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Ristretto con i miei libri… e i miei sogni
Uno studente-detenuto racconta come si è avvicinato all’Università in carcere. E come riesce a studiare e dare esami nonostante le difficoltà burocratiche e gli impedimenti pratici che deve affrontare ogni giorno
Intervista a cura di Ilir Ceka
Ora anche il carcere di Padova ha il suo polo universitario. Ma ci sono detenuti - da noi come in altri penitenziari d’Italia - che da tempo affrontano da soli il percorso degli studi superiori. Tra mille difficoltà burocratiche e lungaggini che rischiano di scoraggiare anche le volontà più agguerrite. Abbiamo chiesto a Elton, redattore della nostra rivista, di raccontarci i particolari della sua esperienza di studente "ristretto".
Elton, come vuoi presentarti a chi non ti conosce? Ho ventisei anni, di cui sette trascorsi in carcere. Sono nato a Tirana, in Albania, e come molti miei compatrioti della mia generazione, a un certo punto della mia vita ho deciso di venire in Italia. Cercavo una cosa astratta che si chiama benessere: inseguivo un sogno che ora non ricordo più. Poi, purtroppo, il destino aveva in serbo tutt’altra cosa e forse proprio per questo, dopo poco tempo, sono finito in carcere.
Come ti sei interessato allo studio, in carcere? Da sempre lo studio è stato parte della mia vita: ero venuto in Italia subito dopo aver terminato il liceo, quindi il mio status sociale pre-carcerario era quello di studente. Riprendere in mano i libri non è stato difficile - nel primo anno di carcere avrò letto una trentina tra romanzi e libri storici. Molto più difficile è stato riprendere a studiare: come si sa, il carcere spesso offre dei corsi più di intrattenimento che costruttivi. Quando ero detenuto nel carcere di Monza, pur di non rimanere in cella, sono stato "costretto" a frequentare la scuola media delle 150 ore. Poi sono stato trasferito in quello di Voghera dove ho fatto il primo biennio di geometra. Successivamente mi hanno trasferito qui a Padova, dove ho rifatto la scuola media e poi di nuovo il primo biennio dell’Istituto tecnico commerciale. Da un lato sembrava tempo sprecato, ma alla fine anche queste frequentazioni "obbligatorie" hanno portato i loro benefici: ho migliorato il mio italiano scritto e inoltre ho ripassato la lingua inglese e quella francese che avevo già studiato in Albania.
E il desiderio di continuare fino all’università, com’è nato? È stato un vero calvario. Fin dall’inizio della mia carcerazione avevo cercato di iscrivermi all’università, ma ogni mia richiesta riceveva risposte confuse e giustificazioni improvvisate. Ricordo che, quando chiesi all’educatore del carcere di Monza di prendere contatti con qualche università, mi guardò irritato e disse, storcendo il naso: "Cos’è questa barzelletta? Farai bene a studiarti gli atti del processo che ti aspetta, ragazzo". Forse aveva ragione, visto l’esito giudiziario… Erano trascorsi tre anni dal mio arresto quando sono stato trasferito a Padova, e qui ho finalmente trovato una persona che ha preso la mia richiesta sul serio: la signora Vianello, un’assistente volontaria, che ha fatto di tutto per iscrivermi all’Università. è stata una guerra lunghissima, oltre due anni di estenuanti attese, colloqui, domande, riunioni, fino a quando, nel gennaio del 2003, il Senato accademico dell’Università di Padova ha autorizzato la mia iscrizione. È stata una vera vittoria contro la burocrazia ottusa e la diffidenza cinica.
A quale facoltà sei iscritto, quanti esami hai sostenuto e con quale profitto? Frequento la facoltà di Scienze politiche ma la mia è una "non" frequentazione: oltre al fatto che non posso recarmi all’Università per seguire le lezioni e partecipare ad altre attività attinenti allo studio, non posso nemmeno comunicare con i professori, il che complica ulteriormente le cose. Fino a oggi ho sostenuto sei esami con la media del 28, per un totale di 40 crediti. Calcolando il tempo che mi ci è voluto devo ammettere che è un risultato deludente: è già un anno esatto dalla mia iscrizione.
