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Un territorio meno distratto significa meno carcere e più reinserimenti veri Da una ricerca sulla semilibertà nel territorio di Brescia alcune indicazioni per coinvolgere le aziende profit, dare un ruolo nuovo al volontariato, costruire delle opportunità anche per i soggetti che non hanno una rete di sostegno all’esterno del carcere
di Carlo Alberto Romano
Carlo Alberto Romano, docente di criminologia all’Università di Brescia, è Presidente dell’Associazione "Carcere e Territorio", attiva soprattutto fuori, su quel territorio dove si gioca la vera partita per il reinserimento delle persone che escono dal carcere. La sua analisi sulle difficoltà dell’applicazione della misura della semilibertà dà degli spunti importanti per trovare nuovi metodi di intervento, che aiutino a ridurre i danni prodotti dal carcere e ad allargare l’impiego delle misure alternative.
Il ruolo del territorio nel dare un senso all’esecuzione penale
Sono fortemente convinto che oggi il territorio sia l’unica delle risorse percorribili. Prendo spunto da una frase che a me piace ricordare frequentemente, una frase di Bobbio del ‘74, precedente alla riforma penitenziaria; Bobbio stava scrivendo una prefazione ad un testo e, nel farlo, sviluppò questa riflessione: "Attenzione, perché il carcere si pone due obbiettivi: uno di essere deterrente e l’altro di essere rieducativo"; e lo scrisse, badate bene, prima del 75. "Impossibile riuscirci, perché tanto più è deterrente tanto meno sarà rieducativo; ed anche tanto più riuscisse ad essere rieducativo, tanto meno sarà deterrente." Questa frase mi ha colpito molto e credo che, in qualche modo, giustifichi l’attenzione che la nostra Associazione ed io personalmente rivolgiamo al territorio come possibile fonte per, ripeto, trovare un senso all’esecuzione penale. Non che ciò debba significare l’abbandono delle politiche carcerarie, del trattamento e di tutto quello che ne consegue, per carità, abbiamo assolutamente l’obbligo morale di continuare a percorrere questa strada, ma credo che, per certi aspetti, un concetto che si applica molto al settore delle politiche degli stupefacenti, cioè quello del contenimento del danno, possa essere introdotto anche nell’ambito carcerario; contenimento del danno da frequenza del carcere. Il territorio invece ha molte altre possibilità, e ne ha, credo, ancora in potenzialità.
I risultati di una ricerca sulla semilibertà nel territorio di Brescia
Qualche anno fa, e mi scuso se non è recentissimo, l’Associazione Carcere-Territorio di Brescia fu invitata a svolgere una ricerca su una delle misure alternative di cui ci occupiamo oggi, e nello specifico sulla semilibertà. Questa è una misura di cui mi piace parlare, che ha una sua connotazione anche dal punto di vista ideologico con alcuni riferimenti ad altri Ordinamenti, una sua storia precisa, un suo utilizzo particolare; anche se oggi è assai frequente pensare alla semilibertà come allo strumento che si utilizza quando non è possibile applicare, al di la dei presupposti giuridici, l’affidamento. In realtà credo che la semilibertà possa avere una sua connotazione ed una sua ragione d’essere, ma non è sempre possibile individuarla; in questa ricerca fatta sulla semilibertà, si delinearono, nel territorio del Tribunale di Sorveglianza di Brescia, sia pur su un campione non particolarmente rappresentativo, alcuni aspetti che vale la pena di riportare, perché strettamente connessi al territorio. Da questa ricerca emergevano due modalità di svolgimento della misura alternativa della semilibertà: la prima vissuta da soggetti ben inseriti nel contesto territoriale di appartenenza, che usufruivano di contatti con la propria famiglia e la propria abitazione, usavano addirittura mezzi propri e accedevano ad opportunità di lavoro presso imprese private, evidentemente contattate grazie alla rete di conoscenze che di solito hanno gli autoctoni. L’altra relativa invece ai soggetti privi di riferimenti alloggiativi e spesso anche affettivi. L’unica possibilità di uscire dal carcere per tali soggetti, di solito non indigeni, risulta essere rappresentata dalla presenza delle cooperative sociali. Voi sapete che l’elemento lavoro è fondamentale per la concessione della semilibertà, e in questo senso costituisce riferimento elettivo il mondo della cooperazione sociale, del volontariato per quanto riguarda il tempo libero, e della rete dei servizi pubblici offerta dal territorio, per gli aspetti alloggiativi. Allora gli interventi strategici, secondo me, devono indirizzarsi a supporto delle carenze che spesso impediscono a questo secondo sottogruppo di usufruire del beneficio, procurando invece le stesse opportunità disponibili per il primo.
