Dentro e Fuori

Quando carcere e scuola convivono felicemente

A Padova, un seminario che ha prodotto un accordo programmatico sulla formazione congiunta del personale, l’impegno per un protocollo d’intesa “Scuola/Carcere” in tempi brevi, un vademecum sulla scuola in carcere

 

di Rossella Favero

 

Il 23 maggio si è svolto a Padova, nella sala Rossini dello storico Caffè Pedrocchi, un seminario regionale dal titolo “Carcere/Scuola. Per una formazione integrata”. L’istituzione scuola e l’istituzione carcere hanno collaborato all’organizzazione di una giornata importante per la vita della scuola negli istituti penitenziari del Veneto. Ce ne parla Paolo Damberger, del Centro Servizi Amministrativi di Padova, coordinatore del seminario per l’Ufficio Scolastico Regionale del Veneto, rispondendo alle nostre domande.

 

Innanzitutto la partecipazione: a chi era rivolto il seminario?

Al personale delle due amministrazioni che in carcere operano nell’ambito della scuola, quindi insegnanti, agenti, educatori. Il Provveditorato Amministrazione Penitenziaria del Triveneto, nella persona del dottor Felice Bocchino, ha risposto con prontezza alle proposte del nostro Ufficio Scolastico Regionale. Quindi la presenza è stata importante: c’erano tutti i direttori degli istituti penitenziari veneti e molte rappresentanze di agenti, ispettori, educatori.

 

Quali erano gli obiettivi e quali sono i risultati?

Direi che i risultati sono molto significativi, e concreti, e forse la nostra sta diventando un’esperienza pilota in Italia: un accordo programmatico sulla formazione congiunta del personale, l’impegno per un protocollo d’intesa ‘Scuola/Carcere’ in tempi brevi, un vademecum sulla scuola in carcere a cui, in modo del tutto spontaneo, Edoardo Albinati ha fatto il migliore degli spot . Inoltre una prima sistematizzazione dei dati statistici relativi alla scuola nelle carceri del Veneto: si pensi che gli studenti tra scuola media, alfabetizzazione e scuola superiore sono circa 780, senza contare i corsi EDA (educazione degli adulti) che vedono un numero circa uguale di partecipanti. Ogni giorno un ‘drappello’ di oltre settanta nostri insegnanti entra nelle aule dentro gli istituti penitenziari.

 

Quali sono i contenuti dell’accordo programmatico?

È centrale la formazione congiunta (insegnanti, agenti, educatori…), che significa imparare a usare linguaggi comuni nella diversità dei ruoli, imparare a conoscersi, migliorare la qualità dell’intervento della scuola istituzionale nelle carceri. Inoltre nell’accordo si anticipano alcuni dei temi che saranno centrali nel futuro protocollo: si parla di potenziamento della scuola in carcere, in particolare di una maggiore presenza della scuola superiore, che ha il suo cardine nella Casa di reclusione di Padova, ma può avere significative articolazioni nelle diverse province.

 

Perché un vademecum?

Il vademecum è a doppia lettura: da una parte le informazioni utili per gli insegnanti che entrano a lavorare in carcere: la struttura, le regole, i tempi… Dall’altra notizie per gli operatori penitenziari su cos’è la scuola in carcere, la struttura, le finalità, le modalità. E soprattutto, da entrambe le parti, un utile glossario con le parole chiave dei due mondi: ‘trattamento’, ‘articolo 17’, ‘ufficio di sorveglianza’… ma anche ‘pof (Piano dell’Offerta Formativa)’, ‘insegnamento modulare, ‘CTP’…

 

Come sono stati il clima, la partecipazione?

Io ho avuto una buona impressione: un’atmosfera serena, partecipata. E credo che ciò sia dovuto al metodo. Il seminario non è calato dall’alto. È una tappa di un lavoro iniziato con un corso regionale organizzato da noi alla fine del 2003. In quell’occasione i lavori si chiusero con una mozione dei partecipanti che chiedeva interventi concreti che garantissero la qualità della scuola in carcere. Da allora c’è stato un intenso lavoro di elaborazione, che ha coinvolto la base. Accordo programmatico, protocollo e vademecum sono una risposta a quella mozione. Anche nel metodo. Al vademecum ad esempio, si è giunti attraverso schede di rilevazione dei bisogni in tutti gli istituti penitenziari. Il testo poi, una volta elaborato da un gruppo di lavoro, è tornato più volte alla “base” per correzioni e suggerimenti.

