Lavoro dentro

 

Casanzalinghe

Le casalinghe di una volta? Le puoi trovare in carcere. Quello maschile, però...

 

di Ornella Favero

 

Non ci sono più le casalinghe di una volta? Sbagliato! Dipende solo da dove uno le va a cercare. Sarà perché le donne "fuori" hanno già cucinato abbastanza, e se possono in carcere se lo risparmiano volentieri, sarà perché per gli uomini spesso le "faccende domestiche" sono una scoperta, una sfida, una "messa alla prova", fatto sta che da un confronto tra il carcere maschile di Padova e il femminile della Giudecca, gli uomini in una ipotetica gara di passione e ingegnosità casalinga vincerebbero senz’altro e con ampi distacchi. E’ comunque un lavoro, quello delle casalinghe, per il quale tante donne in passato hanno chiesto di vedere riconosciuta la loro fatica. Probabilmente questo riconoscimento tardivo arriva proprio in carcere, da parte maschile, quando gli uomini cominciano ad accorgersi quanto sia duro mandare avanti una "casa" anche solo di pochi metri.

 

"Simil-merluzzo" e bistecche "intenerite"

 

La cucina è il campo nel quale i detenuti si cimentano con migliori risultati, forse perché la "casanza" maschile (N.d.R.: "Casanza" nel gergo carcerario è il carcere stesso), dovendo provvedere a quasi settecento utenti, passa un vitto spesso scadente e utilizzabile solo se riciclato. Basta pensare al "simil-merluzzo", un pesce di origine ignota che allieta i venerdì carcerari. O alle bistecche, così dure che qualcuno sostiene di utilizzarle per fare spessore sotto una gamba quando il tavolino balla. Fatto sta che c’è una ricetta, suggeritami da Ahmet, detenuto turco semilibero, che si chiama appunto "Bistecca della casanza intenerita" e che prevede di ridurre in striscioline finissime l’altrimenti non commestibile carne carceraria e ricoprine il sapore con tutte le spezie possibili.

Ma c’è anche chi, a dispetto del sovraffollamento, prepara addirittura la pasta "fatta in casa", lasagne e tagliatelle tirate con il manico della scopa e stese sulla branda ad asciugarsi e pronte per le ore di socialità, quando due detenuti si recano in visita ad altri due, portandosi lo sgabello, per cenare insieme. (A proposito di sgabelli, una pena aggiuntiva del carcere è la condanna a non possedere mai una sedia: si passano venti, trent’anni in galera senza potersi sedere decentemente, con la schiena rotta e l’unica alternativa tra branda e sgabello).

Anche gli arabi, se hanno un po’ di soldi, se lavorano, cucinano, anzi cucinano moltissimo, e dividono quello che hanno con i compagni più poveri. Fanno anche il pane, consumando una o anche due bombolette di gas al giorno, e poi naturalmente il cous-cous, e tutto piccante da incendiarsi. Ma i meridionali italiani non sono da meno, nell’uso del peperoncino, mentre i settentrionali spesso hanno imparato in carcere il sapore forte delle spezie.

La cucina anti-casanza è ibrida, meticcia, mette insieme sapori e odori di mondi diversi, unisce il nord e il sud più di qualsiasi ricetta teorica di integrazione tra i popoli.

 

Si cucina nei locali "multifunzionali"

 

Non c’è molta scelta, su dove cucinare. C’è il bagno, l’unico spazio "appartato", chiamato elegantemente "locale multifunzionale", perché funziona appunto per le necessità corporali, per lavarsi, e poi anche per cucinare.

La privazione della libertà in ogni caso aguzza l’ingegno. Basta pensare a come il fornelletto a gas da campeggio si trasforma in forno per pizze, per torte, griglia e altro. Si prende una padella larga, la si riempie di sale grosso e di succo di limone, la si mette sul fuoco, e si aspetta finché si forma una fantastica piastra sulla quale si potranno cuocere pizze fragranti. Oppure si infila una teglia con l’impasto di un dolce in una più larga, contenente dell’acqua, si sigilla con un coperchio e si sfornano torte di invidiabile qualità, ben lievitate e cotte perfettamente.

