Foto Giornalismo

 

Siamo tutti un po’ malati di “analfabetismo visivo”

Con Marco Capovilla, docente di fotogiornalismo, abbiamo in comune la voglia

di combattere una difficile battaglia contro la spettacolarizzazione

delle tragedie personali e l’esibizione del dolore altrui

 

Intervento di Marco Capovilla, fotografo e docente di fotogiornalismo

 

Mi è stato chiesto di parlare di immagini e di fotografia nell’ambito dei giornali e dei media e lo farò tra breve. Prima di tutto, però, vorrei ribadire alcune nozioni che spesso vengono date per scontate, ma che forse andrebbero ripetute e ricordate: la prima è che la nostra è una società dominata dall’immagine, dalla comunicazione visiva, e tuttavia la maggior parte dei cittadini, di noi, è del tutto impreparata a interpretare e decodificare i messaggi visivi che arrivano loro. La quasi totalità della popolazione si trova in una situazione di analfabetismo visivo: a scuola ci insegnano a leggere, a scrivere, a far di conto, e poi impariamo la geografia, la storia, le scienze, ma nessuno ci insegna la lettura critica dei messaggi audiovisivi. E questo è il primo punto che pongo alla vostra attenzione. Il secondo punto, che è agganciato direttamente a questo, riguarda alcune nozioni di base che riporterò in maniera molto schematica, riguardanti il funzionamento del nostro cervello, cioè delle nozioni di psicologia della percezione e di neurofisiologia. Il nostro cervello è diviso in due aree, in due emisferi, ciascuno dei quali elabora in maniera per lo più indipendente, anche se poi lo stimolo viene integrato, unificato, ad altri livelli, due tipi di messaggi diversi: da un lato l’emisfero sinistro, che è il nostro emisfero analitico-razionale, in grado di interpretare testi scritti, di fare connessioni logiche, dall’altro il nostro emisfero destro, deputato alle emozioni, agli affetti, alla visione, all’elaborazione di stimoli che rientrano in un ambito che possiamo definire “artistico-creativo”.

Premesso questo, e scusandomi per la semplificazione che ho dovuto fare nel tentativo di definire rapidamente l’argomento di cui stiamo parlando, quando noi ci troviamo di fronte a dei messaggi come quelli che ci inviano i media, noi ci troviamo di fronte anche a due aree del nostro cervello che lavorano simultaneamente per decodificarli: una delle due ha quasi sempre il sopravvento, almeno nella breve distanza. Vale a dire che noi percepiamo i giornali, la televisione, internet, i media audiovisivi in generale prima di tutto tramite le immagini che essi ci forniscono, e soltanto in un momento successivo per i contenuti verbali, testuali che veicolano. Se partiamo da questi principi, sui quali vi chiedo di essere d’accordo perché sono provati da decenni di esperimenti di psicologia e di neurofisiologia, noi dobbiamo chiederci: la formazione dell’opinione pubblica, così come viene studiata da quasi 100 anni a questa parte, attraverso quali meccanismi avviene?

La maggior parte di noi, anche quelli che hanno più a che fare con il mondo dei media e quindi ne conoscono i meccanismi, la maggior parte di noi conosce il mondo esterno attraverso ciò che viene veicolato dai vari media che “frequenta”. Tra questi il ruolo dominante nella nostra società degli ultimi 30, 40 anni ce l’ha la televisione, e la televisione naturalmente veicola in primo luogo immagini. Allora se il nostro immaginario, cioè le immagini mentali che noi ci forniamo e con le quali poi interpretiamo il funzionamento della società, sono così importanti, è importante che da un lato queste immagini siano il più possibile aderenti alla realtà che ci rappresentano, dall’altro che noi siamo in grado comunque di interpretarle in maniera critica, consapevole, e dominandone i messaggi.

Giustamente Mauro Paissan, che prima di essere membro dell’Ufficio del Garante della Privacy è anche giornalista, ha parlato del codice deontologico come di una serie di norme che servono ad esplicitare dei principi, che erano impliciti all’interno del mondo giornalistico fin dalla legge istitutiva dell’Ordine. È abbastanza curioso però che in Italia il primo codice deontologico venga scritto nero su bianco nel ‘93, trent’anni dopo che è stata scritta la legge istitutiva dell’Ordine che è del ‘63. Nel ‘93 si è sentita l’esigenza di darsi delle regole più esplicite: questo significa che la società nel suo complesso, e quindi anche i produttori di media, i giornali, i professionisti dell’informazione e quindi i giornalisti, hanno sentito questa esigenza, molto probabilmente a causa delle continue e ripetute violazioni di alcune regole, fino a quel momento non sufficientemente esplicitate, e forse anche meno sentite dai cittadini. Alle norme e ai codici che sono stati citati, vorremmo forse aggiungere oggi, nel 2006, anche una Carta di Padova, o qualunque altra sia la denominazione che le si vorrà dare, per precisare meglio quali siano i limiti deontologici di un giornalismo che si voglia occupare di vicende giudiziarie in maniera matura, consapevole e rispettosa della dignità degli individui in esse coinvolti.