Come riesci a studiare e quali vie devi seguire per sostenere gli esami? Non ci sono metodi e strade che ti portino all’esame, così come non c’è un protocollo o una tabella di lavoro. La realtà è che qui in carcere non importa a nessuno dei miei studi, perciò se non prendo i libri e non mi chiudo in bagno non potrò mai arrivare all’esame. Il mio modo di procedere è stato pionieristico, ho fatto a casaccio: ho preso il primo testo che era di sociologia, l’ho letto e riletto traendo degli appunti. Quando mi sono sentito pronto ho scritto al dipartimento di Sociologia, che ha provveduto a inviare una commissione qui in carcere per interrogarmi. Dopo quasi un mese sono arrivati i professori: mi hanno interrogato e alla fine mi hanno scritto un trenta sul libretto. È stata una grande soddisfazione che mi ha fatto gioire come un adolescente, basta poco per rendere felici noi detenuti... Ho proseguito nella stessa maniera per gli altri quattro esami, e nonostante i tempi lunghi ormai mi sto abituando al fatto che noi detenuti-studenti viaggiamo su una corsia diversa rispetto agli studenti normali.
Quali sono le difficoltà maggiori che incontri nello studio? Se ti racconto la trafila che ho dovuto seguire solo per pagare le tasse, ti faccio passare la voglia di ascoltarmi! Mio padre mi ha spedito i contanti dall’Albania. Poi ho dovuto presentare una domandina motivata affinché venissero consegnati a una volontaria, la quale si è recata all’università… e detto così sembra facile, ma ti assicuro che è tutto estremamente difficoltoso. Frequentare le lezioni, essere in contato con dei professori, degli assistenti, e specialmente la compagnia degli altri studenti, creano un quadro insostituibile. Per forza di cose qui tutto ciò manca, e allora devi arrangiarti da solo, sperimentare continuamente, scoprire quel che è meglio per riuscire a proseguire gli studi.
Non pensi che per sopperire a queste mancanze sarebbe importante la figura del tutor, come accade nelle carceri dove ci sono i poli universitari? In carcere ogni figura esterna è sempre utile, sia in qualità di tutor sia di operatore volontario. Ultimamente ho conosciuto un professore di diritto, si chiama Mario Mavolo, e si è offerto di aiutarmi per gli esami di economia e di diritto pubblico: viene tre-quattro volte al mese e approfondiamo i concetti poco chiari che incontro durante lo studio. Questo suo contributo per me è insostituibile perché vedi, quando stai leggendo da solo in cella e incontri ripetutamente degli intoppi invalicabili, e non hai nessuno a cui chiedere, ti viene la voglia di lanciare i libri fuori dalle sbarre della finestra. L’idea di avere qualcuno, a cui domandare cose anche banali, è una risorsa veramente eccezionale: le cose diventerebbero più facili e le difficoltà un po’ più contenute.
Quanto è difficile concentrarsi in carcere e riuscire a studiare? Quali sono, in altri termini, le difficoltà pratiche che incontri qui? Anche dal punto di vista pratico non è uno scherzo. È molto difficile trovare la concentrazione giusta a causa dei rumori e delle grida che provengono costantemente dal corridoio. Per non parlare dell’umore altalenante a seconda di come vanno le cose fuori: basta una lettera a farti tralasciare lo studio per due giorni. Un altro problema è rappresentato dal condividere lo spazio stretto della cella con persone che escono e che entrano: è frustrante e poco redditizio in termini prettamente scolastici. Ma il problema fondamentale, lo dico con convinzione, è la frequentazione delle lezioni: non capisco perché un detenuto che ha dimostrato la buona volontà di rieducarsi, e che ha scelto uno dei percorsi più difficili, come quello dello studio universitario, per rendere evidente con i fatti questa sua intenzione, non possa recarsi a lezione per due-tre mattine alla settimana. Esiste una norma (l’articolo 21 dell’Ordinamento penitenziario) che permette al direttore del carcere di autorizzare il detenuto a uscire per svolgere attività lavorativa o per frequentare corsi professionali, ma non la si può applicare per recarsi all’università poiché, apparentemente, il legislatore non ha previsto che un detenuto possa avanzare questa "strana" richiesta. Come ci si può laureare senza mettere mai piede in una università?