 

Prendi due paghi tre

 

Se si vuole mangiare salvandosi lo stomaco, bisogna però sottostare all’amara legge del sopravvitto, cioè della spesa che i detenuti possono fare con i loro soldi (i detenuti si pagano il vitto della casanza con il "mantenimento carcere", cioè le ritenute sulle mercedi appena uno comincia a lavorare, e il sopravvitto subito, di tasca propria, a dispetto di chi crede che in carcere si viva come in albergo e anche a spese dello stato). Amara legge, perché per quanto indaghi, denunci, confronti con i prezzi fuori, fatichi enormemente a dimostrare che ti stanno spennando. Il fatto è che non riesci mai a trovare, confrontando i prezzi prodotto per prodotto, delle differenze enormi, eppure sul paniere tipico della casalinga c’è un trenta per cento minimo (alla Giudecca anche cinquanta) di costi in più, ma tutto è fatto con astuzia. Non ci sono naturalmente le offerte speciali, che ogni supermercato garantisce; le marche note vengono spesso sostituite da ignote sottomarche; i prodotti sono il più delle volte vicinissimi alla scadenza, insomma quelli che ogni casalinga che si rispetti lascerebbe da parte, andandosi a cercare le scadenze più lontane, quelli che poi vengono svenduti proprio perché ormai poco "appetibili". A fare una inchiesta seria sul sopravvitto non ci siamo ancora riusciti, ma non demordiamo, sia chiaro, stiamo sempre con gli occhi bene aperti e la penna in mano.

 

La caffettiera che si trasforma in ferro da stiro

 

Le casalinghe viziate posseggono ferri da stiro professionali, vaporelle e altre mostruosità. La nostra è una società che crede di curare i vuoti esistenziali della vita domestica attrezzando le casalinghe con elettrodomestici sempre più sofisticati. Ma se accompagni in permesso un detenuto, e gli chiedi chi gli abbia stirato con tanta perizia i pantaloni, scopri che, a parte il solito metodo da caserma di dormirci sopra, c’è una tecnica molto più raffinata per stirare in carcere. Si prende la parte inferiore della caffettiera, la si riempie d’acqua, la si scalda sul fornelletto, la si afferra con destrezza, naturalmente con uno straccio per non ustionarsi, e si procede a quella operazione odiosa che è lo stirare.

 

Si pensa sempre che chi sta in carcere abbia tantissimo tempo libero a disposizione. Non è del tutto vero: ogni gesto normale, ogni operazione semplice in galera diventano complicati e consumano tempo. Certo, per chi riesce a reagire, tutte queste difficoltà tengono allenata la mente in una lotta giorno per giorno per la sopravvivenza. Quello della "casalinga carceraria" è un mestiere faticoso, verrebbe voglia, riscoprendo vecchie rivendicazioni femministe, di sperare che chi lo ha imparato non se lo dimentichi troppo in fretta, quando ritroverà, fuori, la moglie ad attenderlo.

Lavorare... a chi tocca?

Esiste una "aristocrazia" fatta di detenuti-lavoratori?

Se esiste, vale forse la pena di sentire che cosa ne pensano i detenuti

stranieri, spesso tagliati fuori da questa piccola casta di fortunati

 

di Elton Kalica

 

Se il problema del lavoro in generale è un fenomeno molto complesso, quello del lavoro in carcere è un vero rompicapo. Lavorare è comunque un sogno per tutti i reclusi. Dal punto di vista dell’Amministrazione, in un ambiente carcerario la domanda di lavoro si soddisfa con quel po’ che l’istituto offre, e che si chiama "lavoro domestico", come se avesse davvero a che fare con la nostra casa... Quando poi la provvidenza bussa alla porta, materializzandosi in un paio di capannoni aziendali, come a Padova, allora ecco che il recinto di felicità si apre per far entrare altre pecore affamate e infelici.

