Parliamone

 

Notizie sul Nuovo Codice Penale

Cosa cambierà per i detenuti? Tra sogni e speranze

 

A cura di Marino Occhipinti

 

Su questi temi abbiamo intervistato Vincenzo Militello, docente di diritto penale e membro della Commissione di studio per un nuovo codice penale (Commissione Nordio).

 

Qualche mese fa avevamo contattato il professor Vincenzo Militello, docente di diritto penale e di diritto penale comparato presso l’Università di Palermo e membro della Commissione di studio per un nuovo codice penale (Commissione Nordio), per intervistarlo sui lavori della Commissione in oggetto, ma lui ci aveva gentilmente risposto che non poteva darci anticipazioni su questioni ancora del tutto riservate.

In questi giorni le cose sono cambiate, ci ha detto il professore: "Solo ora sono in grado di rispondere alle domande postemi in relazione ai lavori della commissione di studio per un nuovo codice penale. Il 26 giugno infatti si è tenuta una presentazione pubblica della parte generale messa a punto dalla Commissione (l’incontro si è svolto a Monza, è stato organizzato dalle Camere penali ed ha visto la partecipazione del sottosegretario Santelli). Come avevo già scritto in precedenza, fino ad ora non potevo divulgare contenuti coperti da un obbligo di riservatezza nei confronti del Ministero, che ora è ovviamente venuto meno vista la pubblicità data ai nostri lavori. Sono lieto dunque di potere rispondere punto per punto alle vostre cortesi domande".

Le risposte, lette poi nella nostra redazione in carcere da tante persone schiacciate da pene enormi, hanno scatenato speranze, sogni, illusioni. Di concreto c’è, per ora, il fatto che si intravedono, nei risultati del lavoro della Commissione, delle importanti riduzioni delle pene, ma la strada da fare sembra ancora lunga.

 

Professor Militello, a che punto sono i lavori della Commissione che si occupa della riforma del Codice penale, e cioè quando pensate di consegnare il Vostro elaborato?

Quanto allo stato dei lavori, è stato definito il progetto di parte generale (quello appunto oggetto dell’incontro pubblico di cui sopra). Quanto alla parte speciale sono già approvati dalla commissione plenaria i reati contro la persona, contro il patrimonio, contro la pubblica amministrazione, contro la fede pubblica (ora rinominati contro la certezza nei rapporti giuridici e l’altrui affidamento). In avanzato stadio di approvazione sono i reati contro l’amministrazione della giustizia. Sono state messe a punto proposte in tema di reati economici, fallimentari, tributari, associativi ed informatici. Per consegnare ed in parte aggiornare queste parti si può ipotizzare un orizzonte entro l’anno 2004. Per completare la parte speciale nelle parti ancora mancanti (ad esempio reati contro lo stato) ed armonizzare l’intero testo si può ipotizzare un lavoro di ulteriori 6/8 mesi.

 

Può anticiparci, per quanto possibile, le più significative modifiche e le novità principali?

Le più significative novità della parte generale riguardano la scomparsa delle contravvenzioni e delle pene pecuniarie (al di fuori di quelle per reati di competenza del giudice di pace). Importante pure l’affermazione della responsabilità solo per dolo o per colpa, unitamente alla previsione di una pena più grave per i casi di colpa collegati ad attività violente e pericolose per l’incolumità altrui. Le cause di non punibilità sono aggiornate e sistemate in modo più razionale.

 

Ci sarà quindi una depenalizzazione delle "contravvenzioni", i cosiddetti reati minori, che potrebbero essere puniti in via amministrativa, limitando le pene detentive solamente ai delitti...

Le contravvenzioni come categoria generale spariscono. Non si può escludere che l’esame di quelle vigenti indicherà se ve ne sia taluna che richieda di non essere depenalizzata (ed in tal caso dovrà essere sottoposta al regime delle altre incriminazioni penali).

 

È prevista una revisione delle pene, soprattutto in riferimento alla loro quantificazione temporale (i lavori della precedente Commissione, ad esempio, avevano ipotizzato un lieve abbassamento, 18 anni di pena minima per il reato di omicidio volontario, a fronte dei 21 stabiliti dal Codice vigente)?