Quali benefici hai ricevuto dallo studio e quali sono i tuoi progetti per il futuro, le tue speranze? Andiamo per ordine. Di benefici, fin’adesso ne ho avuti soltanto a livello personale, cioè di crescita culturale. Mentre di benefici legati alla mia posizione giuridica fino adesso nemmeno l’ombra. Invece, per quanto riguarda i miei progetti, semplicemente non esistono, mentre le speranze sono tante che non basterebbero migliaia di megabyte per contenerle. Per esempio, spero che i miei genitori abbiano abbastanza vita per aspettarmi. Spero che tutti i miei cari stiano bene. Spero che il giudice si convinca che non sono pericoloso per la società italiana e mi faccia uscire in misura alternativa un po’ prima di quanto avviene di solito per noi detenuti stranieri. Spero di laurearmi. Spero che la gente fuori capisca che qua dentro si lotta tutti i giorni per sopravvivere e che ciò è un’altra pena aggiuntiva. Spero veramente tante cose, ma con il radicale pessimismo che le mie speranze saranno sempre chiuse, incatenate con me, e insieme seguiremo questo lungo iter che il mio numero di matricola percorrerà.
Secondo te, quanta importanza ha lo studio in vista di un reinserimento nella società? Lo studio ha un’importanza essenziale: è facile immaginare che chi esce dal carcere con un titolo di studio riuscirà a trovare più facilmente un lavoro, forse non commisurato al suo grado di istruzione, ma comunque un’occupazione che gli eviterebbe di dover rubare per sopravvivere. È ovvio che chi passa cinque o sei anni di carcere steso su una branda guardando la televisione 18 ore al giorno troverà difficile guadagnare un posto di lavoro alla sua liberazione. Ma questo è solo uno dei benefici dello studio in carcere: si potrebbe parlare della crescita personale che migliora sicuramente il modo di vivere. Oppure ricordare il fatto che, studiando, si acquisiscono delle capacità di pensare e di agire nel rispetto di quelle leggi prima ignorate, con la possibilità di trovare una nuova dimensione nella società e intraprendere, per esempio, un’attività economica di produzione e dare anche lavoro ad altri. Ci sono dei casi di detenuti che sono usciti dal carcere con un’altra visione del mondo, e hanno lavorato sodo e creato aziende di successo che oggi portano lavoro e ricchezza per quella società che un tempo li voleva segregati. Infine, perché mai l’alta considerazione che le istituzioni danno all’istruzione per tutta la popolazione, non dovrebbe riguardare anche i detenuti? L’istruzione è importante per tutti e dovunque. Latino e filosofia non perdono colpi È proprio in carcere che queste materie riescono ad appassionare gli studenti
È strano, ma in carcere ritrovano un senso materie, esperienze, conoscenze che fuori, a scuola, sembrano spesso svuotate di significato. E gli studenti, dentro, ritrovano quelle energie e quelle curiosità, che i ragazzi che frequentano le scuole "regolari" fuori pare abbiano perso da tempo. La prima esperienza di cui parliamo riguarda l’insegnamento del latino, e ci arriva dalle pagine di "Espressioni", il giornale del carcere di Lucca: a raccontarla è un insegnante che accetta la sfida di dedicare del tempo a spiegare ai suoi studenti detenuti che cos’è il latino, e come è fatta questa lingua. La seconda esperienza riguarda l’insegnamento della filosofia, e uno strano corso avviato ad Avellino, con un titolo ironico, "Prenderla con filosofia". Anche qui a raccontarcela è un insegnante. Ad accomunare queste due esperienze c’è il fatto che in carcere, più che nella scuola "libera", ci si ritrova inaspettatamente con un pubblico attento e concentrato. Proprio perché in galera sono tanti a riscoprire il senso e l’importanza dello studio, e a cercare di recuperare tutte quelle conoscenze che forse, durante l’adolescenza, erano considerate inutili e noiose.