 

E… i detenuti?

Al centro delle nostre elaborazioni, naturalmente. E anche… delle nostre attenzioni. Com’è nostra abitudine, abbiamo affidato la realizzazione (grafica etc.) dei materiali per il seminario e del vademecum a una cooperativa sociale, quindi abbiamo approfittato di questa occasione per dare lavoro ai detenuti.

 

Altre iniziative all’orizzonte?

Sì, certo. Siamo molto pragmatici. Prossimi obiettivi? Il protocollo, ovviamente, che permetterà una strutturazione più adeguata dei corsi scolastici. E poi… un libro con le esperienze più significative di scuola in carcere nella nostra regione, con il contributo della Regione Veneto; poi un centro di documentazione a cui stiamo lavorando per raccogliere i materiali elaborati dai diversi corsi.

 

 

La scuola in carcere è un grande laboratorio della scuola in generale

Edoardo Albinati, scrittore e insegnante in carcere, racconta di quell’empatia che dovrebbe esserci tra insegnanti e studenti, ma anche della giusta distanza che andrebbe salvaguardata sempre, sia nella scuola “fuori” che in quella dentro

 

Edoardo Albinati è scrittore, ma è anche da anni insegnante a Rebibbia, e dell’insegnamento in carcere dice che è un’esperienza interessante “in particolare per me, che sono un figlio di papà, cresciuto nella bambagia”. A partire da questa esperienza Albinati ha offerto, agli insegnanti e agli operatori riuniti in occasione del seminario regionale “Carcere/Scuola. Per una formazione integrata”, molti spunti di discussione, di confronto, e anche di polemica.

 

L’impatto di un insegnante con il carcere, la constatazione di quanto la scuola ed il carcere si assomiglino

 

Quello che accade quando un professore si trova ad essere trasferito da una scuola normale ad una scuola in carcere, l’ho anche raccontato in un mio libro: può addirittura succedere che un’insegnante (nel caso a cui io ho assistito era un’insegnante di matematica), si trovi sbattuta là nel suo primo giorno di scuola in assoluto, non essendo mai entrata in una classe in vita sua. In questi casi si è già abbastanza emozionati, perché comunque la pressione di una platea, di una comunità di studenti su un docente giovane e inesperto è sempre molto forte, figuriamoci quando questo avviene in un carcere.

Sarebbe poi interessante analizzare quanto la scuola ed il carcere si assomiglino, quanto abbiano in comune. Lo possiamo verificare tutti quanti, semplicemente ricordando la scuola del nostro passato, l’esperienza dell’essere coatti, quando in pratica, sia pure per un periodo determinato della giornata, noi dovevamo stare chiusi dentro in questo posto affidati ad un insegnante. In un certo senso anche gli insegnanti sono dei custodi, quindi questo, in qualche misura, dovrebbe avvicinare i ruoli dell’insegnante e quello dell’agente di una struttura penitenziaria.

Per esplicitare lo spirito, il senso, il sentimento e anche la preoccupazione di un professore che comincia a lavorare in carcere, io devo riportarmi a quello che per tutti è stato il mitico esordio del primo giorno e devo dire che l’essere brutalmente proiettato dentro una realtà, che in un giorno mi sono trovato ad affrontare senza alcuna preparazione, ha reso per me questa esperienza veramente scioccante. Ognuno di noi potrebbe fare una lista di tutti gli equivoci in cui è incorso e per quanto tempo gli equivoci sono durati rispetto a quello che uno doveva fare, poteva fare, e sopratutto non poteva o non doveva. Quindi ognuno di noi ha vissuto queste situazioni di errori, di abbagli, che comunque si continuano a commettere. Anche professori esperti, e io mi metto tra quelli, che insegnano lì da dieci o vent’anni, ancora prendono, soprattutto nei rapporti interpersonali, degli abbagli notevoli nel dare la propria fiducia a delle situazioni, a delle persone che forse richiederebbero maggiore cautela. Spesso succede che i codici, le modalità di rapporto, le regole non scritte, che però sono basate su uno spirito di tolleranza reciproca e di buonsenso, uno le impara strada facendo, e a volte dai detenuti stessi (paradossale che uno debba imparare da coloro ai quali dovrebbe insegnare o che dovrebbe custodire).