Nella parte generale è prevista una reclusione massima di 20 anni (per il codice attuale è 24 anni) e di 24 nel caso di cumulo di più pene della reclusione (attualmente 30). La parte speciale (nelle sezioni già definite) non contiene ancora la indicazione dei limiti di pena per i singoli delitti, riservata ad una fase finale in cui potere valutare la proporzionalità complessiva del sistema.

 

Nel caso venissero abbassate le pene, anche per uniformarsi alla maggioranza dei Paesi dell’Unione europea, come si potrebbero riequilibrare le pene – ovviamente più alte – inflitte prima della riforma?

Nel primo capitolo, dedicato alla legge penale, è prevista una generale possibilità di revisione delle pene in corso di esecuzione che risultino più elevate rispetto ai nuovi limiti previsti.

 

Quali orientamenti ci sono, in Commissione, sul mantenimento o sull’abolizione dell’ergastolo (e in ipotesi di abolizione, da quale pena verrebbe sostituito)?

L’ergastolo è mantenuto, ma si è già stabilito che esso sarà previsto solo per casi limitatissimi e di estrema gravità (ad esempio strage con più vittime) e che se ricorre un’attenuante esso venga sostituito con la reclusione di 24 anni.

 

L’attuale Codice penale consente agli Organi giudicanti dei margini di quantificazione della pena forse troppo ampi, con la conseguenza che le sanzioni inflitte – anche per le medesime tipologie di reato – possono variare enormemente da una città all’altra, ma anche nell’ambito dello stesso distretto, a seconda del giudice che le applica: avete previsto degli spazi di manovra meno ampi, una forbice limitativa, dei paletti nell’applicazione delle attenuanti e delle aggravanti di cui i giudici dovranno tenere conto?

Si prevede una razionalizzazione degli eccessi di discrezionalità nella commisurazione della pena nel quadro di un recupero di efficacia del sistema sanzionatorio. In particolare, l’eliminazione del giudizio di bilanciamento fra circostanze, delle attenuanti generiche (per un catalogo aggiornato di circostanze attenuanti), un tendenziale contenimento della cosiddetta forbice edittale (distanza fra minimo e massimo previsti in astratto), a fronte di un abbassamento complessivo dei livelli di pene previste e ad un meccanismo che consente una ampia facoltà di convertire la pena della reclusione con pene diverse (per esempio pene interdittive ed inabilitative).

 

Il nuovo codice penale, qualora approvato, potrebbe portare ad una riduzione del sovraffollamento degli Istituti di pena?

È una domanda troppo difficile per una breve risposta. Molto dipenderà da quanto i giudici prendano sul serio la possibilità di convertire le pene detentive in pene diverse.

Spero comunque che questi brevi cenni possano in qualche modo venire incontro alle vostre esigenze di conoscere lo stato dei nostri lavori. In ogni caso posso solo aggiungere che avverto l’enorme responsabilità di un lavoro come quello che stiamo svolgendo, e che il senso della mia partecipazione alla Commissione è quello di cercare di contribuire ad un qualche miglioramento del nostro sistema penale. Se anche solo in una modestissima parte vi saremo riusciti, sarà valsa la pena di avervi dedicato tempo ed energie.

Mamme e figli detenuti insieme

Quei bambini sotto i tre anni "condannati per concorso in reato"

 

In questi primi giorni caldi ce ne sono dodici alla Giudecca, dodici bambini piccolissimi condannati alla galera. Una scelta difficile, quella di portarsi dietro il figlio in carcere, che non tutte le donne detenute con figli sotto i tre anni se la sentono di fare, al momento dell’arresto. E poi ci sono donne che il carcere non glielo vogliono proprio far vedere, ai loro figli, e preferiscono non farli andare neppure a colloquio. Insomma, c’è una specie di timore che la galera "contamini" altre vite, oltre alle loro, e poi resti impressa nella memoria condizionando il futuro dei loro bambini.

Ma ecco tutte le paure, le ansie, le incertezze che assalgono le donne al momento di prendere decisioni così pesanti.

 

Un figlio non lo porterei mai qui dentro

 

Silvia: Se io avessi avuto un figlio piccolo quando mi hanno arrestato, non l’avrei mai portato qui dentro. Avrei trovato un’altra maniera, perché secondo me non c’è molto rispetto per i bambini a farli venire qui.