Oltre alle normali problematiche economiche del disoccupato libero, lo status di detenuto include anche una serie di aspetti legati alla sua condizione psico-fisica. Essere disoccupato in carcere può significare vivere un dramma e spesso una vera tragedia. Faccio un esempio: un detenuto proveniente da un paese extracomunitario è stato condannato ad una pena non indifferente. Egli, oltre alle solite spese affrontate da tutti i detenuti per cibi e bevande, per detersivi e medicinali, avrà spese ulteriori in pacchi, posta e telefonate. Se questo detenuto appartiene a quel novanta per cento che non percepisce nessun reddito, allora troverà come unica fonte di sostentamento la propria famiglia nel proprio paese. Per poter mangiare, lavarsi e telefonare, chiederà i soldi ai famigliari che vivono già, per conto loro, in difficoltà. L’assurdità della sfortuna spesso s’intreccia con il sarcastico cinismo del destino: invece di mantenere lui la famiglia, come la logica dell’emigrante vuole, è la famiglia che lo fa. In questo modo, oltre alla lunga pena di detenzione che ha inflitto il giudice, oltre all’isolamento familiare che impone la politica estera dei paesi occidentali, rendendo difficilissimi i colloqui tra famigliari stranieri e carcerati, si aggiunge anche la difficoltà economica. Situazione che graverà sull’economia di casa per 10-15 anni, finche il nostro detenuto uscirà e forse troverà un lavoro.

Effettivamente, questa condizione nella quale versano i detenuti in Italia, nel carcere di Padova sembra essere un po’ più distesa, e questo vale specialmente per gli stranieri che si trovano assegnati il 30-40% degli eventuali lavori interni. Queste persone sicuramente passano il tempo tenendosi occupate e investendo le proprie energie in modo tale da poter:

 

evitare litigi e disguidi, caratteristici della vita passiva;

avere una buona relazione comportamentale che le aiuterà ad uscire prima;

migliorare le condizioni dei propri famigliari;

migliorare la propria condizione di vita;

avere un piccolo capitale a disposizione in prospettiva della scarcerazione, da poter investire in ricerca di lavoro.

Si può continuare a lungo con questa lista di benefici che l’occupazione regala ai detenuti, ma sicuramente basta così, per descrivere cosa significhi lavorare. Se si pensa però che solo una piccola parte può accedere a questi benefici, inevitabilmente prende piede l’idea che in carcere c’è una maggioranza di detenuti che passano gli anni stesi sulla branda, e c’è una minoranza che si distingue per una qualità di vita migliore da tutti i punti di vista.

 

Allora la domanda del secolo è: con quali modalità è assegnato il lavoro dentro il carcere?

Il lavoro domestico, a sua volta, è diviso in "lavoro a rotazione" e "lavoro fisso".

Il lavoro a rotazione si limita agli ambiti relativi ai singoli piani. Il carcere è suddiviso in bracci ed ogni braccio necessita di un addetto alle pulizie, lo scopino, e un addetto alla distribuzione del vitto, il portavitto. Queste due mansioni sono svolte a turno, cioè ogni mese i detenuti si danno il cambio in base ad una lista fatta, credo, dagli agenti. In un braccio di cinquanta persone, essendovi due tipi di mansioni, la media di lavoro è nella migliore delle ipotesi una volta ogni 10-12 mesi.