 

Un vademecum su come equilibrare il rapporto tra scuola e carcere

 

Venendo qui ho visto che tra le iniziative più interessanti c’era questo vademecum su scuola e carcere. Penso che sia proprio quello che ci mancava, appunto, proprio quello che si potrebbe dare al famoso professore una settimana prima dell’inizio della scuola in carcere, e certe cose le capirebbe prima, anche se, naturalmente, resta fondamentale l’esperienza personale e diretta, perché le parole scritte sono sempre un’altra cosa rispetto agli eventi reali.

In questo vademecum mi ha colpito quello che viene detto all’inizio che è molto secco, ma anche eloquente e vale un po’ per tutti, non solo per gli insegnanti. “Il carcere per definizione è il luogo della separazione. L’insegnante per il solo fatto di entrarci ed uscirne quotidianamente, può essere visto in modo ambivalente: dalla struttura carceraria, come possibile minaccia alla sua impermeabilità, dai detenuti come occasione da sfruttare per ottenere qualcosa, qualsiasi cosa”. Questo è assolutamente vero, la singolarità della figura dell’insegnante è quella di essere un messaggero, cioè qualcuno che porta il fuori dentro e poi porta il dentro fuori. Il fatto di rendere il carcere così poroso, così permeabile, lo fa diventare una figura anche molto proficua, in fondo la ragione per cui gli studenti si iscrivono e vogliono venire a scuola, anche se non hanno una particolarissima aspirazione allo studio, è proprio per aver a che fare con delle persone che non sono interne alle istituzioni carcerarie, che non sono, insomma, né altri detenuti o agenti o avvocati, cioè figure inerenti sempre e comunque alle ragioni per cui ci si trova in prigione.

Il fatto di essere delle staffette tra l’interno e l’esterno, da una parte rende gli insegnanti individui interessanti, da un’altra li rende individui potenzialmente pericolosi, potenzialmente portatori di cose che il carcere non riesce e non può controllare. Ciò riguarda ad esempio il contenuto degli insegnamenti (ma questo peraltro succede anche nella scuola normale, i genitori non sapranno mai veramente fino in fondo cosa accade in quelle aule, per quanto il proprio figliolo possa parlarne a casa), che resta, in un modo o nell’altro, incontrollato.

È vero perciò che la scuola in carcere comporta problemi di sicurezza, ma io non ridurrei tutto soltanto ai problemi della sicurezza. Ho constatato molte volte come da parte di alcuni agenti ci fosse una specie di frustrato interesse nei confronti di ciò che avveniva nella scuola, soprattutto in agenti che erano più o meno coetanei dei detenuti, come dire “...certo, forse interesserebbe anche a me, partecipare a quello che fate, e in qualche modo me ne sento escluso”. Credo che da parte degli agenti ci sia talvolta dell’invidia, nel senso più pieno e umano della parola, soprattutto quando vedono crearsi un rapporto amichevole, tra insegnanti e detenuti. Questo lo so perché certe volte ho avuto degli agenti che venivano da me a lamentarsi e in pratica volevano dire: “Ma tu, perché sei diventato amico loro e non amico nostro?”. Oppure: “Sembri più interessato a loro: ma guarda che anche io ho dei problemi”.

 

Scuola in carcere: un clima di empatia, ma anche una giusta distanza

 

A volte poi i detenuti diventano i confidenti di tanti guai e problemi degli insegnanti. Mi è successo che alcuni studenti, sia pure in modo scherzoso, abbiano protestato perché alcuni insegnanti entrano in classe e attaccano a raccontare di tutte le loro insoddisfazioni e frustrazioni. Proprio a proposito dei rapporti con i detenuti, un’altra cosa di questo manualetto che mi ha colpito per la sua sensatezza, è questa e ve la voglio leggere: “Insegnare in carcere è quasi una sfida, riuscire ad instaurare con i corsisti un clima di empatia, se il traguardo giustifica la trasmissione dei contenuti didattici, e nel contempo mantenere un atteggiamento di giusta distanza”.