È bene essere consapevoli fin da subito, per evitare di risvegliarsi bruscamente domani da un sogno precipitando nella dura realtà, che nuovi limiti di autoregolamentazione generano immediatamente dei nemici, o per lo meno danno nuovo vigore a quelli già esistenti.

Quali sono, dunque, i principali nemici di un nuovo Codice Deontologico dei giornalisti? Il principale nemico sono le aziende stesse che operano nel mercato dei media, che per loro assetto e struttura tendono a massimizzare i profitti, e per ottenere questi scopi non esitano a passare sopra la vita delle persone. Il secondo nemico è una certa smania di protagonismo e di ricerca forzata dello scoop da parte di alcuni giornalisti, e nel dire questo non voglio fare di tutta l’erba un fascio perché è giusto riconoscere che ci sono tanti giornalisti responsabili, consapevoli e rispettosi delle regole, che lavorano anche nell’ambito della cronaca giudiziaria. Permettetemi però di citare, visto che ci troviamo nel Veneto, un recente scoop nell’ambito della cronaca nera apparso sotto forma di una foto che non si sarebbe dovuta mai pubblicare sulla prima pagina dal Gazzettino il giorno 12 maggio scorso, e sul quale saranno presto chiamati a pronunciarsi  i presidenti degli ordini regionali del Veneto e della Lombardia nonché il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, dato che alcune norme del codice deontologico sono state violate. Mi riferisco alla foto del feto mai nato, estratto dal grembo di una giovanissima ragazza incinta, ammazzata di recente in provincia di Venezia, sbattuto in prima pagina con argomentazioni, a dir poco, discutibili.

Il terzo elemento, infine, che minaccia la corretta applicazione di un codice, strettamente connesso con il desiderio di protagonismo di alcuni giornalisti di cui abbiamo appena parlato, è un certo voyeurismo da parte del pubblico che chiede la cosiddetta pornografia della sofferenza, la spettacolarizzazione delle tragedie personali e l’esibizione del dolore altrui.

Questi tre fattori si mescolano e al loro interno fanno la loro parte sia i media, come strutture e aziende, sia i professionisti dei media, sia i lettori che, comperando ogni settimana 500.000 e più copie di un giornale scandalistico, inevitabilmente danno ragione e premiano quel tipo di giornalismo. Anche grazie a questo trattamento spettacolarizzante delle notizie i media stanno progressivamente facendo sparire le distinzioni tra i generi. La conseguenza è che il genere intrattenimento, che una volta era ben separato dal genere pubblicità che a sua volta era ben distinguibile dall’informazione, stanno diventando in molti casi (documentati, documentabili e stigmatizzati in tutte le sedi opportune) un unico pastrocchio, nel quale lo spettatore televisivo o il lettore di giornale non riesce più a distinguere esattamente quando si trova di fronte ad una pagina pubblicitaria, ad una pagina di intrattenimento o ad una sobria notizia giornalistica. Sottolineo sobria, perché se si ha a cuore l’informazione, è ad un rigoroso standard di essenzialità e di misura che dovrebbero attenersi le notizie giornalistiche.

Dopo queste premesse molto generali sul rapporto tra immagini, formazione dell’opinione pubblica ed etica della professione giornalistica, dal momento che sono stato chiamato a parlare di immagini, di fotografia in particolare, vorrei che facessimo un rapido viaggio nel tempo alla ricerca delle radici del rapporto che lega le immagini ai temi sui quali ho richiamato la vostra attenzione.

La prima è un’immagine della seconda metà dell’800 e fa parte di una vasta operazione di schedatura, che è stata adottata per la prima volta in Francia da un funzionario della Prefettura di Parigi di nome Alphonse Bertillon. Costui, partendo dai principi dell’antropometria, formula una vera teoria scientifica volta alla descrizione esatta dei delinquenti e pone le basi teoriche e pratiche della cosiddetta foto segnaletica e giudiziaria.