La duttilità delle cooperative e le imprese profit ancora troppo "distratte"
Una prima realtà che emergeva dalla ricerca era quindi l’esistenza di questi due sottogruppi tra i soggetti che potevano accedere a questa misura, e su questo varrebbe la pena di svolgere qualche riflessione, perché se il trend di concessione della semilibertà è quello che conosciamo, evidentemente su ciò ha influito anche la connotazione che è venuta a crearsi in questo periodo di tempo, cioè la ripartizione dei "candidati semiliberi" in queste due sotto aree. Anche perché non è difficile immaginare, rispetto all’universo degli stranieri detenuti, in quale delle due aree vadano a collocarsi; e ciò rende conto del perché questa misura, al di là di qualche situazione "felice" come Padova e Venezia, sia estremamente poco utilizzata. D’altra parte sappiamo anche come esistano due tipi di offerta di lavoro: quella proveniente dall’impresa privata, di tipo "profit", per intenderci, che è sollecitata o direttamente dal lavoratore o da suoi referenti e che agisce per una rete di conoscenze informali che sono state attivate. Tra l’altro ciò mi conferma nell’opinione che gli obiettivi che si proponeva la legge Smuraglia non siano ancora stati adeguatamente raggiunti, anzi credo che rispetto agli imprenditori "profit" ci sia ancora un bel po’ di strada da percorrere. L’offerta proveniente dal mondo della cooperazione sociale si rivela invece strumento duttile e assolutamente idoneo per questo genere di misura alternativa, non discriminatorio tra l’altro, e permette anche, attraverso la rete di contatto tra le cooperative sociali e il mondo dell’associazionismo, di individuare quella serie di risorse occupazionali, alloggiative e di uso del tempo libero che sono necessarie per agevolare questa seconda sotto-categoria di detenuti che possono accedere alla semilibertà.
Il ruolo del volontariato perché la misura alternativa venga svolta in una rete positiva di relazioni e contatti
Oltre a questi due aspetti emergenti dalla citata ricerca si è imposta anche la lettura del ruolo del volontariato, quale fondamentale trait d’union nell’ambito delle misure alternative. Quando parlo di volontariato non mi riferisco solo al volontariato penitenziario, ma a tutto quel mondo che afferisce alla comunità interna, proveniente dalla comunità esterna; mi riferisco cioè a tutti coloro che in qualche modo interagiscono con gli operatori penitenziari per far fronte alle necessità dei condannati, i quali hanno bisogno del reperimento di una serie di risorse per poter accedere alla misura stessa. Quindi volontari, cooperazione sociale, servizi sociali e volontari penitenziari, perché si possa pensare, per esempio, al ruolo di un dormitorio, o di strutture analoghe, per poter avere un riferimento alloggiativo. Ciò significa un’interazione forte e feconda, da parte di tutte le espressioni territoriali dell’associazionismo. Queste relazioni tra l’altro hanno anche l’obiettivo secondario, ma non meno importante, di impedire che il condannato, che svolge la misura alternativa della semilibertà, la viva come un momento a tenuta stagna, cioè del tutto avulso dalle proprie vicende di vita. Se vi ricordate la distinzione che ho operato poc’anzi direi che i detenuti autoctoni, che sono nel proprio mondo, che vivono le proprie relazioni, questo momento, seppure transitorio, possono viverlo come propedeutico per un ritorno ad un contesto che ben conoscono e in cui sperano di rientrare. La seconda categoria finisce invece per vivere la misura alternativa come un momento, appunto, a tenuta stagna, completamente diverso dalla realtà che conosce e che auspica di poter tornare a frequentare in breve. La possibilità che la misura alternativa venga svolta in una rete positiva di relazioni e contatti, secondo il mio punto di vista, tende ad abbattere questo rischio, ricollocando il contesto di esecuzione della misura alternativa in un ambito che, in qualche modo, permette al condannato di intravedere spiragli per il proprio futuro.