Ancora una volta la scuola del carcere si rivela un perfetto laboratorio della scuola in generale: anche nella scuola esterna, infatti, tra gli insegnanti e gli studenti dovrebbe esserci dell’empatia, cioè un accordarsi sulla stessa lunghezza d’onda, altrimenti non ci si capisce affatto, ma al tempo stesso occorrerebbe salvaguardare una distanza. Ecco, io posso dirlo di me stesso come autocritica e posso dirlo dei miei colleghi, ho visto spesso questa distanza cadere, annullarsi e portare inconvenienti enormi, anche soltanto inconvenienti di carattere prettamente scolastico, non sto parlando di inconvenienti rischiosi dal punto di vista legale. Sto parlando infatti del modo di far scuola, semplicemente: quando viene meno la distanza, l’insegnante perde il suo ruolo, diventa, diciamo, un assistente sociale, o una mamma oppure Dio, o un fratello, ed è lì che la scuola crolla, finisce, basta, si chiude. E quando questo accade, i primi ad accorgersene sono gli agenti.

Loro lo capiscono, lo sanno, e ho visto molte volte dello scetticismo nello sguardo con cui guardano certi professori: “Va bene, tanto io lo so che in realtà non vieni per fare l’insegnante ma per altre missioni”, missioni che non è che siano ignobili in sé. Aiutare, essere vicini, consolare gli afflitti, come dice la religione cristiana, è assolutamente una nobile funzione, ma non è quella che per cui si viene pagati, non è quella per cui si è lì. In questo manuale viene detto come bisogna fare, in parole molto semplici che vorrei riportare: “In genere agli insegnanti si rivolgono richieste perlopiù minime, banali, all’apparenza innocenti (cartoline, biglietti d’auguri, francobolli) che però innescano un processo difficile da governare”.

 

Alle richieste dei detenuti gli insegnanti non dovrebbero mai rispondere individualmente

 

È esattamente così, si comincia con i francobolli, si può cominciare con le cartoline e poi si innesca un meccanismo che non è più tanto facile saper controllare, per cui si dà un utile suggerimento: “...a volta bisogna rispondere “vediamo se è possibile” dando in tal modo la percezione che la risposta non è personale e che gli insegnanti si confrontano continuamente tra di loro e con i responsabili della sicurezza”.

Ecco, questa del non rispondere individualmente mi sembra una grande verità, anche perché alcuni detenuti sono in qualche misura abituati ad esercitare una pressione diretta sugli individui più facilmente influenzabili. Su questo io credo che ci sia un enorme equivoco, quello per cui si pensa che i detenuti siano dei soggetti deboli: in molti casi non lo sono affatto, è debole oggettivamente la posizione in cui si trovano, cioè la detenzione, ma ci sono detenuti che possiedono una personalità, un carisma, una forza morale e fisica e talvolta una bellezza interiore o esteriore che può sicuramente influenzare chiunque, persino soggiogarlo. Come categoria sono più forti degli insegnanti; l’idea dell’insegnante che debba soccorrere il detenuto è totalmente fasulla, e invece vengono equiparati a categorie come vecchiette, orfani, cioè persone da proteggere, quando può essere vero esattamente il contrario. E allora la risposta non deve essere individuale, non sono io che sto dicendo di sì o di no, siamo noi, cioè, noi insegnanti; non sono io a promuoverti o a bocciarti, ma siamo noi, questo è un modo anche per non sentirci soli, noi con le nostre decisioni, quando ci si avventura da soli è sempre rischioso.

 

La scuola, la ricerca di una “compatibilità” con gli agenti, gli spazi da conquistare con una presenza non burocratica

 

Io ho insegnato per undici anni a Rebibbia, ho avuto relazioni con moltissimi agenti della Polizia Penitenziaria e spesso ho raggiunto un livello di intesa “logistica” buono con una controparte con cui bisognava trattare, ma sapendo che poi alla fine l’obiettivo era, in qualche misura, comune, cioè dovevamo essere compatibili. La scuola in carcere crea problemi innanzitutto di compatibilità, compatibilità di spazi, di orari, di modalità che bisogna condividere, usando una notevole dose di buonsenso che, devo dire, trovo molto spesso carente in entrambe le categorie, anzi questo buon senso, direi senza offendere la corporazione a cui appartengo, manca proprio soprattutto agli insegnanti, e questo succede talvolta perché uno capita lì e non sa bene con quali condizioni e restrizioni deve confrontarsi.

