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La giustizia riparativa come alternativa al carcere La vittima può ritrovare il proprio equilibrio indipendentemente da una dimensione vendicativa Definizione del concetto di giustizia riparativa e considerazioni sull’attuale interpretazione da parte della magistratura italiana
di Giuseppe Mosconi Docente di Sociologia del Diritto dell’Università di Padova
Il posto che occupa la giustizia riparativa nel nostro sistema penale
Le leggi che si riferiscono alla giustizia riparativa nel nostro sistema giudiziario, configurano complessivamente una misura che si radica nella fase esecutiva della pena. Se le esaminiamo nel dettaglio notiamo innanzitutto l’articolo 47 dell’Ordinamento penitenziario, che, con riferimento all’affidamento in prova al servizio sociale, al comma 7 dice che nel verbale deve anche stabilirsi “che l’affidato si adoperi, in quanto possibile, in favore della vittima del suo reato”. E qui notiamo già un contrasto tra il fatto che questa disposizione “deve” essere contenuta nella sentenza che delibera sull’affidamento, mentre sul piano applicativo l’obbligo formale di adoperarsi in favore della vittima è però sottoposto alla condizione della sua effettiva possibilità. Il che limita il carattere coattivo della disposizione stessa. Rispetto a questo principio, che comunque già definisce l’attivarsi a favore della vittima come un aspetto particolare e secondario rispetto all’applicazione di un beneficio, la successiva norma del nuovo Ordinamento penitenziario del giugno 2000, aggiunge, all’articolo 27, un criterio anche più specifico, e cioè quello per cui si ritiene necessario, da parte del condannato che chiede un beneficio, “che si sviluppi una riflessione sulle condotte antigiuridiche poste in essere, sulle motivazioni e sulle conseguenze negative delle stesse per l’interessato e sulle possibili azioni di riparazione delle conseguenze del reato, incluso il risarcimento dovuto alla persona offesa”. All’articolo 118 della stessa legge, questa idea della riflessione critica sul proprio comportamento, viene ripresa come compito dell’Ufficio esecuzione penale esterna (Uepe, ex Servizio sociale adulti), il quale “deve adoperarsi per una sollecitazione ed una valutazione critica adeguata da parte della persona, degli atteggiamenti che sono stati alla base della condotta penalmente sanzionata, nella prospettiva di un reinserimento sociale compiuto e duraturo”. Considerando complessivamente queste disposizioni, si notano essenzialmente tre caratteristiche che vanno a definire il modo in cui la giustizia riparativa è concepita ed è inserita nell’ordinamento italiano. Prima di tutto essa risulta come un aspetto marginale, quasi ritualistico, rispetto ad una sanzione penale che viene irrogata. In secondo luogo, come un modo per dare più “concretezza” alla soddisfazione della vittima, nel senso di risarcirla rispetto al reato subito, e infine, come una forma di reinserimento, di rieducazione, una forma di riabilitazione della persona. Ora tutte e tre queste caratteristiche danno al momento riparativo – e all’onere per il condannato di riparare gli effetti del reato – un valore essenzialmente subordinato rispetto all’applicazione di una sanzione penale. La giustizia riparativa si configura quindi, sostanzialmente, come una modalità di esecuzione della pena.