Una formazione che crei davvero le professionalità richieste dal territorio
Uno degli strumenti di maggior potenzialità integrativa è dato dalla formazione; la formazione sarebbe infatti in grado di individuare le grosse potenzialità del territorio, ma sono costretto ad usare il condizionale perché credo che l’indicativo in questo senso possa essere applicato solo in alcune realtà. La formazione scolastica e professionale potrebbe dunque essere l’anello di congiunzione con il mondo del lavoro esterno e con le autentiche risorse espresse dal territorio; potrebbe costituire un elemento fondamentale in questo passaggio, e dicendo ciò penso ad una realtà come quella dalla quale io provengo, dove vi è un tasso di disoccupazione grandemente inferiore a quello nazionale, e addirittura inferiore a quello medio della nostra regione; praticamente è quasi inesistente, esiste solo una disoccupazione fisiologica con una forte richiesta di professionalità specifiche. Se, attraverso la formazione professionale, si riuscisse ad individuare la risposta alla domanda di queste professionalità specifiche, è indubbio che anche la possibilità di avere maggiori offerte di carattere occupazionale dal mondo imprenditoriale profit, che finora si è dimostrato un po’ sordo a questo richiamo, aumenterebbe e di conseguenza aumenterebbe la possibilità di concessione, da parte del Tribunale di Sorveglianza, della misura alternativa stessa... Quindi, in qualche modo, la formazione professionale verrebbe ad avere quel ruolo potenziale di grande capacità d’implementazione delle misure stesse, che in questo momento non vedo idoneamente perseguito. È evidente che ciò potrebbe essere di soddisfazione anche per gli imprenditori, perché l’individuazione di specifiche tipologie professionali, in grado fin da subito di evitare lunghi tempi di ammortamento per l’inserimento del condannato, permetterebbe di integrare professionalità già definite rispetto al mercato del lavoro locale.
Un modello culturale nel quale la misura alternativa riprenda piena dignità
Infine cito fra gli elementi descrittivi delle misure alternative gli aspetti di carattere culturale, sui quali non posso non ritornare. In questo senso ancora una volta individuo l’associazionismo come l’elemento capace di costituire la vera testa di ponte verso il mondo penitenziario. Se continuiamo a chiamare le misure alternative "benefici penitenziari", come facciamo noi operatori, come fanno i componenti del Tribunale di Sorveglianza, o gli operatori penitenziari, non possiamo pretendere che vengano riconosciute loro la piena dignità e potenzialità di esecuzione della pena che invece meritano; noi per primi dobbiamo evitare, a mio giudizio, di chiamare con questo termine le misure alternative perché ciò crea nell’opinione pubblica un’idea distorta, come se il beneficio fosse un modo di eludere la richiesta afflittività della pena; dobbiamo pensare ad un modello culturale nel quale la misura alternativa riprenda piena dignità, come da normativa e regolamento, anche attraverso una serie di accorgimenti; per esempio l’applicazione concreta e pratica del settimo comma dell’articolo 47, quindi un’apertura verso quegli aspetti di giustizia riparativa, che sono necessari per transitare verso il futuro della esecuzione della pena. Ma questo sforzo e cambiamento di carattere culturale lo possiamo fare soltanto se gli operatori dell’associazionismo, quelli professionali, quelli volontari, quelli penitenziari, la Magistratura saranno in grado di fornire un’adeguata ed idonea testimonianza della capacità assoluta delle misure alternative di costituire oggi l’elemento risolutivo del problema dell’esecuzione della pena. Il territorio, attraverso le misure alternative, possiede una grande potenzialità; speriamo riesca a sfruttarla adeguatamente.