 

Quello che ha lavorato per dieci anni e quell’altro che ha dormito per dieci anni

 

L’istituto necessita anche di altri servizi indispensabili come la cucina, la lavanderia, la biblioteca, la distribuzione della spesa di generi alimentari che i detenuti fanno ogni settimana, la manutenzione dell’immobile. Queste mansioni sono svolte sempre dai detenuti. Gli assegnati a questi lavori si chiamano fissi perché mantengono il posto fino alla scarcerazione. Quando ho descritto i benefici del lavoro, facevo riferimento a queste figure di lavoratori a tempo indeterminato. Sono proprio questi i rappresentanti del "detenuto ideale", a cui si ispira la politica di reinserimento, secondo la quale "il lavoratore può essere inserito con più facilità nella società." Apparentemente la suddivisione del lavoro è stata studiata in maniera da far funzionare meglio l’istituto, e i risultati si riscontrano nel buon andamento dei servizi.

Ora però, tornando a quel detenuto di prima, che per far fronte alla lunga detenzione doveva chiedere i soldi a casa, si deduce che al di fuori di qualche lavoro a rotazione che lo interesserà una volta all’anno, difficilmente avrà la fortuna di accedere ad un lavoro fisso nei primi anni di detenzione. Egli, nel novanta per cento dei casi, farà parte della massa dei detenuti che lascerà il carcere senza una lira in tasca e poi guarderà con invidia quello che uscirà con 10-20mila euro in banca.

Si capisce allora che il lavoro fisso richiede una certa responsabilità e non può essere assegnato a tutti i tipi di detenuti. C’è la necessità, dicono, di un’attenta osservazione per determinare la compatibilità caratteriale del soggetto col lavoro. Tutto vero, ma da qui a individuare come unico strumento di efficienza nello svolgimento di certe mansioni il fatto che si tratti di lavoro fisso, cioè assegnato stabilmente allo stesso detenuto, c’è una profonda differenza. Non a caso succede sempre che appena un lavoratore è scarcerato, si trova subito chi lo sostituisce. Se poi si considera che il carcere di Padova "ospita" 650 persone, appare chiaro che in un carcere di tali dimensioni i detenuti compatibili col lavoro non possono mai scarseggiare.

A questo punto, si potrebbe ritenere realizzabile un’idea, fedele al principio di rotazione almeno in parte. Per la precisione: una rotazione tale che, invece di ripetersi ogni mese, si replichi ogni sei mesi, oppure un anno. In tal modo, un detenuto che in un anno ha messo da parte più di tremila euro, a quel punto può lasciare il posto ad un altro compagno ugualmente meritevole. In questo modo, si eviterebbe la creazione di quella che i detenuti chiamano l’aristocrazia del quinto piano (al quinto piano a Padova stanno tutti i lavoranti). Questo non eliminerà quella divisione inevitabile che si crea tra i detenuti-disoccupati e i detenuti-lavoratori, ma per lo meno attenuerà la differenza tra quello-che-ha-lavorato-per-dieci-anni e quell’altro-che-ha-dormito-per-dieci-anni. Una differenza, se non altro, di qualche migliaio di euro.

A questo punto non si può non lanciare un sasso anche verso l’altra risorsa che ci contendiamo. Evidentemente, non soltanto il lavoro offerto dall’amministrazione è un bene che scarseggia. Anche lavorare nei capannoni messi a disposizione dalle imprese esterne cambierebbe la vita a tanti detenuti. Il lavoro nei capannoni quindi può essere un "oggetto" interessato allo stesso principio di divisione rotatoria, per poter così essere spartito in maniera più equa tra i detenuti.

In ultima, c’è da sottolineare che la sensibilizzazione delle imprese per assumere detenuti in uscita è una cosa fondamentale nell’ambito del reinserimento, e anche della sicurezza delle città. Parallelamente però non si può considerare di minor importanza il lavoro interno agli istituti di pena che interessa, dopo tutto, la serenità e la tranquillità della vita carceraria. Oltre alla tutela della rispettabile società esterna, ci si dovrebbe allora soffermare sull’inquieta società interna, l’ambiente che fa da sottofondo alla rieducazione e alla preparazione per la vita libera. Questo percorso può cominciare realmente, solo eliminando quelle piccole ingiustizie e quelle grandi sofferenze, alle quali quasi continuamente i detenuti si sentono soggetti. Un primo passo può essere quello dell’equa distribuzione del lavoro interno che accontenterà, in primo luogo, un maggior numero di famiglie, che non dovranno più mantenere i loro cari detenuti, e in più allevierà la frustrazione derivante dalla sensazione d’ingiustizia e d’ineguaglianza.