A livello internazionale la giustizia riparativa viene intesa come alternativa al carcere
Queste forme di risarcimento sicuramente si discostano dal modo in cui questo tipo di misure viene incentivato a livello internazionale, tanto dal Consiglio d’Europa, quanto dalle Nazioni Unite. Per esempio, nella raccomandazione del 1985 del Consiglio d’Europa sulla posizione delle vittime nell’ambito del diritto penale, si dice di “prendere atto dei vantaggi che possono presentare i sistemi di mediazione e di conciliazione, e di promuovere e di incoraggiare le ricerche sull’efficacia delle disposizioni concernenti le vittime”. In un altro testo, una raccomandazione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa del 1987, si raccomanda appunto di “sviluppare adeguate politiche in favore delle vittime per incoraggiare altresì le esperienze di mediazione tra il delinquente e la vittima, valutandone i risultati con particolare attenzione a quelle misure in cui gli interessi delle vittime sono salvaguardati”. E, ancora, in una risoluzione del 1997 della Commissione del Consiglio delle Nazioni Unite, si dice che “prendendo atto del sovraffollamento delle carceri e del critico stato del sistema di giustizia penale, si afferma l’importanza di una prevenzione non repressiva del crimine, e si rilancia la necessità di un’attenzione alla vittima, che non va colpevolizzata ma assistita e protetta, e di una contestuale dovuta considerazione ai diritti del reo”. Ancora, si fa riferimento al sovraffollamento delle carceri in una risoluzione sulla cooperazione internazionale tesa alla riduzione dello stesso, sempre da parte di una Commissione delle Nazioni Unite: “Prendendo atto del sovraffollamento delle carceri (e quindi delle difficoltà del lavoro degli operatori) si raccomanda agli Stati membri di ricorrere allo sviluppo di forme di pena non custodiali, se possibile a soluzioni amichevoli dei conflitti di minore gravità, attraverso l’uso della mediazione e dell’accettazione di forme di riparazione, o accordi di reintegrazione economica in favore delle vittime con parte del reddito del reo, quindi compensazione con lavoro espletato dal reo in favore della vittima stessa”. Da questi testi si evince con chiarezza un orientamento volto a prevenire l’applicazione della pena della reclusione, a sviluppare forme alternative di intervento che siano incentrate sulla misura, sull’esperienza della mediazione penale, e siano orientate quindi a ridefinire i rapporti tra autore e vittima di reato senza che questo passi per il momento repressivo. Un approccio tipico della mediazione, che cerca di ridefinire un rapporto equilibrato e reintegrato tra entrambi gli attori, eventualmente anche attraverso l’assunzione da parte del responsabile di reato di compiti riparativi specifici a vantaggio della vittima. Siamo ben lontani quindi da una modalità accessoria, un surplus della sanzione penale, che è quella sostanzialmente prevista dalla legislazione italiana. Basti considerare il fatto che, nel caso della legislazione italiana, è già intervenuta una condanna con una sanzione detentiva, e siamo in una situazione in cui la detenzione viene eventualmente sostituita dall’affidamento in prova al servizio sociale. Rispetto a questo, l’attività riparativa è un’attività che si “aggiunge”, ed infatti viene prevista con una modalità subordinata alla sanzione penale.
La mediazione penale ha poco a che fare con quanto previsto dal nostro Ordinamento penitenziario
Il beneficio dell’affidamento in prova ha tutt’altra logica, rispetto a quella che sarebbe la mediazione penale applicata in sede processuale. Si tratta infatti di una modalità diversa di espiazione della pena, in qualche modo di una sospensione della pena detentiva in attesa che la persona dia prova di capacità di reinserimento, ma in quest’ambito, in questo procedimento, si è già maturata la condanna penale. Ben diversa è invece l’idea di un provvedimento di mediazione che avvicini l’autore alla vittima prima che si giunga alla condanna, e che orienti l’autore ad un’attività riparatoria, appunto tipica di una giustizia riparativa, in sostituzione all’applicazione di una condanna penale. Nel momento in cui questo orientamento, questo atteggiamento riparativo, viene subordinato ad una già avvenuta applicazione di una sanzione penale, esso inevitabilmente assume un carattere doppiamente punitivo e sostanzialmente strumentale. Sia perché serve ad ottenere il beneficio – e quindi evitare la detenzione – sia perché viene incentivato anche nel quadro dell’esecuzione penale esterna, e quindi assume il valore di una modalità da perseguirsi per ottenere quel supporto materiale, quell’aiuto al reinserimento che costituisce uno dei compiti dell’UEPE. Essa si configura così come quell’idealizzata capacità di cambiare l’atteggiamento della persona, di favorirne una riflessione sostanziale che ne migliori l’atteggiamento. Rischia quindi di essere una rappresentazione puramente simbolica, astratta, un’idealizzazione inutile di un qualcosa che ha una sostanza ben diversa, e cioè che si riferisce a un atteggiamento puramente opportunistico e indirizzato, diciamo così, a conseguire i vantaggi che a quella misura si associano. Il fatto è che, una volta che questa idea di giustizia riparativa si dispiega nel quadro di una sanzione penale, assistiamo inevitabilmente ad una duplice deformazione rispetto alla sua originaria ispirazione, come alternativa sostanziale alla legge penale. In primo