Quegli operatori sociali di nuova concezione, capaci di lavorare sul passaggio dal dentro al fuori Gli operatori che lavorano fuori, non conoscendo il mondo interno al carcere, non sanno come rapportarsi concretamente con i detenuti; e un uguale ma opposto spiazzamento si verifica per chi, abituato a lavorare dentro il carcere, non sa dare un orientamento extramurario alla propria funzione. Ne abbiamo parlato con Sonia Ambroset, psicologa e criminologa
A cura di Paolo Moresco
Per tutti i detenuti che accedono alle misure alternative – ma tanto più per quelli, e sono la maggioranza, che non possono contare sull’attivo sostegno della propria famiglia e su ancor saldi rapporti nel territorio – la transizione dal "dentro" al "fuori" rappresenta una sfida impegnativa e piena di zone d’ombra, in cui è fin troppo facile lasciarsi prendere dall’affanno e dallo scoramento. Ed è appunto nell’intento di dar vita a una sorta di "ponte" fra il carcere e il mondo esterno che da qualche anno si è sentita l’esigenza di creare la figura dell’orientatore-tutor, un operatore di nuova concezione il cui compito consiste, essenzialmente, nell’affiancare il detenuto in questa delicata fase di transizione, aiutandolo ad affrontare e a risolvere i mille problemi, grandi e piccoli, che rischiano di trasformare in una frustrante gimcana il suo percorso di reinserimento. Del tutor, della sua funzione e dei suoi rapporti con il detenuto e con il sistema della giustizia abbiamo parlato – in una tavola rotonda organizzata presso la nostra redazione – con la psicologa e criminologa milanese Sonia Ambroset, una delle prime e più convinte sostenitrici della tutorship in ambito penitenziario.
Paolo Moresco (Ristretti Orizzonti): Nel suo ultimo libro, "Pagine sul metodo, pagine sul carcere" (ne parleremo più diffusamente in uno dei prossimi numeri della rivista - ndr), lei affronta il tema del tutor e descrive con molta chiarezza quali sono le competenze che deve possedere e quali sono le mansioni a cui deve adempiere. Mi parrebbe però interessante, prima di entrare nel merito dell’argomento, che ci raccontasse quando e come questa nuova figura di operatore ha cominciato ad affacciarsi nella realtà penitenziaria italiana. Sonia Ambroset: Dobbiamo risalire a una decina di anni fa, a quando cioè – lavorando a San Vittore, a un progetto che raggruppava quindici realtà del privato sociale milanese – cominciammo a renderci conto che i molti cambiamenti positivi che erano avvenuti in quegli anni all’interno del carcere (finalmente i volontari e le cooperative entravano, si promuovevano corsi di formazione, fiorivano in continuazione nuove iniziative) rischiavano di perdere incisività in mancanza di un efficace collegamento con il mondo esterno. Questo scollamento fra il dentro e il fuori era messo in evidenza dal disagio dei detenuti, che cominciavano sì a trovare opportunità di lavoro grazie alle cooperative e alle associazioni di volontariato, ma che tuttavia – una volta proiettati al di fuori delle mura del carcere – si sentivano dei pesci fuor d’acqua. Non solo risentivano, e pesantemente, della mancanza di un minimo di relazioni sociali nel territorio, ma si sentivano disorientati, impotenti, nei confronti di un mondo rispetto al quale non riuscivano più a relazionarsi: come destreggiarsi nella città? come entrare in rapporto con i servizi? dove sbattere la testa per cercare lavoro? come fare per trovare un alloggio? Partendo proprio da queste difficoltà, spesso soprattutto di ordine pratico, con altre due o tre persone ci ponemmo il problema di promuovere la formazione di operatori sociali di nuova concezione, capaci