Nel 1890 Bertillon alla Prefettura (l’equivalente della nostra Questura) di Parigi aveva già schedato fotograficamente molte decine di migliaia di persone coinvolte a vario titolo in eventi delittuosi. C’è, come vedete, da quasi un secolo e mezzo, un rapporto molto stretto tra fotografia e crimine. Scrive Adriano Sofri, nella prefazione di un volume di fotografie sul carcere, che la prima esperienza che i detenuti fanno quando entrano in carcere è la fotografia che viene loro fatta, il cosiddetto ritratto segnaletico.

È interessante poi soffermarsi, in questo breve viaggio nella storia, su una foto delle cere ospitate nel museo Lombroso ciascuna dotata di un’etichetta che indica il tipo antropologico di criminale: c’è l’omicida e c’è lo stupratore, il falsario e il ladro. Non dimentichiamoci che nasce in quell’epoca, proprio ad opera del Lombroso, l’antropologia criminale, che sostiene che la struttura morfologica di un individuo è sufficiente ad identificare la personalità criminale. Si vuole cioè apporre un’etichetta di delinquente alle persone in base alla loro fisionomia, al loro aspetto fisico, ai tratti somatici. Fortunatamente la scienza criminologica e le scienze sociali si sono incaricate nei decenni successivi di dimostrare quanto fosse totalmente infondata questa teoria.

Poi c’è una foto di un individuo sulla sedia elettrica con varie persone intorno: è una foto fatta nel penitenziario di Sing Sing negli Stati Uniti nel 1890, e testimonia già un interesse a documentare i fatti criminali e soprattutto le esecuzioni capitali più di un secolo fa.

Un’altra immagine significativa è del 1873, un’illustrazione, non una foto in questo caso, e sintetizza bene quale sia nell’immaginario popolare il rapporto tra Forze dell’Ordine e persona arrestata. Si può notare l’arrestato che si dimena, la polizia che lo trattiene e il fotografo che scatta la foto e contemporaneamente il pubblico che un po’ guarda, un po’ sogghigna ma è comunque spettatore interessato di questo evento. Qui incontriamo nuovamente un riferimento al nostro rapporto, come pubblico, nei confronti degli eventi criminosi, il nostro ruolo di spettatori morbosamente interessati all’esposizione in pubblico del “mostro” di turno.

Poi abbiamo la foto di Enzo Tortora in manette e scortato da due carabinieri, pubblicata nel 1983: la publicazione di questa foto provocò una riprovazione generale nell’opinione pubblica, data la notorietà del personaggio e la palese infondatezza delle accuse a suo carico, ma fu in concreto priva di conseguenze pratiche o legali.

Interessante è poi una immagine che è la locandina di un film di Marco Bellocchio, del 1972, con l’attore Gian Maria Volonté: “Sbatti il mostro in prima pagina”, una storia che con molti anni di anticipo affronta i temi di cui stiamo parlando: la criminalizzazione, in questo caso dolosamente programmata, a mezzo stampa di persone incolpevoli, almeno fino a prova contraria.

Altra foto significativa per aiutarci a capire il ruolo della fotografia nel campo della cronaca giudiziaria è la foto segnaletica di Patricia Hearst, che nel ‘75 viene catturata con l’accusa di terrorismo. Il settimanale Time, a partire dalla foto segnaletica fornita dalla polizia, ne ha alterato i tratti somatici sfigurando Patricia Hearst e rendendo la sua espressione più torva e sinistra, più colpevole insomma, di quanto già non fosse, nonostante in quell’epoca non fosse ancora stata sottoposta ad alcun processo.

Sulla stessa falsariga, un’altra foto segnaletica più recente ì, apparsa nel 1994, quella di O. J. Simpson, una star americana dello sport, accusato di uxoricidio. La copertina fatta da Newsweek sostanzialmente riprende la foto segnaletica della polizia di Los Angeles, mentre invece per la sua copertina Time affida la stessa immagine ad un illustratore, un “virtuoso” del ritocco fotografico digitale con Photoshop, in modo che la renda più scura, più fosca e lugubre, e l’immagine viene chiosata con il titolo “Una tragedia americana”. Il Direttore di Time, in questa occasione, a causa delle migliaia di lettere di protesta arrivate in redazione, è stato costretto a pubblicare la settimana successiva un editoriale in cui si scusava con i lettori per ciò che definiva una mal compresa interpretazione artistica, e cercava di dare qualche debole giustificazione al perché queste foto sono state ritoccate. Rimane il fatto che il pubblico ha nettamente percepito questo ritratto come una gratuita e ingiustificata colpevolizzazione del “mostro” Simpson.