luogo il fatto che si crei una specie di forzata coesistenza tra la riparazione dovuta verso lo Stato, attraverso la sanzione afflittiva, e la riparazione dovuta verso la vittima, verso il singolo soggetto che ha subito le conseguenze del reato, come una modalità aggiuntiva della sanzione. In realtà le due motivazioni – cioè quella orientata ad affermare i superiori interessi dello Stato, e quella orientata invece ad affermare gli interessi della vittima – non debbono essere viste come coesistenti e compatibili, ma proprio come riferimenti alternativi di due concezioni contrapposte della sanzione dell’illecito. Nel primo caso si afferma un valore generale, superiore, che si riflette poi in una sofferenza applicata al singolo. Nel secondo caso, invece, si pensa a un riequilibrio, a una forma di riconciliazione, di riorganizzazione delle relazioni che si dispiega nel rapporto tra gli individui. Una ricostruzione del legame sociale viene pensata come più efficace, più sostanziosa, più fondata rispetto a un provvedimento di carattere puramente simbolico e sostanzialmente distruttivo della identità sociale del soggetto. Proprio una riorganizzazione del legame sociale tra i soggetti in quanto tali, nella misura in cui è sostanziale e riequilibra gli atteggiamenti reciproci e ricrea fiducia può confluire, diciamo così, in una dimensione più ampia, più generale, che riafferma l’interesse pubblico inteso come la somma dei singoli interessi individuali soddisfatti in modo più concreto, più profondo, attraverso le forme di riparazione. Si tratta quindi di abbandonare l’idea di un interesse pubblico che è tutelabile solo sotto il profilo simbolico, con effetti afflittivi, per immaginare invece un nuovo modo di definire l’interesse pubblico come riaffermazione dei diritti, o riparazione dei danni subiti dalla vittima, e quindi come componente di un complessivo interesse pubblico che risulta tutelato dall’insieme degli atti riparatori. Il secondo tipo di deformazione è che, quando siamo in questa cornice penalistica, se l’atto riparativo tende ad essere visto come ricomposizione di una frattura dentro se stessi, di una frattura che ha intaccato l’identità sociale del soggetto, in realtà l’atto riparativo si pone in una situazione di frattura che si è già prodotta, non tanto a causa dell’illecito, quanto a causa della condanna e dell’applicazione della sanzione. Nella misura in cui infatti la sanzione penale rappresenta un’esperienza che deforma la realtà di vita del reo, che ne altera il sistema di relazioni sociali, ben poco può riparare il risarcimento della vittima considerando il tipo di frattura sociale, che è venuta a determinare. Il rischio è che questo tipo di riparazione della vittima si proponga, o meglio si imponga come ulteriore sanzione, come ulteriore restrizione rispetto alla restrizione già subita, e possa paradossalmente assumere il valore di un’ulteriore e più profonda, più sottile e più subdola, frattura dell’individuo verso se stesso, dell’individuo verso la società.
La riparazione, com’è concepita nel nostro sistema, non può funzionare
“La ricostruzione della relazione” tra autore e vittima può avvenire sostanzialmente proprio se l’autore non è sottoposto a una afflizione penale, ma viene riconosciuto invece nella sua sostanziale soggettività, nella sua esperienza umana, considerata nella sua più profonda e reale autenticità, e questo vale ovviamente per entrambi i soggetti. Anche nel caso della ricostruzione del legame sociale, cioè in termini più ampi del rapporto del soggetto con la società, il suo senso di appartenenza sarà tanto più efficacemente ridefinito se il soggetto viene appunto riconosciuto nelle sue prerogative, nella sua autenticità, nella natura più reale della propria esperienza, aspetti che non sono invece riconoscibili nel quadro di una sanzione punitiva e di una condanna predefinita secondo certi elementi che la legge penale preordina. Resta la “composizione del conflitto” quindi. Ma il conflitto prevede una situazione di parità tra i soggetti, prevede una situazione di difficoltà relazionale tra gli stessi, tutta incentrata sulla problematicità del comportamento e sui danni che lo stesso ha determinato. Il conflitto quindi configura, in termini intersoggettivistici, per non dire quasi privatistici, il rapporto tra autore e vittima del reato, rapporto che è venuto a determinarsi tra i due soggetti e viene definito e deve essere risolto in quanto tale, cioè come composizione di quel conflitto, senza invece deformare e debordare la natura di questa ostilità in una dimensione pubblica e generale che travalica i rapporti tra le persone, qual è quella effettuata dall’intervento penale. Poi c’è “la riassunzione di responsabilità”: anche questo aspetto viene idealizzato come parte di questa concezione di giustizia riparativa. Ma l’assunzione, o riassunzione di responsabilità, dovrebbe essere tanto più sostanzialmente tale quanto più si allontani da quei rischi di strumentalità che strutturalmente sono presenti in questa idea della giustizia riparativa. E quindi il discorso dell’assunzione di responsabilità ha senso quando viene riconosciuta piena dignità al soggetto che ha violato la legge, quando lo si considera con pienezza come persona, e non come una persona dequalificata che ha demeritato e che deve “lavarsi”, diciamo così, di una macchia dalla quale è difficile risollevarsi socialmente rispetto alla situazione oggettivamente determinata da una condanna penale.