La Redazione
Latino nella Casa circondariale di Lucca
Ho insegnato italiano ai detenuti stranieri della Casa circondariale S. Giorgio dal 1997 alla fine del 2003. Sono stati sette anni importanti della mia vita, in cui ho conosciuto decine e decine di uomini provenienti da ogni continente, ognuno con una storia particolare, e in possesso di competenze culturali e linguistiche diverse. Ognuno con una breve e indefinibile prospettiva di permanenza nella Casa circondariale, di solito in attesa del processo, per poi venire trasferito altrove. Quando ho iniziato mi chiedevo in primo luogo come avrei fatto a formare un gruppo con cui poter lavorare con un minimo di continuità, e in più a gestire un’aula in cui sarebbero confluiti analfabeti totali accanto a chi invece se la cavava già bene. Di fronte a questi due problemi mi sentivo inadeguato. Mi domandavo che interesse poteva mai suscitare in chi lo seguiva un corso che sarebbe potuto finire da un giorno all’altro, e dove chi non sapeva una parola d’italiano stava a fianco di chi parlava correttamente. All’inizio il più incerto ero io: pensavo che nei loro panni me ne sarei rimasto in cella a dormire, o piuttosto che avrei sfruttato l’ora d’aria invece di rinchiudermi in un’aula scolastica. Un giorno però sono stato messo alla prova: qualcuno mi chiese cos’era il latino. Dentro di me pensai che quella curiosità esulava dai nostri limitati obiettivi linguistici, ma mi accorsi anche che tutti si aspettavano una risposta dal loro insegnante, e che nessuno voleva sentirsi dire che a loro il latino non sarebbe mai servito a nulla e quindi tanto valeva soprassedere. Capii che da come avessi risposto si sarebbero sentiti detenuti a tutti gli effetti o uomini liberi almeno di fare delle domande. Durante la lezione di latino che seguì non si sentì volare una mosca. Anche loro sapevano che di quella lingua morta probabilmente non avrebbero mai più sentito parlare in vita loro, ma proprio per questo si gustarono quelle parole come un dono raro. Anche chi probabilmente non capiva quasi nulla seguì attentamente i miei movimenti e la convinzione con cui espressi quei concetti, e si lasciò convincere dalla mia buona volontà. Il problema in carcere non è cosa insegnare, ma come farlo. Tutti gli uomini che ho incontrato in questi sette anni mi hanno testimoniato che imparare a scrivere, leggere, e in una parola condividere un percorso formativo, è per loro un bisogno primario. Proprio quando sembra che quasi tutto sia perduto, potersi misurare da pari a pari con un estraneo o collaborare con i compagni in difficoltà nell’apprendimento, aiuta a far ritrovare la dignità e la voglia di riscoprire un proprio ruolo positivo nel mondo.
Marco D’Alessandro
Prenderla con filosofia
Nella Casa circondariale di Bellizzi Irpino (Avellino) è in corso da alcuni anni l’esperienza di un laboratorio di "Filosofia e Quotidianità" destinato ai ristretti, organizzato dal SEAC Campania, in collaborazione con la Caritas diocesana e la sezione avellinese della Società Filosofica Italiana. Fare "filosofia fuori le mura" (fuori, cioè, dai consueti circoli accademici e scolastici) e per di più in un contesto quale quello carcerario, fortemente caratterizzato e caratterizzante, mirava a utilizzare le enormi potenzialità del dialogo filosofico inteso quale costante provocazione a pensare, attività peculiare ad ogni soggetto vivente. L’espressione da noi adottata quasi come uno slogan, Prenderla con filosofia (così usata nel linguaggio corrente ma altrettanto fraintesa), intendeva essere una forma di provocazione per catturare la curiosità e l’attenzione dei detenuti, ma col passar del tempo ha evidenziato spessore e valenza formativa connessi alla specificità di una disciplina che paradossalmente si pone come obiettivo quello di insegnare "l’arte della fuga". Quale provocazione migliore e più accattivante per dar vita ad un laboratorio che avesse quale tema di riflessione e di confronto la QUOTIDIANITà, in tutti i suoi risvolti e coinvolgimenti umani, psicologici, sociali e politici? E sono proprio le parole di un detenuto: "Abbiamo tanto tempo per pensare e riflettere", a sottolineare la necessità di un laboratorio filosofico in ambito carcerario, per aiutare i detenuti a non sentirsi solo osservati ma anche osservatori di se stessi, delle proprie vicende e di un’esperienza comunitaria così particolare. Tale esperienza pone ciascuno come innanzi ad uno specchio, dove ci si vede, ci si ritrova, ci si riconosce, si prende consapevolezza, si rilegge il proprio copione esistenziale, ponendo le premesse per correggerlo o ristrutturarlo. Operazioni queste che, fatte in solitudine, non sortirebbero lo stesso effetto, anzi rischierebbero di accentuare gli effetti devastanti dell’isolamento: deprimere, incattivire e rendere molto più problematico quel percorso di risocializzazione e di integrazione di cui