appunto di lavorare sul passaggio dal dentro al fuori. Ci rendevamo conto infatti che gli operatori che lavoravano fuori, non conoscendo il mondo interno al carcere, non sapevano come rapportarsi concretamente con i detenuti; e un uguale ma opposto spiazzamento si verificava per chi, abituato a lavorare dentro il carcere, non sapeva dare un orientamento extramurario alla propria funzione. Demmo vita così, attorno al ‘96, a un primo sportello destinato a rappresentare un punto di riferimento esterno per i detenuti ammessi alle misure alternative che già avevano partecipato, in carcere, al nostro progetto di reinserimento. Era un piccolo esperimento, tutto di volontariato, ma gli educatori, gli assistenti sociali e i volontari che vi erano coinvolti non tardarono ad accorgersi che i detenuti - incontrati fuori dal carcere - erano già persone diverse rispetto a quelle che avevano conosciuto dentro. E tale cambiamento era tanto più notevole, e allarmante, per quel che riguardava i tossicodipendenti. Cominciammo allora a riflettere sulla necessità di individuare persone di riferimento su cui i detenuti potessero appoggiarsi in quel delicatissimo momento di transizione, e capimmo che quel lavoro spettava a noi; che eravamo insomma noi, operatori, a dover imparare a stare con le persone uscite dal carcere, in quella fase critica, aiutandole nella ricerca di un lavoro e di un alloggio, nello sviluppo di relazioni quotidiane più soddisfacenti, nella delicata ripresa di contatto con la famiglia, lasciata magari da parecchi anni. Per riuscire in un compito del genere occorreva però avere delle capacità specifiche: bisognava infatti sapersi relazionare sia con il carcere che con il mondo esterno, ma anche sapersi rapportare con persone che non erano più dentro ma che non erano ancora completamente fuori, e che quindi spesso vivevano una situazione di profondo disagio. Persone, insomma, che avevano bisogno sì di un confronto, ma non necessariamente con l’assistente sociale del CSSA e neppure con lo psicologo del consultorio. Sostanzialmente, avevano semmai bisogno di operatori davvero in grado di vivere al loro fianco quella complessa e precaria stagione della loro vita.
Marino Occhipinti (Ristretti Orizzonti): Insomma, se ho ben capito siete dovuti andare… a scuola, perché una cosa è individuare la necessità di svolgere una certa attività, ben altra cosa è imparare concretamente a farla, specie se si tratta di un’attività così innovativa e dai contorni così difficilmente precisabili. Chi vi ha aiutato, in questo passaggio dall’idea dell’orientatore-tutor alla formazione di operatori capaci di svolgere concretamente questo difficile ruolo? Sonia Ambroset: Il primo, e purtroppo per ora unico corso di formazione (200 ore di lavoro davvero mirato), fu finanziato nel 1998 dalla Regione Lombardia. Vi presero parte una ventina di ragazze e ragazzi, alcuni laureandi, altri operatori sociali, altri semplicemente volontari, che si occupavano già da tempo di carcere. Il nostro obiettivo consisteva nel mettere in campo venti persone formate per fare effettivamente questo mestiere, e per questo abbiamo dovuto far ricorso anche ad insegnanti un po’ speciali: sì, gli stessi detenuti, perché solo un detenuto o un ex detenuto sa davvero cosa vuol dire vivere sulla propria pelle questo passaggio dal dentro al fuori. Una volta terminato il corso di formazione, quei venti operatori non hanno messo in piedi nuove associazioni o nuove iniziative, ma sono andati a lavorare dentro le cooperative che già ospitavano detenuti o dentro associazioni di volontariato. Noi non abbiamo mai immaginato infatti l’orientatore-tutor