È molto importante, e questo lo ribadisco continuamente, che la scuola poi questi spazi all’interno del carcere se li debba conquistare, esercitando una continua pressione sul direttore, sul comandante, sui dirigenti per far sentire che c’è una specie di confine, di barriera, di trincea che comunque bisogna difendere coi denti. Io ho cominciato a lavorarci appunto dal 1994, in un periodo in cui la scuola nel carcere di Rebibbia a Roma si stava espandendo e posso ben dire che, con il preside di allora, noi le classi ce le siamo conquistate veramente con la baionetta: abbiamo aperto al carcere femminile sezioni dell’Istituto Tecnico Superiore, quando non esisteva la scuola superiore nel carcere femminile, abbiamo aperto classi ai protetti, e anche nella sezione di massima sicurezza. E c’era proprio la sensazione di dover conquistare degli spazi, quindi questo rapporto è sempre anche, inutile nasconderselo, in parte conflittuale, è una “collaborazione conflittuale”.

Ci sono dei poteri, delle forze in gioco e la scuola deve essere forte, far vedere innanzitutto che non è soltanto una presenza burocratica, mentre talvolta purtroppo gli stessi insegnanti tendono ad accreditare questa immagine. La scuola in carcere può essere, contrariamente a quanto si pensa dal di fuori, un luogo protetto, un luogo dove si lavora certo in condizioni svantaggiate, ma anche, per certi altri versi, privilegiate. E talvolta è successo, mi vergogno ma non lo nascondo, che in alcune situazioni certi insegnanti si limitavano ad andare lì, firmare ed andarsene. Purtroppo il carcere oscilla tra questi due poli: quello di una dedizione, di un idealismo, di un sacrificio di sé, di una generosità del proprio tempo, da una parte, e poi dall’altra quello in cui uno si adegua ad un tran tran per cui c’è una specie di accordo sottaciuto tra le parti per fare il meno possibile e si fa il meno possibile per non disturbarsi a vicenda, anche se è chiaro che questo succede in qualsiasi realtà italiana, è inutile farne un caso specifico.

Basti un esempio: a Roma abbiamo il problema, trattandosi di un carcere grande, dei tempi che ci vogliono perchè gli agenti accompagnino i nostri studenti dai reparti alla scuola; questi tempi possono allungarsi, possono diventare infiniti. Gli studenti che dovrebbero arrivare alle nove meno un quarto possono arrivare alle nove o alle nove e un quarto, anche nove e mezza, e ci si può adeguare facilmente a questo ritmo, diciamo così, lassista. Cominciano la scuola sempre più tardi, lavorano meno. Per una orribile conciliazione tra le parti, se si è tutti d’accordo, questo potrebbe essere un esempio di perfetta collaborazione tra sfaticati, e allora non è questo naturalmente ciò che penso si debba auspicare.

 

Anche in carcere ci si dovrebbe ricordare della regola del “non alimentare inutili aspettative”

 

In carcere ho visto anche accadere fenomeni, non dico di plagio, ma quasi, per esempio di insegnanti che si prendevano a cuore il caso di un singolo detenuto, a scapito di tutti gli altri; come succede nelle scuole normali dove c’è il “cocco”. Quando questo accadeva, portava uno squilibrio nella classe molto pericoloso. E in proposito un’altra cosa che viene detta in questo vademecum è che la risposta collettiva e non individuale “ha il vantaggio di non alimentare inutili aspettative dei detenuti e soprattutto di dissipare ambiguità che mal si conciliano col proprio ruolo”. Io ho lavorato nelle associazioni umanitarie, sono stato in una missione in Afghanistan per le Nazioni Unite, e la prima regola che ci veniva trasmessa era: “Non alimentare inutili aspettative”. Questo è il peggiore errore nei confronti di chiunque possa credere che il tuo intervento sarà risolutore per lui, cioè, tu devi promettere soltanto quello che effettivamente potrai fare.