Katharine: Io questa cosa qui l’ho vissuta sulla mia pelle, all’inizio del mio processo non potevo lasciare l’Italia e mio figlio era obbligato anche lui a rimanere qui, e così a sei anni è stato per forza adottato dai miei cognati. Io non sono mai più stata mamma. Sì, sei mamma, ma non hai potuto viverla quella maternità, io non l’ho vissuta.

Veronica: Oggi è andata ai domiciliari una donna rumena, che aveva con sé due gemelli di sette mesi, e aveva nove mesi di definitivo da scontare. E oggi scherzando prima di andare via ha detto: io quando sono andata a rubare ero incinta, forse hanno dato anche ai miei figli "concorso in furto"?

Giulia: Per me un bambino non si dovrebbe portarlo in galera neanche ai colloqui, una detenzione domiciliare è diversa, ma qui dentro i bambini non dovrebbero entrare.

Paola: Io un bambino piccolo non lo porterei mai, è una questione di egoismo: per il mio benessere, perché mio figlio non lo voglio staccare da me, me lo porto in galera. Certo se non ho nessuno a cui lasciarlo, piuttosto che in istituto è meglio in galera con la madre, ma se uno ha un parente disposto a prendersene cura è molto meglio lasciarlo a lui piuttosto che portarlo qui dentro.

Giulia: Va bene anche lasciarlo con una famiglia di fiducia, perché se una ha una pena definitiva da scontare, lo sapeva anche prima di dovere prima o poi andare in carcere, e poteva trovare una sistemazione migliore a suo figlio. Io ho dato in affidamento mio figlio, però è una cosa che ho fatto con lui, è una decisione che ho preso con lui e basta.

Silvia: Anch’io ho dato in affidamento mia figlia ai nonni paterni, perché ho riconosciuto che non ce la facevo più e prima che le cose andassero peggiorando ho preferito che restasse con loro, così almeno rimane sempre mia figlia.

Sonia: Se guardiamo bene chi ha dei figli qui dentro, sono tutte straniere o nomadi. Le italiane sono pochissime, qui ce n’era una con un bambino, ma solo perché sua madre le teneva gli altri cinque figli, e uno in meno a casa vuol dire. Li ho visti io tutti al colloquio.

 

Che cosa è meglio davvero per un bambino piccolo

 

Ornella: Io vorrei capire che cosa è meglio davvero per un bambino piccolo.

Paola: Sai cosa hanno detto a me delle madri tedesche, quando ero in carcere in Germania? Che gli restano per tutta la vita impressi il rumore delle chiavi e delle porte chiuse. Anche in Germania c’era il nido ed era molto bello, molto funzionale, avevano il loro giardino, ma comunque era sempre carcere, e le madri alla sera venivano sempre chiuse in cella, e anche durante la notte aprivano e chiudevano, quindi il rumore delle chiavi c’era in continuazione. E poi i bambini quando andavano a casa non riuscivano a dormire se non sentivano il rumore delle chiavi…

Silvia: Pensa che tristezza!!!

Slavica: Ma qui è lo stesso, quando chiamano per esempio "Apri, agente". L’altro giorno c’era un bambino di due anni e mezzo che diceva a sua madre di andare in matricola.

Silvia: Quando andavo a fare le pulizie su al nido i bambini mi chiamavano agente, fa molto male questo, io per loro ero un’agente.

Sonia: Io mi ricordo del figlio di Senad. I primi tempi era tutto bello per il bambino, però nell’ultimo periodo, quando ho vissuto quattro mesi al nido perché avevo il divieto di incontro con la mia coimputata, ho visto che era molto ma molto cambiato, perché era più grande e cominciava a capire tutto e diceva "Agente aria… agente… apri porta", un bambino se ha sette-otto mesi non capisce, ma quando è vicino ai due anni capisce proprio tutto.