Come si colloca in questo quadro la funzione di prevenzione
Se di prevenzione – così come la stessa legislazione europea auspica – deve trattarsi, questa prevenzione deve avvenire prima che maturino gli elementi che portano una sanzione penale. L’idea di giustizia riparativa si pone, originariamente, in contrapposizione e in alternativa all’idea di giustizia retributiva. La retribuzione evidentemente è l’applicazione di una sanzione di intensità uguale e di valore contrario rispetto al bene violato, mentre la riparazione è una soddisfazione dell’interesse concretamente leso, attraverso l’attivarsi personale, concretamente produttivo, dell’autore di reato. Se noi pretendiamo di inserire l’idea di riparazione in una cornice già definita sostanzialmente dalla retribuzione, la riparazione non può essenzialmente esserci. Il punto è che mediazione si può avere solo lì dove lo Stato rinunci a punire; cioè, quale mediazione ci può essere rispetto al fatto che si prospetta la possibilità, per l’autore di reato, di riparare il danno, quando l’autore del reato ha già subito la potestà impositiva e sanzionatoria dello Stato attraverso la sanzione penale? A questo punto non gli si può chiedere qualcosa che comporti una limitazione di tipo diverso, quando ha già subito la limitazione massima, e quindi margini di mediazione in questo senso non sono più concedibili. In secondo luogo, il senso della giustizia riparativa si dispiega solo se la concepiamo come interazione dinamica progressiva, foriera di positive evoluzioni nel rapporto tra autore e vittima, e non si colloca invece in qualcosa che è già stato predefinito essenzialmente dalla condanna penale e dall’applicazione soprattutto della sanzione. Il fatto è che la mediazione penale è qualcosa di sostanzialmente diverso rispetto all’applicazione di una sanzione con aggiunta di un onere riparatorio. Soprattutto perché è diversa la definizione, l’immagine, la concezione dei soggetti coinvolti nel processo mediatorio. Diversa è la posizione dell’autore, il quale da un lato si trova nelle condizioni di poter esporre il suo punto di vista, la sua esperienza, la sua umanità, la sfera più effettiva, più sostanziale delle sue motivazioni, e in virtù di questo riconoscimento si può trovare così disposto ad attivarsi per riorganizzare la sua appartenenza sociale. Diversa è la posizione della vittima, che è, a sua volta, un attore riconosciuto nella pienezza della sua dignità e della sua appartenenza sociale, con piena possibilità di essere ascoltato, di essere riconosciuto nella sostanzialità dei suoi interessi, e di essere orientato a una soddisfazione effettiva, non puramente marginale e gregaria rispetto alla pronuncia della responsabilità penale. Ma è diversa anche la posizione della collettività, per certi aspetti definibile o riferibile allo Stato, in quanto è una collettività che non raccoglie una riparazione di tipo puramente simbolico, quale è quella della condanna penale, ma che si vede invece valorizzata dalla effettiva ricostruzione del rapporto con chi se ne era allontanato, dalla effettiva riacquisizione del patrimonio rappresentato dalla presenza di un individuo che cambia atteggiamento, che viene sollecitato, o che comunque viene posto nelle condizioni di riparare allo squilibrio che l’illecito ha determinato. Che mediazione potrebbe mai esserci se a sua volta il soggetto, il reo, non venisse riconosciuto come soggetto, se non si rinunciasse alla punizione nei suoi confronti come contropartita del fatto che gli viene offerta una proposta diversa, che gli viene data una possibilità diversa? L’evidente differenza tra questi due approcci emerge già anche nella nostra legislazione, dove è di tutta chiarezza la diversità di approccio tra la giustizia minorile e la giustizia per adulti. Nella giustizia minorile la mediazione – e quindi anche l’esperienza riparativa – avviene prima che si giunga alla condanna, come forma di sospensione della vicenda processuale, e quindi addirittura in alternativa allo svilupparsi del processo penale.