Quanto alle aspettative disattese, tanto per fare una breve parentesi sull’atmosfera che ho avvertito nel carcere negli ultimi cinque anni, cioè a partire dal sospirato Giubileo del 2000 quando si cominciò a creare questa aspettativa di un’amnistia che poi è stata sistematicamente disillusa, io ho visto la crisi cominciare proprio da quel momento, quando si è creato il sentimento comune che stava per succedere qualcosa che poi non è accaduto.

Io citerei quell’anno come inizio di questa crisi che l’istituzione del carcere attraversa all’interno della sua crisi storica; perché si tratta di due movimenti: uno è storico, di lungo periodo ma non eterno, perché il carcere è un’istituzione storica, è stato inventato in una certa epoca e forse in un’altra epoca finirà; all’interno di questa crisi permanente c’è poi la crisi attuale della disillusione, della perdita della speranza, quella del non ascoltare più neanche la propria speranza perché tanto non verrà mai soddisfatta. Dunque non alimentare inutili aspettative è quello che si deve fare, è la regola di base.

 

Durante la lezione può accendersi davvero una scintilla e questo è un miracolo in sé

 

C’è ancora una cosa che io penso potrebbe predisporre più favorevolmente gli agenti nei confronti del detenuto e anche gli insegnanti nei confronti del loro stesso lavoro, perché nemmeno gli insegnanti hanno capito questa cosa, tanto meno i formatori, tanto meno i pedagoghi, tanto meno il Ministero e tutti gli altri, e la cosa è questa: quando si sta facendo una lezione, quando si sta facendo la scuola, quello che conta non è solamente l’obiettivo finale, non è il titolo che uno conseguirà fra tre, cinque, dodici anni. Io so benissimo di avere studenti, fin dal primo anno, di cui soltanto una piccolissima minoranza arriverà a conseguire il diploma, eppure il nostro lavoro ha senso lo stesso, qui, adesso, stiamo lavorando per riscattare il tempo presente e non quello futuro. Io non posso garantire che alla fine di un percorso che non si sa quando arriverà, il mio studente sarà rieducato, riabilitato e pronto a rientrare in un mondo del lavoro al quale, peraltro, in molti casi, non è mai appartenuto. Lo stesso vale per la scuola normale: nell’insegnare a un ragazzo di quattordici anni, non devo ragionare solo in funzione del momento in cui ne avrà diciotto, diciannove, e riceverà il suo bravo di pezzo di carta, ma devo pensare che sto contribuendo a riscattare ora, adesso, la sua vita attuale, il tempo che passa ogni mattina con me.

L’unica cosa buona nella giornata del detenuto è che possa non essere stata del tutto sprecata. Durante la lezione può accendersi davvero una scintilla e questo è un miracolo in sé, non accade sempre, ma quando accade, sta accadendo in quel momento, non solo in vista di un obiettivo ulteriore. Questo secondo me dovrebbe convincerci del senso di quello che facciamo, prima di tutto il corpo insegnante, ma anche tutti quelli che guardano da fuori il lavoro dell’insegnante e dicono: “Hai visto, tanto sforzo, poi quello è uscito, oppure l’hanno trasferito, dunque che cosa ha combinato fino adesso? Niente, ha fatto magari sei mesi di scuola quindi non ha quagliato nulla”. Invece il semplice fatto che quei sei mesi li ha trascorsi leggendo, ascoltando, studiando, dobbiamo pensare che lo valorizzi come persona. Un equivoco della scuola contemporanea è pensare la scuola come raggiungimento di obiettivi che sono spendibili nel domani. Invece, se si capisce che quello che avviene nelle classi può avere un senso nel momento in cui accade, allora tutto quello che si fa a scuola può ricevere un maggiore rispetto, non soltanto da parte di chi è esterno alla scuola, ma anche da parte nostra che ci stiamo dentro. Vedo invece che molte volte gli insegnanti si rassegnano all’idea di fornire delle cose, in modo automatico e impersonale, come durante la distribuzione di aiuti umanitari si danno stancamente dei sacchi di grano pensando ad altro.

Credo che chi insegna dovrebbe aver capito che insegnare in carcere significa innanzitutto riscattare il tempo del carcere, esattamente come in una scuola normale occorre rendere utili e interessanti, e non una tortura, le proprie lezioni: se già fossimo riusciti a far passare dignitosamente e umanamente il tempo che una persona ha trascorso lì rinchiusa, buona parte del nostro lavoro sarebbe stata fatta.