Slavica: C’era un’altra zingara che aveva un bambino di due anni e mezzo, e prima di uscire a tre anni come prevede la legge il bambino andava fuori con le volontarie a fare qualche giro, ma quando ha compiuto i tre anni ed è stato "scarcerato", dopo quando veniva a colloquio non voleva più entrare, quindi capiva benissimo dov’era. La nonna gli ha dovuto promettere che non lo avrebbe lasciato lì dentro, che sarebbe ritornato a casa con lei, se no non entrava.

 

Mi faccio io dieci anni di galera, ma i miei figli no

 

Sonia: E poi sentire questi bambini che di notte piangono in continuazione è proprio straziante. Non è che puoi prenderli su e fare un giro per casa, quella è la cella e lì devi restare.

Giulia: Il carattere di un bambino si forma nei primi tre anni di vita, e tu cosa gli trasmetti in questa maniera, se stai con lui in carcere? Ansia, stress, nervosismo, privazioni di ogni genere. Già sei frustrata tu, cosa vuoi trasmettergli?

Simona: Piuttosto mi faccio io dieci anni di galera, ma i miei figli no.

Ornella: Facciamo l’esempio di una donna che ha un anno da farsi e poi può uscire con la legge sulle detenute madri, voi lo portereste qui dentro o no un bambino in questo caso?

Tutte insieme: No! Assolutamente no!

Ornella: Pensate che sia peggio la galera che l’abbandono della madre?

Paola: I primi anni sono i più importanti della vita. Io dico che se hai la possibilità di lasciarlo a qualcuno di cui ti fidi, a una famiglia di cui ti fidi, sarebbe la soluzione migliore.

Ornella: Voi pensate che un bambino noti la differenza della vita qui dentro rispetto a fuori?

Katharine: Quando io avevo l’obbligo di andare a firmare in questura ed ero con mio figlio che aveva sette anni, facevo giri e giri prima di fermarmi perché non capisse dove eravamo, ma quando mio figlio ha fatto i dodici, tredici anni mi ha detto "Mamma, sai che io mi accorgevo che andavi in un posto strano?". Io cercavo di nasconderglielo e mi fermavo in un negozio, ma lui se ne è accorto ugualmente e me lo ha detto dopo molti anni. I bambini non sono scemi, anche i bambini piccoli quando sono in galera se ne accorgono, solo che non possono farci niente.

Giulia: Certe volte io penso a come sarebbe stata la vita se mia madre fosse andata in carcere quando ero piccola e mi avesse portata con lei. Già sono nata disgraziata così, figuriamoci cosa veniva fuori. Dopo le avrei detto che mi aveva rovinato la vita appena nata. Io non ho mai voluto mio figlio qui dentro a colloquio, solo adesso che è grande entra, ma ha scelto lui di venire, ormai è adulto e fa quello che vuole e mi ha detto: "Io voglio venire a trovarti".

 

Ci sono delle esperienze che ti rimangono dentro per tutta la vita

 

Paola: Se un bambino va a vivere con una famiglia di fiducia o con un parente, una figura femminile o materna c’è comunque, anche se non è la madre naturale. Il legame di sangue, il cuore di mamma, se la figura femminile vuol bene al bambino e lo segue nelle sue cose, è uguale.

Ornella: Sì però... è molto difficile mettersi nei panni di un bambino di due anni, perché noi adesso stiamo parlando da adulti. Non sono sicura che un bambino di due anni viva peggio qui dentro con la mamma, che fuori, però staccato da lei.

Paola: Non bisogna pensare solo a cosa è meglio per il bambino subito, ma anche al dopo. Come rivivrà queste cose, ci sono delle esperienze che ti rimangono dentro per tutta la vita. Magari subito il distacco è un po’ più sofferto per il bambino, però a lungo andare può essere la scelta migliore.

Giulia: Si dovrebbe realizzare una struttura per le mamme detenute con i bambini, che assomigli ad una casa, dove non vengano gli agenti ad aprire e chiudere le porte. Sei chiusa in questa casa e non puoi uscire comunque.

Veronica: Per me se hai una pena corta, va bene anche tenere il bambino dentro. Io ho visto una zingara, che è stata arrestata e insieme a lei anche sua madre e suo marito, aveva un bambino di nove mesi, è normale che l’ha dovuto tenere con sé. Non aveva nessuno a cui lasciarlo. Ma se avesse avuto anche qualcuno fuori che glielo poteva tenere, lei lo avrebbe portato lo stesso in galera, perchè le zingare pensano di uscire prima, avendo i bambini con loro, e probabilmente è anche così. E poi voi vi ricordate di quando avevate uno o due anni?