Lavoro a rotazione? Non tutti sono d’accordo

E’ troppo difficile assegnare in modo equo e intelligente il lavoro ai detenuti,

se questo lavoro è quasi inesistente

 

di Marino Occhipinti

 

Sono un "aristocratico" del quinto piano, quello dei lavoranti appunto, e no, non sono d’accordo con la proposta di stabilire la rotazione anche per quelli che ora sono i cosiddetti lavori "fissi".

Già il carcere è il luogo dell’incertezza, e rendere incerto anche quel poco lavoro stabile che c’è non mi pare la soluzione migliore. I criteri di selezione per accedere ad un’occupazione continuativa sono molteplici e sono stabiliti da un’apposita tabella che, sulla base di determinate caratteristiche quali la composizione del nucleo familiare, la presenza di figli minori, la durata della pena inflitta, quella già sofferta e quella ancora da scontare, assegna un punteggio che stabilisce la graduatoria di ammissione al lavoro.

Tanto per intenderci, per fare un banale esempio, chi è da molto tempo in carcere ed ha una lunga condanna da scontare - magari con un nucleo familiare con figli piccoli -quasi sicuramente lavorerà prima di chi ha una situazione diversa e meno gravosa.

E non mi sembra per niente un metodo campato in aria.

I tempi per essere inseriti al lavoro, inoltre, variano notevolmente da un Istituto di Pena all’altro, secondo la loro capienza e la presenza o meno di lavorazioni esterne. Le attese, comunque, mi dice qualche ben informato, generalmente si aggirano attorno ai due-tre anni, proprio quelli che, almeno economicamente, si affrontano più agevolmente, con meno problematiche, vuoi per qualche "risparmio" accantonato o per l’aiuto che i familiari e le persone vicine sono disponibili a concederti.

Poi passano gli anni, nel corso dei quali le spese legali hanno assorbito quel poco che avevi ed i familiari hanno messo fondo ai loro denari per seguirti da un carcere all’altro e per consentirti di sopravvivere. Gli amici si sono pian piano dileguati, d’altronde fuori la vita prosegue ed è fisiologico che sia così.

Ecco allora giungere in soccorso un lavoro fisso, magari part-time come quello al quale sono stato assegnato io: tre ore e mezzo, cioè tutte le mattine, a produrre manichini in cartapesta alle dipendenze della Cooperativa sociale Giotto, che un paio di anni fa ha avviato la lavorazione all’interno di questa Casa di Reclusione.

La scelta del lavoro, ovviamente, è stata effettuata dalla direzione del carcere, non so su quali basi e con quali criteri, ma poco importa, poteva essere anche un’occupazione diversa. Quel che mi interessava era lavorare, lavorare per guadagnare due soldi così da non dipendere, come un bambino ma alla soglia dei 40 anni, da qualche mio familiare.

La possibilità di lavorare non dev’essere però vista solamente nell’ottica economica, certamente importante, ci mancherebbe, ma è altrettanto determinante la gratificazione che arriva forse dalla voglia di dimostrare, a chi ti ha dato fiducia ma anche a te stesso, che sì, hai sbagliato, ma sei ancora in grado di dare e fare qualcosa.

Ma sulla proposta dei lavori a rotazione così come sono descritti nel precedente articolo c’è ancora qualche precisazione da aggiungere, perché gli "aristocratici" del quinto piano sono, nella maggior parte dei casi, persone che hanno già scontato parecchi anni di carcere.