tanto si parla. Il dialogo socratico, invece, come provocazione a pensare e a confrontarsi, induce a soffermarsi su quella quotidianità tanto alienante e frustrante per conferirle nuovo senso, investendola di domande che sollecitano la ricerca di risposte più convincenti e, soprattutto, condivise. A questo proposito, appare illuminante quanto è emerso da un dialogo relativo al processo di integrazione e di reinserimento. La problematica, discussa e analizzata con pacatezza e lucida consapevolezza dai detenuti, affrontava, tra l’altro, e denunciava l’ambiguità contenuta in questi termini: la violenza, il buonismo ipocrita e il tentativo di colpevolizzare sempre e comunque i detenuti per giustificare e autoassolvere le inefficienze e le inadempienze di un intero sistema sociale. Non meno interessanti si sono rivelate le argomentazioni scaturite nell’affrontare problematiche - squisitamente filosofiche - relative alla certezza, alla verità, alle libere convinzioni, alla legalità e al libero arbitrio. Gli interlocutori, seppur sprovvisti di pre-requisiti di carattere culturale, hanno dimostrato di essere in pieno possesso di tutti gli strumenti per affrontare temi esistenziali e prendere consapevolezza di essere loro stessi portatori di una FILOSOFIA che è ispiratrice di scelte e di assunzione di responsabilità. Dalle testimonianze dirette e indirette di questa esperienza laboratoriale emerge un dato fondamentale da cui non si può prescindere: nell’universo carcerario è oltremodo necessario un investimento di tipo culturale; è urgente lanciare una sfida di ordine etico che veda coinvolta tutta la società nell’attivare metodi, mezzi, saperi atti a prevenire e a interrompere la spirale del "male". Lo sviluppo sociale e la formazione degli individui - la civitas e la civilitas - procedono di pari passo, si intrecciano e richiedono grossi investimenti sulle persone, ed in particolare sul potenziamento delle loro capacità, quanto mai necessarie a riflettere sulla quotidianità per investirla di senso e non subirla come ineluttabile. Il laboratorio di filosofia ha offerto ai detenuti, ma soprattutto a me, l’opportunità di constatare e di esplicitare come tutti debbano essere coinvolti in un progetto-processo che non può limitarsi a pura e semplice operazione di trasmissione/assimilazione di un sapere codificato, ma essere un’operazione di ripensamento, di rivitalizzazione e ricostruzione di senso, di rottura e di continuità. I detenuti, in quanto persone, sono portatori di un vissuto ricco e problematico, espresso in bisogni identitari fortemente strutturati che sfociano in una vera e propria filosofia di vita; essi hanno elaborato sul campo parametri e categorie valutative in grado di orientare le loro scelte in piena autonomia e responsabilità. Non hanno, pertanto, da apprendere "nuovi saperi", né sono ben disposti a ricevere "lezioncine". L’unico approccio possibile è quello di riconoscere la loro dignità di persone e nutrire per essi il massimo rispetto, se si vuole che si mettano in discussione e siano disposti ad accettare il conflitto socio-cognitivo. Solo così saranno in grado di elaborare, lentamente, nuovi e più condivisibili paradigmi interpretativi della realtà sociale e comunitaria. A questo punto appaiono in tutta evidenza l’opportunità e l’efficacia di un laboratorio di filosofia, e in generale di iniziative a carattere culturale, da svolgersi proprio in carcere dove, nonostante le condizioni di isolamento e di forte limitazione della libertà, può farsi strada la cultura del dialogo, dell’ascolto e della reciprocità, necessaria perché ciascun detenuto si riappropri della sua identità e si faccia protagonista di un nuovo, personale progetto di vita. Un’ultima, ma non meno importante riflessione scaturisce da questa esperienza: il ruolo formativo che riveste la comunità, da intendersi come comunità educante, crocevia di relazioni, dove ci si incontra, ci si confronta anche animatamente e in cui ognuno è in grado di elaborare e formulare la propria scala valoriale, nutrita di orientamenti validi e fortemente condivisi. Il carcere infatti non è un "mondo a parte" né "l’altro mondo", ma è parte integrante della società che noi tutti, con apporti diversi, contribuiamo ad arricchire o impoverire e di cui non possiamo non ritenerci corresponsabili. Per la forte carica emotiva e le molteplici implicazioni umane, culturali e sociali, l’espressione di don Milani "I CARE", mi sembra quanto di più opportuno si possa indicare per lanciare a tutti un pressante invito a prestare la dovuta attenzione all’universo carcerario e alle sue problematiche.
Luigi Iandoli
Su un muro della mia scuola c’è scritto "I care", è il motto dei migliori giovani americani, significa mi interessa, mi importa, è il contrario del motto fascista "Me Ne Frego"…
Don Lorenzo Milani
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