Paola: Non è che ti ricordi, ma è una cosa che fa parte di te, della tua vita, è una cosa che ti resta dentro sempre.

 

Il mio unico pensiero era di "mettere in piedi" mio figlio

 

Francesca: Secondo me i bambini non devono entrare in carcere, se non per loro scelta. Dire la verità o non dirla ai figli è comunque una scelta terribile, la sofferenza c’è in ogni caso!

Sonia: Se la pena è corta puoi inventare qualcosa, che sei andata a lavorare all’estero o simili. Ma se la condanna è lunga dopo come fai?

Slavica: Io sapevo benissimo che avrei avuto una condanna lunga e il mio unico pensiero era di "mettere in piedi" mio figlio prima di entrare in carcere, in modo che potesse essere responsabile per se stesso. Solo questo pensavo. Perché in quel periodo aveva 13 anni e la mia speranza era che maturasse di più e potesse guadagnare e lavorare per se stesso. Volevo renderlo indipendente prima di andare in galera

Simona: Io all’inizio mia figlia non l’ho voluta far venire, perché l’avvocato mi aveva assicurato che era una questione di un paio di mesi, ma poi ho visto che le cose non stavano così. Dopo è stata lei ad insistere di venire a trovarmi, ma io non ero contenta che venisse qui dentro. Non era il posto ideale per lei. Poi lei mi ha scritto che le mancavo molto ed aveva bisogno di vedermi, e allora io le ho detto: Va bene vieni! Ed è venuta. All’inizio era un po’ timorosa, un po’ spaventata per la perquisa, ma poi le è passata. Quando è arrivata mi ha chiesto: "Ti posso abbracciare?". Mia figlia ha 13 anni ed è anche in un’età molto difficile. Poi dopo un paio di colloqui è andato tutto molto meglio, e sono stata contenta che sia venuta, però è stata una sua scelta.

Ornella: Una cosa che mi domando è se è così necessario perquisire i parenti, non potrebbero perquisire i detenuti prima e dopo il colloquio? Io ho sentito dei detenuti che dicevano "Preferisco che mi perquisiscano anche facendomi fare le flessioni, piuttosto che perquisiscano la mia famiglia e i miei figli".

 

È una sua scelta, io sono contenta che venga a trovarmi

 

Paola: In Germania quello che veniva al colloquio lo facevano passare sotto il metaldetector e poi la detenuta la spogliavano alla fine del colloquio.

Ornella: Mi sembra meglio, anche perchè la persona detenuta ci è abituata, i famigliari no.

Marta: Mia figlia a colloquio ci viene, io non sono contraria che venga, anche perché lei ha 15 anni e non è piccolina. E poi è una sua decisione. Io sono contenta che venga a trovarmi. Sai cosa penso su questo punto, metti che entrambi i genitori sono in galera e il figlio non ha mai avuto nessun contatto con queste cose, devi decidere se farglielo avere o no! Quindi farli venire vuol dire che vedranno questa realtà e che gli resterà per sempre. Sono ingenui i bambini, ma non sono stupidi e gli rimarrà anche questa cosa nel ricordo.

Ornella: è per questo che credo che bisogna dire la verità ai figli, tanto prima o poi verrebbero a saperla. Allora è meglio farli venire al colloquio e fargli conoscere la realtà del carcere.

Marta: Se decidi di lasciare da parte tuo figlio senza dirgli la verità della situazione, io penso che lui si senta peggio un domani che lo viene a sapere. Non si sente considerato e si sente peggio. Anche se un bambino ha 6 o 7 anni, secondo me è sempre meglio dirglielo. Le cose brutte fanno parte della nostra vita: una spiegazione ai bambini bisogna dargliela.

Francesca: È anche una questione di fiducia per un bambino. Se parli a tuo figlio in una certa maniera, lui ti stima, ma se gli tieni nascoste le cose, lui non avrà più fiducia in te. Perché si sentirà tradito.