Oltre ai criteri oggettivi e soggettivi già elencati, comunque, vi sono altre circostanze determinanti all’assegnazione al lavoro fisso, perché, lo dice anche l’Ordinamento Penitenziario all’articolo 27, "l’osservazione scientifica della personalità è diretta all’accertamento dei bisogni di ciascun soggetto, connessi alle eventuali carenze fisico-psichiche, affettive, educative e sociali…", secondo un percorso rieducativo e risocializzante che viene sviluppato e modellato ad hoc, individualizzato e personalizzato sulla base delle esigenze di ogni singolo detenuto.

Ho dovuto aspettare 7 anni e mezzo prima di avere un lavoro "fisso", anche se devo dire che sono in questo Istituto soltanto da poco più di tre anni, e anche se ora non navigo nell’oro sinceramente mi seccherebbe un po’ se il lavoro fosse, che ne so, a cadenza trimestrale o semestrale, non tanto per qualche euro di differenza nel bilancio ma piuttosto per non minare quell’equilibrio psicofisico già di per sè difficile da mantenere in carcere, soprattutto se hai una lunga condanna da scontare e cerchi la tranquillità.

Quando non hai la libertà dietro la porta eviti di fare tanti calcoli: metti da parte le illusioni, ti "corazzi" per sopravvivere e la tua vita diventa il carcere, con tutti i suoi tran tran: interrompere ogni volta un percorso costruito ad arte per le tue "caratteristiche" provocherebbe un pericoloso effetto elastico, un tira e molla che certamente non gioverebbe, anzi.

 

Il problema delle cooperative che danno lavoro in carcere? 

L’eccessivo turn over dei lavoranti.

Fin qui le considerazioni elaborate come detenuto, ma c’è un altro versante forse ancora più importante: la rotazione in determinate attività è estremamente difficoltosa in considerazione delle caratteristiche proprie di alcune lavorazioni, ad esempio nelle attività inframurarie svolte alle dipendenze delle imprese che accettano di portare lavoro in carcere, quelle che vengono comunemente definite attività "produttive" perché si differenziano dai soliti lavori domestici, ma anche nell’ambito degli stessi lavori domestici penso, ad esempio, alla qualità del cibo se i cuochi fossero sostituiti ogni sei mesi….

Ma ancor di più penso ai laboratori di falegnameria, alle lavorazioni del ferro o del marmo, all’assemblaggio di componenti elettronici, all’inserimento dati tramite computer, lavori realmente esistenti in carcere, e non è per difendere la categoria dei lavoratori fissi, la mia "casta", che dico no alla proposta che anzi non ho alcun timore a definire distruttiva.

Basta leggere le "interviste a distanza" che sviluppiamo come redazione di Ristretti Orizzonti. Una delle prime domande che poniamo sempre alle cooperative ed alle aziende che all’interno degli Istituti detentivi danno lavoro ai detenuti è la seguente: "Quali sono le difficoltà che incontrate nel lavorare in carcere?".

Ebbene, la risposta è quasi sempre la stessa: l’eccessivo turn over dei dipendenti è la principale problematica avvertita dalle imprese, che dopo aver formato i lavoratori per parecchi mesi, a volte anni, così da renderli pienamente produttivi e quindi funzionali alle loro esigenze, li "perdono" per i motivi più svariati, tanto da mettere a serio rischio la sopravvivenza della lavorazione stessa.

Il problema del lavoro in carcere esiste, lo dicono le statistiche e ce ne accorgiamo quotidianamente, ma forse un’eccessiva turnazione produrrebbe solamente ulteriori danni, mettendo a repentaglio quel poco che nel corso degli anni è stato faticosamente costruito.

Purtroppo non ho alcuna soluzione da suggerire se non quella di lasciare invariato l’attuale sistema: probabilmente, "tirare" avanti così eviterà di far peggiorare la situazione, d’altronde per chi ha la "fortuna" di avere una condanna abbastanza lunga il "privilegio" di appartenere alla "casta" dei lavoranti prima o poi arriva!

 

 

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