come un nuovo ruolo professionale, con tanto di albo e tutte queste cose qui; e tanto meno abbiamo mai pensato che a questo tipo di attività potessero accedere solo gli psicologi o gli assistenti sociali, o gli educatori; volevamo che la tutorship potesse essere esercitata da persone magari anche prive di competenze professionali con tanto di qualifica, ma che avessero la voglia, l’interesse e anche la capacità di stare davvero insieme ai detenuti in uscita. Oggi ci sono numerosi operatori sociali, all’interno di associazioni di cooperative o di progetti, che svolgono esattamente questa attività, consistente sostanzialmente nel dare un supporto alle persone che escono dal carcere. Quello che contava per noi, in fase di messa a punto di questo tipo di lavoro, e che continua a contare ora nella sua applicazione concreta, è che non venga fatto in termini assistenziali. Il concetto, in sostanza, è il seguente: hai qualcuno che ti dà una mano per un po’ di tempo, ma solo per un po’ di tempo, e non deve essere uno che fa delle cose "per te", ma uno che le fa "con te", così tu impari a farle e poi te le farai per conto tuo.
Nicola Sansonna (Ristretti Orizzonti): Io sono dentro da parecchio, e ricordo quando diversi anni fa si cominciò a parlare dell’introduzione della figura del tutor. Devo dire che, al di là dell’idea in sé, certo apprezzabile, fra i detenuti era abbastanza radicato il sospetto che il tutor poi, nella realtà, finisse per trasformarsi in un ulteriore elemento di controllo; insomma, uno stratagemma un po’ ruffiano del sistema della giustizia per chiudere ancora di più il cerchio intorno al detenuto. Ritiene che avesse un senso, quella nostra diffidenza? Sonia Ambroset: Non solo era una paura legittima, quella che potevate avere voi detenuti, ma era una preoccupazione anche nostra. E proprio per mettere bene in chiaro l’autonomia del tutor rispetto al sistema della giustizia, in quel primo corso di formazione abbiamo stabilito, come condizione preliminare, che sta al detenuto e soltanto a lui scegliere se avvalersi o no dell’assistenza di questa figura di supporto, e che fra il tutor e gli operatori della giustizia il rapporto deve essere il più possibile distaccato. Riconosco, però, che questo è un concetto non facile, da far passare. Perché mentre il tutor sa come muoversi - su questo punto siamo stati infatti molto chiari - gli operatori della giustizia si trovano un po’ spiazzati, rispetto al nostro modo di lavorare. Abbiamo tuttavia visto con chiarezza che se gli operatori che assumono la funzione di tutor conoscono il sistema, sanno relazionarsi al CSSA e sanno relazionarsi con il detenuto, in genere riescono a imporre l’autonomia del loro ruolo e a stabilire un rapporto corretto con gli operatori della giustizia. Comunque, e più ci siamo inoltrati su questa strada e più ce ne siamo resi conto, per adempiere alla funzione di tutor non basta essere un operatore sociale, e neppure una persona di buona volontà; per fare il tutor occorre sapere come funziona questo sistema, perché solo se conosci il sistema ti ci puoi destreggiare. Per quel che riguarda inoltre l’autonomia dei tutor rispetto al sistema della giustizia, faccio notare che le persone che svolgono quest’attività non fanno relazioni di osservazione scritte e, quando vanno a parlare con il CSSA, lo fanno esclusivamente "in accordo" con il detenuto e "con" il detenuto. Se si organizza un lavoro d’équipe, per fare un esempio, non lo si fa mai solo fra operatori. Questi per noi sono principi cardine, dai quali non si può transigere: altrimenti si rischierebbe davvero di fare da supporto agli assistenti sociali.
