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Quando i bambini entrano in carcere senza piangere Nella Casa di reclusione di Rossano Calabro, in provincia di Cosenza, è nata una sala colloqui attenta all’emotività dei bambini. Grazie al progetto Peter Pan, è stato allestito uno spazio con fioriere, panche colorate, giochi e murales. Perché gli incontri tra detenuti e familiari siano più sereni. E i più piccoli restino lontani dagli aspetti più drammatici della reclusione
di Marino Occhipinti
La legge penitenziaria considera importanti i rapporti tra i detenuti e i loro familiari: rappresentano un elemento essenziale del trattamento rieducativo. E il principale - quando non unico - veicolo di contatto tra chi sta in carcere e i suoi cari è il colloquio. L’unico momento in cui i reclusi possono incontrare i parenti, le mogli e i figli spesso bambini, visto che l’età media dei detenuti in Italia non supera i cinquanta anni. E spesso il momento del colloquio è vissuto con sacralità: è l’evento più atteso, insostituibile. L’ossigeno vitale per risolvere qualsiasi problematica legata allo stato di detenzione. Ma per chi sta fuori, il carcere dà un impatto forte e sconvolgente. Rumori metallici, cancelli che si chiudono dietro le spalle, divieti, prescrizioni, controlli, divise. Veri e propri traumi per i bambini: la visita al genitore può trasformarsi in un incubo, per lui, con il rischio di segnare negativamente la sua crescita. Anche fisicamente gli incontri avvengono in spazi solitamente freddi e anonimi, dove il calore di un sorriso paterno non riesce a trasmettere che gelida malinconia. Affinché l’approccio con il pianeta carcere sia un po’ diverso, è quindi importante creare ambienti accoglienti dove i bambini possano non solo colloquiare con i genitori, ma anche ricreare in qualche modo delle situazioni di vita quotidiana. Disporre sale d’attesa armoniche e attrezzate secondo i gusti dei bambini, offrire loro un intrattenimento con esperti animatori per ridurre il disagio dell’attesa. Tutto questo è stato realizzato nel carcere di Rossano Calabro con il progetto Peter Pan, inaugurato nell’ottobre scorso dal sottosegretario alla Giustizia Jole Santelli. L’investimento è stato di 6.800 euro, in una struttura che fino a pochi anni fa ospitava novanta persone in media, e oggi ne conta invece 250, mentre il personale di Polizia penitenziaria è rimasto quasi invariato. Una situazione non facile, nella quale un’attenzione in più alla sfera affettiva dei detenuti può forse smorzare tante tensioni. Abbiamo inviato le nostre domande alla direttrice della Casa di reclusione, Angela Paravati, che velocemente ci ha risposto.
Dottoressa Paravati, in che cosa consiste esattamente il progetto Peter Pan? Il suo scopo è ridurre al minimo il devastante impatto che i bambini sono costretti a subire al momento dell’incontro con il genitore detenuto. L’ingresso in carcere per un bambino e la permanenza nella struttura, sia pure limitata al tempo del colloquio, hanno sicuramente un effetto di rifiuto che rimarrà nell’animo del minore con conseguenze psichiche negative. Da questa e da altre convinzioni nasce il progetto Peter Pan finalizzato, se non proprio a eliminare, quanto meno ad attenuare gli effetti devastanti del luogo di pena sui più piccoli. Ecco allora la scelta di creare degli ambienti adeguati, dove poter effettuare il colloquio, in un clima e soprattutto in un contesto diverso; in un ambito il più possibile simile a quello di una scuola dell’infanzia.
Chi ha voluto la realizzazione dell’area? Da quando ho iniziato a svolgere questo lavoro, e ogni volta che varcavo il cancello d’ingresso dell’istituto, c’era un’immagine che mi angosciava: quella dei bambini in attesa dell’incontro con il proprio genitore, dietro le inferriate. Ritengo che le colpe dei padri non debbano ricadere sui figli, o almeno bisognerebbe, nei limiti del possibile, evitare che il prezzo per gli errori commessi non venga corrisposto dai minori. Ho quindi sempre sognato di fare qualcosa per loro, convinta che sia doveroso adoperarsi per non aggravare le sofferenze che, già di per sé, l’assenza del genitore procura al bambino.
Come è strutturata la zona destinata ai colloqui e come sono gli arredi? Gli ambienti destinati all’attesa e allo svolgimento degli incontri sono stati ricavati nella zona dell’istituto riservata ai colloqui. Abbiamo apportato modifiche strutturali che hanno consentito di allestire i locali, in seguito dotati di un idoneo arredo, ispirato alle scuole dell’infanzia, con l’attrezzatura necessaria a stimolare la fantasia e la creatività dei bambini. Inoltre alcuni detenuti hanno riprodotto in scala i personaggi di Walt Disney, trasformando gli ambienti in un grande e interminabile fumetto.
Sono previste attività di svago per i bambini, affinché il colloquio con i genitori sia anche un momento piacevole e di allegria? C’è una ludoteca gestita da operatori esterni esperti in attività di animazione, che provvedono a far trascorrere in spensieratezza ai bambini il tempo dell’inevitabile attesa prima dell’incontro con il genitore. Il servizio di intrattenimento è stato già attivato, anche se in via sperimentale, al fine di individuare possibili margini di miglioramento che saranno successivamente apportati.
Chi partecipa alla gestione del progetto e con quali compiti? Al progetto Peter Pan collaborano l’associazione “Dove volano i delfini”, che ha fornito una parte dell’attrezzatura collocata nei locali, e l’Opera Sacro Cuore, che assicura la disponibilità del personale esterno che si occupa dell’attività di animazione.
