere, la valutazione dovrà basarsi sulla considerazione della sua pericolosità in concreto. E, in tal senso, sarà rilevante il grado di inserimento sociale, la natura ed il numero dei precedenti, la sua situazione familiare. La mancanza di pericolosità potrà conseguire anche dal provvedimento con cui il Magistrato di Sorveglianza revocherà l’eventuale espulsione disposta come misura di sicurezza, la cosiddetta espulsione in sentenza.

Se, viceversa, la persona non aveva il permesso di soggiorno, vale quanto detto sopra e il consiglio pratico è di passare da un periodo di affidamento in prova che come abbiamo visto potrebbe aprire la strada alla possibilità di regolarizzazione.

 

Ci sforziamo di trovare strade percorribili per evitare l’espulsione

 

Ma non è facile per uno straniero ottenere una misura del genere: mancanza di un’abitazione, di una famiglia, di un lavoro, di un radicamento sul territorio…

Lo so, ed è questo l’ostacolo, ma se passasse dall’affidamento in prova ci sarebbero delle possibilità. Si può parlare solo di possibilità perché in questo momento la terra è bruciata per tutti, è bruciata per quelli che non hanno precedenti e che però sono stati semplicemente accompagnati coattivamente una volta alla frontiera, figuriamoci per chi è stato in carcere e per chi ci è stato più volte. Però, ci sforziamo sempre di trovare strade percorribili per evitare l’espulsione di persone reinserite socialmente dopo un periodo di detenzione. Una di queste vie è rappresentata dall’articolo 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani. In tal senso, il Tribunale di Torino con provvedimento del gennaio 2003 ha annullato un decreto di espulsione a carico di una ex detenuta straniera perché aveva una situazione familiare oramai consolidata in Italia e l’articolo 8 della Convenzione consente l’espulsione soltanto quando questa risponde al bisogno imperioso di sicurezza. Quindi c’è una valutazione sulla singola persona e sulla sua pericolosità effettiva. Allora, valutata questa persona, che se non ricordo male aveva due precedenti, valutato il suo grado di inserimento sociale, il fatto che poi la pericolosità era venuta meno, anche alla luce di un’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza che aveva revocato la misura di sicurezza dell’espulsione, a quel punto il Tribunale di Torino ha annullato l’espulsione.

Ora questa persona si trova in una situazione in cui l’espulsione è annullata, però non ha ancora un permesso di soggiorno. Tuttavia, con una nuova sanatoria potrebbe regolarizzarsi. Questa sentenza è come se avesse gettato un colpo di spugna sul passato e anche questa è sicuramente una cosa importante.

 

Invece per uno straniero che si vede notificare l’espulsione come sanzione alternativa, per capirci meglio quella misura che viene inflitta dai Magistrati di Sorveglianza quando allo straniero detenuto rimangono meno di due anni di pena da scontare, cosa si può fare?

Questa è un’altra misura ancora. Bisogna sempre distinguere le varie forme di espulsione: espulsione misura di sicurezza, espulsione amministrativa, espulsione sanzione sostitutiva, espulsione sanzione alternativa. Per quest’ultima si può fare opposizione al Tribunale di Sorveglianza, richiedendo che quest’ultimo accerti la pericolosità o meno dell’interessato. Preliminarmente però si è posto il problema della legittimità costituzionale di tale forma espulsiva (e infatti la Corte Costituzionale l’ha giudicata illegittima), posto che determina un automatismo nell’espulsione, senza distinguere caso per caso, come legittimamente e in senso costituzionalmente orientato si dovrebbe fare.

Secondo me in molti casi le opposizioni potrebbero essere accolte, oltre al fatto che c’è tutto l’articolo 19 della legge 286/98 che indica molte situazioni in cui non è possibile procedere all’espulsione. Una di queste condizioni che limitano l’espulsione attiene al fatto che una persona possa essere oggetto di persecuzione al rientro nel proprio paese di origine.

Noi abbiamo casi di questo tipo, di persone che sono fuggite magari da regimi dove, tornando, potrebbero effettivamente avere dei problemi e poi c’è la preclusione all’espulsione che riguarda l’aver sposato un cittadino italiano, l’aver riconosciuto un figlio avente cittadinanza italiana. Insomma alcune possibilità ci sono.

Altri problemi si pongono in sede di espulsione come misura di sicurezza, ed in questo caso talvolta viene riconosciuta la conversione dell’espulsione in libertà vigilata. In tal caso, vi è un titolo a rimanere nel nostro paese per tutta la durata della libertà vigilata. è una soluzione provvisoria. Consente di rimanere per un certo periodo di tempo prima che l’espulsione avvenga realmente, ma è un tema che tralascerei proprio per il suo carattere di soluzione non definitiva.

una circolare ministeriale prevede

 

La possibilità di essere avviati al lavoro anche per gli stranieri, regolari o meno, che sono nella fase di esecuzione della pena

 

C’è una sentenza della Corte di Cassazione che dice che ai detenuti stranieri, se irregolari, non devono essere concesse le misure alternative alla detenzione, mentre alcuni Tribunali di Sorveglianza le concedono comunque: come si comporta la Magistratura toscana?

Il nostro non è un sistema come quello anglosassone, dove il precedente è legge. Nel sistema anglosassone si dice che il giudice è schiavo del passato e despota del futuro, proprio ad indicare questa efficacia assoluta del precedente. Ma da noi la Corte di Cassazione può essere tranquillamente disapplicata. In Toscana, in base alla mia esperienza, non mi risulta che gli stranieri irregolari non accedano più alle misure alternative se in possesso dei requisiti previsti dall’Ordinamento Penitenziario. Quindi, la sentenza della Cassazione non mi pare abbia determinato cambiamenti nell’accesso alle misure da parte dei detenuti stranieri. Anche perché la sua portata non è così vasta come sembra a prima vista. A prescindere dalla sentenza in esame, credo sia necessaria sempre una lettura costituzionalmente orientata delle norme penitenziarie, in quanto in tema di esecuzione della pena non dovrebbero esserci differenze di trattamento tra i detenuti. Inoltre, c’è una circolare ministeriale che prevede la possibilità di essere avviati al lavoro anche per gli stranieri, regolari o meno, che sono nella fase di esecuzione della pena detentiva.

Quindi, diciamo che questa visione della Corte di Cassazione contrasta con quelli che sono gli elementi del trattamento, tra i quali rientra appunto il lavoro, non necessariamente all’interno del carcere anche perché ce n’è poco, e poi entra in contrasto con un altro orientamento della Cassazione, che sullo straniero si è pronunciata, fin dagli anni 90, nel senso della rieducazione.

Una rieducazione un po’ particolare, perché nelle sentenze di allora la Cassazione ha detto che lo straniero è soggetto a rieducazione ma che la rieducazione non è necessariamente funzionale al nostro sistema sociale. In altri termini, l’obiettivo è una rieducazione universalmente perseguita. La persona torna a casa sua rieducata, e quindi il compito rieducativo è assolto anche se poi viene espulsa.

In quel momento le sentenze apparvero un po’ rigide, ma in confronto a questo nuovo orientamento appaiono più garantiste. Proprio perché lì della rieducazione si parlava anche nei confronti dei detenuti stranieri, regolari o meno, e se ne parlava nei termini della rieducazione che noi conosciamo tramite le misure alternative previste dall’Ordinamento Penitenziario.

 

 

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