Paolo Moresco: Vorrei portare la nostra riflessione su un altro aspetto. Se la funzione dell’orientatore-tutor è sostanzialmente quella di affiancare il detenuto nel delicato passaggio che dalla carcerazione conduce al reinserimento, aiutandolo a formarsi quella "competenza di vivere" senza la quale ogni vero reinserimento è impensabile, non si corre il rischio che si venga a creare, fra lui e l’operatore, un rapporto di dipendenza paragonabile, in un certo senso, a quello che spesso si viene a creare fra paziente in analisi e psicoanalista? Non c’è il rischio, in breve, che si venga a determinare un rapporto che sarà poi difficile troncare? Sonia Ambroset: Questo è un rischio che in effetti esiste, e che è peraltro assolutamente reciproco, sia per il detenuto che per l’operatore. È insomma un rischio reale, quello di andare avanti per tutta la vita assieme, come appoggiandosi l’uno all’altro; è un rischio che tuttavia esiste in tutto il lavoro sociale. Per evitare che ciò possa avvenire, noi abbiamo posto dei paletti molto precisi, il primo dei quali consiste nello stabilire subito con il detenuto che il tutor è a sua disposizione per un tempo prestabilito, diciamo un anno. Se entro quell’anno le cose non si risolvono, non è che andiamo avanti comunque, nell’attesa che prima o poi qualcosa succeda. Il concetto è: o te la giochi bene, quest’opportunità, oppure a un certo punto essa scade. Questo modo di chiarire fin da subito tempi e termini dell’azione di tutorship mette l’operatore nella condizione di sapere, lui per primo, che ha un tempo limitato a disposizione; e mette il detenuto nella condizione di capire che deve approfittare in fretta dell’opportunità che gli viene offerta, perché non deve diventare un assistito a vita. Questa logica ha ricevuto più di una critica, al punto di essere definita addirittura inumana da parte di non pochi operatori sociali. Noi però su questo punto restiamo molto rigidi, convinti come siamo che più dai un limite temporale preciso, all’azione di supporto, e più le persone imparano a valorizzare il tempo che hanno a disposizione, e poi te ne sono grate. D’altra parte non è che i "ritardatari", poi, li abbandoniamo a loro stessi… Cessiamo di seguirli, come tutor, ma li affidiamo comunque ad altre realtà e ad altre forme, più tradizionali, di assistenza.
Nicola Sansonna: Il fatto che il tempo a disposizione sia così limitato, tagliato con l’accetta, mi lascia un po’ perplesso. Un anno potrà andare bene per un detenuto normale, con una buona padronanza di sé; ma per uno che ha problemi di tossicodipendenza, per esempio, o che magari ha maturato in carcere, come purtroppo avviene spesso, una vera e propria dipendenza da psicoformaci, un anno può essere una scadenza troppo ravvicinata... Non ci vorrebbe da parte vostra un po’ di elasticità in più, almeno in casi del genere? Sonia Ambroset: I tempi non sono infatti così rigidamente definiti, e uguali per tutti e per tutte le situazioni. Diciamo che il rapporto che si crea fra detenuto e tutor è sempre molto personale, e quindi sensibilmente variabile da caso a caso. Nella realtà, le cose procedono così: io, tutor, incontro te, detenuto, e tu mi dici che vuoi il mio aiuto per uscire dal carcere in un certo modo; insieme stabiliamo qual è il percorso che dobbiamo fare e insieme stabiliamo anche in che termini e in che tempi ce lo gestiamo, questo tratto di strada da percorrere insieme. Il concetto insomma è che tu, fin dall’inizio, sai che hai un certo spazio di tempo a disposizione, concordato insieme, perché se non ci diamo una scadenza fin da principio è inevitabile che fra tre anni siamo ancora qui, a ciacolare insieme. Insomma, darsi un tempo è un aspetto fondamentale, perché altrimenti sia la logica dell’operatore che quella della persona che ha bisogno è quella di rimanerci a vita, in questa situazione.