C’è qualche esperienza positiva del carcere che le è rimasta impressa più di altre? Di esperienze positive che mi ripagano ampiamente per l’impegno ce ne sono diverse. Ma forse la più significativa riguarda un detenuto, in carcere da molto tempo, che mi ha ringraziata per avergli concesso di trascorrere qualche ora con i propri figli all’aperto, in un’area verde attrezzata dove per la prima volta, durante tutta la sua detenzione, ha avuto la possibilità di calarsi in una dimensione normale, fuori dal reale contesto di grate e luoghi freddi, sottolineando l’importanza e le sensazioni che ha provato nello stringere a sé i propri figli e sentirne il calore.
Ci racconti qualcosa anche di lei. Cosa vuol dire per una donna dirigere un istituto penitenziario? Significa consapevolezza delle responsabilità connesse alla professione e di svolgere una funzione delicata e impegnativa. Ritengo che in fondo il direttore di un istituto penitenziario svolge un ruolo come tanti altri che vengono onorati egregiamente dalle donne. Al di là del genere, lavori come questi devono sicuramente essere accompagnati da autorevolezza, competenza e professionalità: fattori che possono contribuire a eliminare gli eventuali pregiudizi.
Quali attività trattamentali - formative, ricreative, culturali e lavorative - offre ai detenuti la Casa di reclusione di Rossano Calabro? Anche se le attività trattamentali sono molteplici ma sicuramente insufficienti, è stato privilegiato l’aspetto culturale nella convinzione che proprio la cultura possa fornire gli strumenti per combattere l’illegalità. Tra le tante iniziative e attività culturali realizzate o in fase di attuazione, ricordo il corso di giornalismo, la costituzione di una redazione giornalistica della Caritas gestita dai detenuti, un corso di lettura che ha riscosso un notevole successo. Attualmente abbiamo anche un cineforum.
Per quanto riguarda il territorio e la società esterna, quali possibilità di reinserimento ci sono per le persone che escono dal vostro carcere? Credo che la giusta collocazione del carcere nel territorio, quale parte attiva e integrante, possa contribuire a favorire l’inserimento lavorativo e creare opportunità occupazionali una volta che dimette i detenuti. Noi lavoriamo quotidianamente per creare una rete e abbattere i pregiudizi. Ciò però richiede che il carcere non sia solo custodia, altrimenti non ci potrà essere alcun futuro.
Su cosa bisognerebbe puntare, secondo lei, per abbassare la recidiva, che purtroppo si attesta ancora su percentuali molto alte? Offrire un’alternativa valida e concreta a un percorso di vita deviato. Spesso il crimine è una necessità e questo è inaccettabile per una società evoluta. Comunque, e questo è un messaggio rivolto ai detenuti ma non solo, bisogna pensare positivo, sempre e comunque perché a volte ciò che sembra impossibile è realizzabile. Basta volerlo.
A Trieste, per distrarre i più piccoli, c’è anche un acquario con i pesciolini
comunicazione di Enrico Sbriglia Direttore della Casa circondariale di Trieste
Spett.le Redazione, non so se possa meritare un qualche interesse giornalistico, comunque Vi informo ugualmente. Già da qualche tempo, convenendo al riguardo i funzionari dell’area pedagogica, il Comandante di Reparto e trovando la necessaria collaborazione degli altri operatori penitenziari, abbiamo realizzato in questo istituto una sala d’attesa per i visitatori e familiari dove è stato collocato uno schermo televisivo a cristalli liquidi che proietta film, DVD, di cartoni animati per i bambini in visita ai propri congiunti ristretti. Nella stessa sala, in un angolo, è stato posto un acquario che, come per la visione dei cartoni animati, incuriosisce i giovanissimi ospiti e rende meno snervante e pesante l’attesa per essere ammessi ai colloqui. La sala colloqui inoltre, come da disposizioni in materia, è attrezzata con tavolini realizzati con particolare cura, che consentono una privacy apprezzata dai fruitori. È evidente che la sala in questione, come la generalità dei locali ove acceda il pubblico che incontra la popolazione detenuta, è dotata di sistemi di video-controllo. L’idea di dotare la sala d’attesa di un acquario e di uno schermo televisivo, per quanto non certamente originale, l’avevo proposta tempo addietro in quanto ritengo (ma ripeto, dico cose ovvie…) che si debbano distinguere le cautele che destiniamo alle persone detenute, nonché le loro responsabilità, da un più speciale approccio e atteggiamento doveroso di attenzione e sensibilità che vanno sicuramente garantiti a quanti, familiari, non sono colpevoli di alcunché e non sono accusati d’esserlo, in specie verso i bambini, rei di essere comparse di un film non loro. Tutto questo, infine, non solo per una “sensibilità” istituzionale di cui pure dobbiamo, come operatori penitenziari, farci carico, ma anche perché - altrimenti - c’è il ragionevole rischio che fin da bambini, da minori, quanti, visitando le persone detenute, abbiano un approccio con l’istituzione carceraria e con le forze dell’ordine rappresentate dalla polizia penitenziaria in quel contesto, ne percepiscano esclusivamente gli aspetti autoritativi e coercitivi, e non invece il senso di umanità e di attenzione, seppure all’interno di una cornice di doveri e di coerenza e rispetto delle disposizioni in materia, verso una umanità prigioniera e, ancor di più, verso quanti - familiari - subiscano anch’essi i riflessi negativi della commissione, o presunta commissione di reati. Insomma, la mia, nostra, speranza è che il bambino, allorquando diverrà adulto, della triste esperienza del suo approccio con il carcere, possa serbare un ricordo non soltanto doloroso, ma anche di fiducia verso quanti indossino l’uniforme e nei confronti dell’amministrazione penitenziaria.
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