Riconoscere il ruolo della vittima non può prescindere da un diverso riconoscimento dell’autore del reato
Se si mantiene una dimensione alternativa tra la riparazione e la retribuzione – e la retribuzione resta come sanzione subordinata al fallimento della riparazione – è difficile uscire strutturalmente da questo carattere ricattatorio della minaccia penale. Ma la cosa è tanto più sostanzialmente attuabile quanto più si dà preventivamente spazio a una dimensione libera di incontro, di dialogo, di contrattazione, che sia sottratta al condizionamento della cornice penale e che quindi sottragga la misura mediatoria dallo snaturamento di una sua subordinazione funzionale all’esercizio dell’azione e della sanzione penale. L’esperienza riparativa non può dunque consistere nell’assunzione di un surplus di responsabilità che passa attraverso l’ammissione forzata della propria colpevolezza, ammissione che del resto mai potrebbe essere spontanea in un contesto di questo genere; deve essere invece intesa come pieno riconoscimento di soggettività, di dignità, di possibile pienezza di appartenenza sociale, dove si tratta di uscire dalle categorie della colpa, dell’espiazione, del perdono, della conversione, della riabilitazione, della scusa. Solo uscendo dalla definizione precostituita di colpa, di castigo, di minaccia, di pena, di espiazione, di scusa strumentalmente predefinita, è possibile fare emergere la ricchezza soggettiva di chi ha violato la norma per ricostituirlo e restituirlo meglio alla sua dignità sociale, in cui un pieno riconoscimento di diritti può definitivamente allontanare la persona dalla china che porta a indurla ad assumere comportamenti lesivi e socialmente dannosi. Questo approccio definisce un estendersi della dimensione di tutela su un duplice versante normalmente estraneo alla condanna penale: da un lato la vittima, immaginata e ridefinita come un soggetto sociale che può ritrovare il proprio equilibrio, la propria soddisfazione indipendentemente da una dimensione vendicativa. Dall’altra i parenti del reo – cosa che non si considera mai abbastanza – che subiscono pesantemente per anni e spesso in modo lacerante e irreversibile, gli effetti indotti della carcerazione, della sanzione penale, in quanto sottratti dalla sfera di relazionalità e di affettività che la presenza del soggetto condannato, nell’ambito della loro esistenza, nel loro contesto di vita, naturalmente offre come risorsa umana. In definitiva quindi, dobbiamo guardare con diffidenza e con preoccupazione a questa tendenza che intende attribuire una funzione riparativa a sanzioni suppletive ulteriori rispetto a quelle già penalmente irrogate. Non tanto perché in un quadro sanzionatorio classico, di ordine retributivo, non si possano inserire elementi di umanizzazione, di risocializzazione o di maturazione personale che, associati anche a un’attenuazione della afflizione penale, diano alla stessa una dimensione per certi aspetti più umana, più sensata e più accettabile dal punto di vista della riconciliazione della società con chi ha violato la legge. Ma soprattutto perché sviluppare in questa direzione l’idea della riparatività, l’idea di un segno diverso della giustizia rispetto alla punizione, toglie spazio e deforma concettualmente la prospettiva di un’alternatività al penale che può proprio svilupparsi nella dimensione della riparazione attraverso un’estensione delle esperienze di mediazione, non come articolazione subordinata della logica del diritto penale, ma invece come dimensione e spazio sostanzialmente e profondamente alternativo. Il fatto dunque di accettare che l’idea di riparazione si sviluppi soprattutto nel campo esecutivo della pena comporta il pericolo che possa configurarsi come una deformazione culturale, come una pregiudiziale sostanziale, che toglie spazio alla possibilità di introdurre e perseguire una prospettiva del tutto diversa. Una dimensione che preventivamente, così come vuole la legislazione europea, declini l’intervento istituzionale su un terreno e in uno spazio che prevengano la soluzione sanzionatoria ed afflittiva del problema che si determina tra autore e vittima di reato.
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