Sandro Calderoni (Ristretti Orizzonti): Finora abbiamo parlato del tutor in generale, ma esistono allo stato attuale realtà concrete in cui i tutor già operano in modo non occasionale? E inoltre: nel confronto con la situazione e con la persona reale, il tutor riesce ad attenersi al modello "teorico" che fin qui lei ci ha descritto? Sonia Ambroset: Attualmente io sto seguendo diverse équipes, che lavorano per diverse realtà e per diversi bisogni, perché i modelli di partenza – alla prova dei fatti – in effetti sono stati poi sensibilmente modificati, per meglio adattarsi alle concrete e variabili situazioni in cui sono costretti a calarsi: e così il lavoro di queste équipes in alcuni casi è particolarmente centrato sull’inserimento lavorativo, in altri sull’inserimento abitativo, in altri ancora sull’inserimento di tipo relazionale. Normalmente si lavora sulla base di una conoscenza che si sviluppa nell’arco di un mese, nel corso del quale il tutor e la persona puntano essenzialmente a capirsi e a stabilire un rapporto di fiducia e di dialogo efficace. In seguito viene stilato un progetto, insieme, nel quale il tutor e il detenuto ragionano su come muoversi per far fruttare al meglio il tempo che si sono dati per portare a termine la loro strada comune. Non esistono quindi criteri selettivi in base ai quali si dice questo sì e questo no. C’è, invece, questa prima fase di osservazione reciproca, in cui si valuta e si decide insieme il da farsi. E in genere già in questo primo mese si capisce chi ce la farà e chi non ce la farà, e soprattutto chi davvero ha intenzione di mettercela tutta. Comunque, si lavora sempre sul bisogno della singola persona e mai su modelli predefiniti. Tant’è che ci sono casi di ex detenuti che si reinseriscono in fretta e bene (magari perché avvantaggiati dall’aver conservato buoni rapporti con la famiglia e una valida rete di rapporti personali nel territorio, oppure perché in possesso di buone competenze professionali, che li aiutano a reinserirsi in fretta nel mondo del lavoro) e che tuttavia, di tanto in tanto, sentono la necessità di un confronto con il tutor, non foss’altro che per fare il punto sulla situazione.
Paolo Moresco: Personalmente mi ha interessato molto, a un certo punto del suo libro, il discorso sul rischio. Lei scrive: "L’elemento del rischio è un dato strutturale di questo modo di lavorare, come un dato strutturale è che un detenuto che va in permesso possa non rientrare in carcere. E proprio per questo progettare e lavorare in carcere vuol dire imparare a gestire il rischio". Mi pare che il concetto dell’accettazione del rischio, il considerarlo cioè come "fisiologico", sia particolarmente importante, direi centrale, nella concezione del tutor come figura che opera a supporto del detenuto in piena autonomia dal sistema giustizia. Sonia Ambroset: Ho inserito questo discorso sul rischio perché mi sono sempre stupita di chi si stupisce. D’altra parte, senza rischi non si cresce in generale, figuriamoci in situazioni di questo tipo. Va detto poi che la cultura del rischio, il considerarlo cioè strutturale per chi lavora in ambito penitenziario, vuol dire sostanzialmente accettare l’idea che l’altro, il detenuto, è una persona che può fare le sue scelte. Vuol dire non starsene rintanati nella logica infantilizzante, passivizzante, che è tipica della galera. Non solo, ma che è tipica anche di come è strutturato in genere il lavoro dell’assistenza, dove tutto è teso a proteggere costantemente "l’altro" dal rischio. I rischi bisogna imparare a viverli, sia come operatori sia come detenuti. Il concetto di rischio, del resto, è strettamente legato a quello di responsabilità, personale e collettiva. E ragionare in maniera aperta e spregiudicata su responsabilità e rischio potrebbe essere utile, sia con le persone detenute, sia con gli operatori.
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