 

Un figlio ha bisogno di vederlo, un genitore, anche se è una volta ogni tanto

 

Sonia: Io però ho visto mia figlia che all’inizio andava sempre a trovare suo padre in carcere, però dopo due o tre anni ha deciso di non andarci più. Io le dicevo: "Dai su vieni con me, che andiamo a trovare papà, è sempre il tuo papà", e lei mi rispondeva: "No mamma non vengo, vai tu da sola e non dirmelo mai più. Perché chi glielo ha detto a lui di andare in carcere? Se andava a lavorare in fabbrica come tutti i papà, adesso non era in galera, perché non ha pensato a me?".

Antonietta: Io ho sentito una psicoterapeuta dire che i bambini a cui viene detto che i genitori sono all’estero, o via per lavoro, poi lo vivono come un abbandono, non sono in grado di capire. Il bambino non ha questa possibilità di tollerare l’assenza per lungo tempo. Ha bisogno di vederlo, un genitore, anche se è una volta ogni tanto. Però sa che c’è.

Ornella: E poi, se tu dici ad un bambino che la madre è a lavorare all’estero, lui il lavoro lo ritiene un motivo molto debole per giustificare una lunga assenza. Come dire: come mai, se sei via per lavorare, non vieni mai a trovarmi e non mi telefoni ogni sera? È naturale che si senta abbandonato.

Un figlio in carcere

Un padre che non vuole lasciarlo solo

 

di Ornella Favero

 

"Penso a mio figlio, ma anche a tutti i genitori che si trovano a combattere con questi problemi"

 

Una famiglia rispettata, una vita tranquilla in un piccolo paese. Poi, all’improvviso, succede qualcosa: un fatto di sangue, un figlio che finisce in carcere in modo del tutto inatteso, l’accusa: omicidio. La famiglia rischia di sfasciarsi, madre, padre, fratelli non riescono a farsene una ragione. Ognuno reagisce in modo diverso, la madre non se la sente per lungo tempo di incontrare il figlio in carcere, il padre si prende sulle sue spalle la fatica di non abbandonare il ragazzo. Comincia intanto un lungo periodo di isolamento, dove è difficile capire se è il mondo intorno che isola la famiglia, o se è la famiglia che si autoesclude dal mondo. è una esperienza durissima: a raccontarla è il padre.

 

"Anche solo a ripensarci, a cosa vuol dire che tuo figlio sta in carcere, ti senti male. Il pensiero a volte ti porta lì, e sinceramente ti fa male ricordare quanti anni sono passati in queste ristrettezze. Quando vai a letto la sera è l’ultimo pensiero e il primo del mattino quando ti svegli. Questo va ad incidere non solo sugli affetti con la persona detenuta, ma anche su quelli con le altre persone, anche con la moglie stessa, con gli altri figli.

A casa mia, nei primi momenti dopo l’arresto di nostro figlio, si sono create delle tensioni forti. Mia moglie ha reagito in modo diverso da me: io le cose le tengo dentro, lei quando esplode… esplode in maniera anche inconsulta, soprattutto in quei momenti lì, quando cercare un capro espiatorio sembra ti faccia star meglio. E a volte il capro espiatorio ero proprio io, perché non avevo avuto il polso per controllare nostro figlio, perché non ero stato abbastanza cattivo con lui quando ce n’era bisogno.

Con mia moglie per circa un anno abbiamo avuto degli scontri vivaci, a volte anche cattivi, se vogliamo. Sono quei momenti che arrivano perché non ti sei mai trovato in certe situazioni, perché non te l’aspettavi, non avevi visto nulla che potesse far pensare a una conclusione così terribile. Non c’erano mai stati segnali in questo senso, e allora è stato più tragico per noi.

Ricordo la sera che è successo il fatto: stavamo cenando, uno dei miei figli è uscito a vedere, mi sono sentito un brivido e in un primo momento ho pensato: ma proprio vicino a casa mia succedono queste cose? Io da quel momento lì ho sempre avuto paura e la mia sensazione non era sbagliata.