C’è poi una foto, tratta da un quotidiano italiano, nella quale vediamo una donna arrestata e in manette, accusata di partecipazione ad una rapina che ha portato alla morte di un paio di persone, il cui volto viene sollevato con la forza da un carabiniere, per darlo in pasto ai rappresentanti dei media in agguato: giornalisti, fotoreporter e video operatori. La donna, in seguito alla pubblicazione dell’immagine infamante, aveva sporto denuncia nei confronti del carabiniere responsabile di ciò che i suoi legali avevano definito “violenza privata”. Una successiva sentenza ha tuttavia scagionato il carabiniere responsabile del gesto in quanto, a parere del tribunale giudicante, il fatto descritto non configura  un reato.

Quando facevo riferimento ai vari punti di debolezza nell’applicabilità pratica di un codice deontologico, mi riferivo anche a questo tipo di degenerazioni, basate su un colossale equivoco da parte di alcuni membri delle Forze dell’Ordine in merito al loro ruolo, che si accompagna alla mancata conoscenza, a volte, dei diritti elementari di ogni individuo. In questa scarsa sensibilità da parte di alcune componenti delle Forze dell’Ordine si annida il pericolo della possibile ripetizione di atti e comportamenti di “inciviltà giuridica” fondati su un rapporto viziato con le peggiori componenti del giornalismo popolare che affollano le testate giornalistiche.

In una fotografia pubblicata nel 2001 da Famiglia Cristiana abbiamo un’aberrante interpretazione della norma che vieta di pubblicare immagini di persone in manette (Art. 8  del Codice Deontologico dei Giornalisti relativo alla Privacy - Tutela della dignità della persona). Nella foto, in cui i volti di due immigrati arrestati sono perfettamente riconoscibili, le “pecette” bianche sono state apposte sulle mani e sulle manette, anziché sui volti, in totale spregio del senso profondo e della ratio della legge. Un simile comportamento, che si commenta da sé, è inaccettabile e dimostra un totale spregio da parte dei giornalisti che ne sono responsabili non solo verso il codice deontologico, ma soprattutto nei confronti delle persone arrestate. Analogo discorso vale per la foto pubblicata dal quotidiano Il Giorno, in cui il titolo “Bestie di Satana” aggiunge una nota di ferinità e di ferocia sanguinaria al ritratto, con le manette ben visibili in primissimo piano.

Nell’immagine di Annamaria Franzoni, si vedono microfoni e giornalisti, e si immaginano fotografi e video operatori, pronti a carpire ogni nuova esternazione, ogni espressione del suo volto, accusata di omicidio. Voglio qui mettere in risalto il perverso meccanismo di spettacolarizzazione che i media sono in grado di innescare e di nutrire con la loro stessa presenza, meccanismo in grado di trasformare persone accusate di delitti infami in autentiche star di quell’intrattenimento morboso con forte componente voyeuristica, che da sempre ruota intorno alla cronaca nera.

Infine, sempre restando nell’ambito della rappresentazione fotografica di quel mondo composito e variegato che ruota intorno alle vicende della cronaca giudiziaria, sarebbe auspicabile invece una maggiore attenzione da parte dei media nei confronti di quella complessa e contraddittoria realtà costituita dall’“anomala normalità” dell’universo carcerario. Di questo mondo i media si limitano a parlare soltanto in occasione delle emergenze, dei fatti violenti, delle urgenze. Sarebbe invece assai più utile, per permettere al pubblico di avere un quadro più completo e fedele, che giornali e TV si occupassero anche della quotidianità della vita carceraria.

In tale direzione devono lavorare i media, se davvero vogliono svolgere appieno il loro ruolo di “guardiani” attenti e critici dei poteri dello Stato. Dai giornali e dai giornalisti ci si aspetta maggiore disponibilità a documentare come e dove vivono i detenuti; la richiesta, da parte della stampa nei confronti delle autorità carcerarie, di maggiore apertura delle strutture detentive ai media, di maggiore snellezza nella gestione delle pratiche burocratiche necessarie per avere accesso negli istituti penitenziari da parte dei giornalisti, di minori restrizioni relative alle riprese all’interno delle carceri. Già nel 1890 un periodico americano pubblicava un reportage, forse il primo della storia, relativo alla vita quotidiana nel penitenziario di Joliet nell’Illinois. Con altre capacità descrittive e di indagine, ma con analogo desiderio di conoscere e far sapere alla pubblica opinione, dovrebbero agire i media oggi, per non farci rimpiangere la curiosità e la forza di inchiesta del giornalismo di un secolo fa.

 

 

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