 

 

Angeli dalle facce sporche

Nei luoghi del disagio, alle cucine popolari, nei centri di accoglienza, nei dormitori, l’esperienza degli “Avvocati di strada” a Padova cresce con grande rapidità. E incontra sempre più spesso utenti che sulla strada sono arrivati dritti dritti dalla galera

 

di Nicola Sansonna

 

Il carcere io l’ho vissuto a causa delle mie scelte sbagliate, e l’ho subito per oltre 26 anni, conosco fin troppo bene anche il suo odore: un misto di ruggine e sudore umano. Avvolge e impregna tutto, dagli abiti, alla pelle, al cibo, tanto che alla fine non ti accorgi più della sua presenza. Qualcosa però negli ultimi anni è cambiato, nonostante l’ormai cronico sovraffollamento che costringe in alcuni istituti a vivere ammassati come polli in una stia, senza alcuna possibilità di una pur minima privacy: c’è qualche corso professionale in più, ci sono le scuole, magari in alcune carceri non ci si può muovere più di uno per volta dalla branda, ma abbiamo il televisore a colori, ci danno da mangiare, chi è religioso può incontrare i maestri di culto.

Ultimamente mi stavo domandando se il ministro Castelli non avesse ragione: ho vissuto in alberghi a cinque stelle e non me ne sono accorto? sono sempre stato un tipo molto distratto. Quello che so per certo è che ero e sono ancora inserito in una struttura totale, in un mondo a sé, una specie di macchina creata, come sostiene con una immagine secondo me molto efficace un mio “compagno di galera”, Francesco Morelli, non per rieducare ma per “ammaestrare” le persone. Una macchina concepita per togliere dalla strada chi ha violato il patto sociale, chi ha in qualche modo tradito la fiducia pubblica, chi ha commesso un’azione riconosciuta come reato dalle leggi vigenti. La strada è il grande denominatore comune che unisce carcere, disagio sociale e società in una specie di paradosso:

la società toglie dalla strada chi delinque per rafforzare la sicurezza sociale

la società poi spesso lascia per strada persone prive di qualsiasi mezzo di sostentamento o legame sociale, che finiscono per commettere delitti, creando quindi recidiva e insicurezza sociale

Ora io lavoro per la gente della strada, sono impegnato in qualcosa di importante, stimolante, le attività degli sportelli e del segretariato di Avvocato di Strada, un progetto che si occupa della tutela legale delle persone senza fissa dimora. Le cifre che si riferiscono ai primi mesi di attività di questo progetto a Padova sono impressionanti: 30 avvocati che prestano la loro opera gratuitamente, 8 volontari, 180 contatti, 110 colloqui effettuati, 20 procedimenti assegnati. Tutto questo a partire dal 15 novembre 2004.

In questo ambito ho conosciuto persone eccezionalmente “belle”: operatori che cercano, con i mezzi che hanno, di realizzare il possibile ed oltre, avvocati disponibili e capaci, religiosi dinamici e preparati che toccano il cuore anche ad un impenitente come me, ho conosciuto la gente della strada. Ho rivisto nell’ambito del lavoro che svolgo anche molti amici conosciuti in carcere: avevano la barba lunga, erano trascurati, qualcuno era fatto come una scimmia, qualcuno di loro mi ha chiesto qualche moneta. Ho rivisto Luigino da noi chiamato er monnezza, il Cipolla perché si piangeva sempre addosso, Karim, Sergino ed altri ancora. A molti ho fissato un appuntamento, pochissimi di loro si sono presentati; spariscono per un po’ inghiottiti dalla strada, poi ritornano.

 

Ma c’è un modo per rompere quel circolo vizioso che porta dal carcere alla strada?

 

Un programma decente di inserimento sociale è il solo antidoto per chi esce dal carcere disperato e senza riferimenti, se si vuole davvero non vederlo tornar dentro in breve tempo. Ad esempio a Luigino hanno trovato un lavoro, ora ha un bellissimo vestito a scacchi, un po’ fuori moda, ma per una settimana sembrerà pulito, e lavorando può mantenersi. Ora non mi dice più “Dai dammi qualche spicciolo che mi serve”, anche se con molto garbo, non cerca più di rifilarmi per 5 euro un vecchio orologio che ha visto certamente tempi migliori, ora ha ritrovato la sua dignità umana.