 

Come hanno reagito gli altri fratelli, i conoscenti, gli amici, il paese tutto

I fratelli in un primo momento sembrava che capissero, il più vecchio è andato a trovarlo subito in carcere, gli ha portato della roba per cambiarsi, però dopo, forse anche perché ha la sua famiglia, i figli, i suoi problemi, ha un po’ cambiato atteggiamento, però una volta o due all’anno va a colloquio in carcere. Gli altri non hanno reagito male, sono stati forse meno rigidi, ma anche per loro specialmente all’inizio non era una situazione facile, e poi hanno sofferto anche di più perché vedevano quanto ne abbiamo sofferto noi genitori…

In realtà, dei nostri figli uno abitava già in un ambiente dove non era molto conosciuto, un altro si è sposato qualche mese dopo e ha cambiato anche lui paese, quindi loro in fondo hanno continuato la loro vita, il loro lavoro, anzi mi ricordo che il secondo figlio proprio il giorno dopo l’arresto di suo fratello doveva cominciare un nuovo lavoro, e ha dovuto presentarsi in ufficio in direzione e dire che cosa era capitato nella nostra famiglia, perché magari non venissero a saperlo da altre vie. Devo dire che ha avuto anche lì abbastanza comprensione: "Noi conosciamo lei e non ci interessa altro", gli hanno detto.

Per noi è stata più dura, più che altro ha pesato la reazione del paese piccolo, anche perché forse non è facile rompere il ghiaccio in certe situazioni: non aveva il coraggio, o la voglia di farlo, chi ci conosceva bene e ha preferito fingere che non esistessimo, e non avevamo il coraggio di farlo noi, temendo la reazione della gente. Ci sentivamo spaventati, non riuscivamo più a vivere come si viveva prima, e così ci siamo abbastanza chiusi in noi stessi. Anche per vergogna, naturalmente, perché prima eravamo considerati una buona famiglia, quattro figli e non c’era mai stato niente da dire in nessun caso. Poi ti capita questa batosta e ti crolla addosso praticamente tutto, la gente aveva stima, aveva fiducia in noi e poi di punto in bianco ci ha lasciati soli.

 

A volte ti escludono gli altri, a volte ti autoescludi da solo

Quando ti succede un fatto grave come quello che è capitato a noi, per quanto ti sforzi non puoi accettarlo, non capisci, non riesci a spiegarti nulla. Poi però, faticosamente, devi farti un po’ di coraggio e cominciare a riprendere lo stesso ritmo di prima. Io ho incontrato persone che mi hanno dato una botta sulla spalla, come a dirmi: dai che tutto si sistema… Ho trovato però anche persone che ci guardavano con sospetto, ho sentito gente che prima ci considerava in una maniera e poi ci ha voltato le spalle. Devo dire però che in un certo senso siamo stati noi per primi ad autoescluderci, mentre fuori tra la gente ci sono stati alti e bassi, chi capiva la situazione chi non la capiva chi magari ne approfittava per criticare e disprezzare.

I parenti invece ci sono stati vicini, noi quando abbiamo saputo dell’arresto la domenica sera abbiamo avuto la casa piena, mia sorella, mia cognata, gli altri cognati da parte di mia moglie. Poi la sera stessa abbiamo chiuso la casa, siamo andati via e tutta la prima settimana l’abbiamo passata dai parenti per evitare spiacevoli incontri, anche perché ho saputo che tutti i giorni c’erano giornalisti e telecamere. Quando siamo tornati, siamo stati una settimana e oltre con le tapparelle abbassate e la porta chiusa… ma poi bisognava fare la spesa, vivere in qualche modo, quindi io uscivo con la macchina e mia moglie era pronta a chiudere la porta. Io poi andavo per stradine in mezzo ai campi fuori dal paese, sono stato circa un anno senza passare per la piazza… in macchina facevo molti chilometri per andare a prendermi le sigarette in un altro paese dove non ero conosciuto.

Ricordo che un giorno mi sono fermato in un bar a prendere un caffè in un paese lì vicino, e c’erano tre o quattro persone che non mi conoscevano. Quando sono entrato io il barista ha cominciato a dire: "Hai visto anche quello lì, quel ragazzo, quanto presto hanno fatto a prenderlo, però faranno presto anche a liberarlo, vedrai che fra un anno è già fuori quello". E io sono lì che ascolto e non so cosa devo dire cosa devo fare… niente, ho bevuto il caffè e sono andato via. Però quelli sono i luoghi comuni della gente diffusi un po’ dappertutto, e intanto mio figlio sono anni che è in carcere.