Angela invece (la chiamerò così), poco più di vent’anni, bella, “un angelo con la faccia sporca”, a volte la vedi trasandata e scompigliata, altre volte decorosamente vestita e pulita, a seconda di dove trova da dormire. Una mattina l’ho vista che dormiva con la testa appoggiata ad un tavolo, i capelli lunghi e neri formavano una cornice naturale intorno al suo viso, qualcuno le aveva regalato una rosa rossa, era lì appoggiata sul tavolo quasi a proteggerla. Intorno a lei la gente della strada, in attesa fin dal mattino della distribuzione del cibo alle cucine popolari. Angela è tossicodipendente, oggi mi ha mostrato uno dei suoi rifugi: l’angolo di un portico di una piazza, dove ogni tanto, quando non la cacciano, va a dormire.

Un paio di mesi fa era sparita dalla circolazione, era stata arrestata per somma di fogli di via. Non residente, conosciuta come tossicodipendente, le viene dato spesso il foglio di via con l’ingiunzione di allontanarsi dal territorio padovano. Quando ne accumula un po’ va a farsi un mesetto alla Giudecca, il carcere femminile veneziano. Poi esce e torna per strada.

Probabilmente ora con l’aiuto di chi la segue andrà in comunità; il problema è che non ha la residenza, ma si poteva facilmente superare, bastava dargliela quando le cose erano un po’ più semplici e poi occuparsi di lei. Adesso con i fogli di via è quasi impossibile riuscire a fare qualcosa per ottenerla. Quale tutela si può dare ad una ragazza in condizioni simili? Sono molte le “Angela” in strada. Sono tanti i Sergio, i Luigino, i Karim, che cadono e a fatica cercano di rialzarsi. Qualcosa si fa, qualcosa, ma è troppo poco.

Spesso vengo pervaso da un senso di frustrazione e mi chiedo perché vengano poste tante difficoltà anche quando sarebbe più utile ed umanamente comprensibile aiutare invece di ostacolare. Certo, prendere in carico un non residente multiproblematico costa, e i tagli alla spesa sociale lasciano le casse sguarnite. E allora c’è un modo per rompere quel circolo vizioso che porta dal carcere alla strada e dalla strada al carcere? Come sostiene Alessandro Margara, uno dei padri della riforma penitenziaria, bisognerebbe smettere di cercare risposte penali e tornare alle risposte sociali. Ma se dal 1990 ad oggi si è passati da 28 mila a 59 mila detenuti, qualcosa non quadra!

Non può essere il carcere la sola risposta che la società dà, puntando prevalentemente sul penale, a chi turba la sua quiete, chi ruba, chi si droga e magari spaccia per drogarsi, senza domandarsi il perché delle cose, ma piuttosto punendo il reato, come prevede la legge. Il fatto è che di solito la legge prevede anche molte altre cose: ad esempio un sostegno quando si è in grave disagio, e sarebbe davvero tutta un’altra cosa se più soldi fossero investiti per chi è in strada, dando fondi a chi si occupa di minori abbandonati, ragazze madri, senza fissa dimora, costruendo case di ospitalità non di carcerazione. Investire invece sulla sicurezza costruendo nuove carceri è una scelta poco lungimirante e socialmente autolesionista.

Il fine ultimo della pena è sì custodire in un luogo separato dal resto della società chi ha commesso un reato, ma è anche costituzionalmente sancito il fine rieducativo della pena stessa. Lavorare per il reinserimento sociale è il solo modo per evitare o almeno limitare la commissione di nuovi reati da parte della stragrande maggioranza del “popolo delle prigioni”, quella che non ha risorse, appoggi, mezzi economici. Chi è pieno di soldi, qualche strada o legge fatta per l’occasione la trova sempre.

Se i soldi per la costruzione di nuove carceri fossero davvero destinati ad evitare l’esclusione sociale, forse quelle belle carceri con tv a colori ed acqua calda resterebbero vuote.

 

 

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