Noi avevamo sempre frequentato la parrocchia, ma da quel momento lì non abbiamo avuto il minimo segnale neanche dal parroco. Devo dire però che a mio figlio lui ha sempre scritto, con noi invece è stato assente, non si è visto… e allora abbiamo cominciato a frequentare una parrocchia più lontana, in un altro paese, e la domenica mattina andavamo a messa dai frati francescani, anche perché lì non ci conosceva nessuno.

E proprio lì vedevo un frate umile, cortese con tutti quando si usciva da messa, sempre disponibile, e allora un sabato pomeriggio, tornando dal colloquio con mio figlio in carcere, ho deciso di andare da lui, mi sono presentato, gli ho spiegato tutta la situazione e siamo stati circa due ore a parlare, e lui mi ha detto che conosceva un frate suo confratello che andava a visitare i carcerati e si occupava delle loro famiglie. Ci ha fissato un appuntamento e così abbiamo conosciuto Fra Beppe. Poi siamo andati anche noi nella sua comunità e lì abbiamo incontrato famiglie con la nostra stessa situazione. Ci siamo inseriti e abbiamo capito che non siamo i soli a vivere questo problema, e questo ci è servito molto per sbloccarci, anche perché dopo abbiamo pensato che di figli ne avevamo altri tre e non potevamo riversare tutto su uno e farci vedere sempre e solo dispiaciuti e delusi con tutti. Abbiamo deciso allora che dovevamo alleviare un po’ la sofferenza degli altri figli, e questo è stato uno dei motivi che ci ha fatto riflettere e buttare tutto dietro le spalle, liberandoci un po’ di questo nostro peso… ora ce lo abbiamo ancora dentro quel peso, però lo viviamo in maniera diversa, senza sentirci sempre in colpa…

 

I sensi di colpa che ti scatena un figlio in carcere

Sono comunque tante le domande che ti fai, e non è facile non farsi prendere dai sensi di colpa: ma poi pensi che tutto quello che hai fatto, hai cercato di farlo per il bene della famiglia… naturalmente ad un certo punto è pensando anche a questo che il peso si alleggerisce. E poi ti dici: cosa ho fatto di male, non so, ne ho messi al mondo quattro di figli, li ho portati alla maggiore eta senza far mancare loro mai niente, ho sempre cercato di dare più che altro il buon esempio… anche per quel che riguarda il denaro, a casa nostra una cosa si faceva solo se c’era la possibilità di farla. Avevamo un negozio di ferramenta vicino a casa, e a volte mandavo lì mio figlio se mi serviva qualcosa, e anche senza i soldi lui vedeva che gli davano tutto quello che chiedeva: vedi, gli dicevo allora, quando uno ha fiducia, sa chi sono io e non ha bisogno di garanzie. Cercavo anche con questi piccoli esempi di far capire che la prima cosa che vale nella vita è l’onestà in tutti i sensi. Allora posso dire tranquillamente che se ho sbagliato ho sbagliato in buona fede…

Il fatto è però che uno si sente in colpa anche se non ha nessuna responsabilità, e allora comincia a ripensare a tutta la sua vita, a vedere cosa può essere successo… Forse l’unica cosa è che poi comunque hai altri figli, se è successo che uno è finito in carcere, ma gli altri hanno fatto scelte diverse, allora vuol dire che molto dipende anche dalla storia personale, è qualcosa di personale che non può coinvolgere tutta la famiglia.

Io sono sempre stato abbastanza tranquillo perché pensavo che il mio figlio più giovane avrebbe seguito l’esempio dei fratelli, che sono andati a scuola, hanno studiato, hanno sempre fatto quello che dovevano fare. Tra l’altro, io sono amico di una coppia di un paese vicino che ha un ragazzo che sta in carcere per droga, furtarelli e roba del genere… però anche il padre era lo stesso, si è fatto parecchi anni di galera anche lui… e ad un certo punto gliel’ho anche detto che lui a suo figlio non gli ha dato nessun buon esempio, il mio invece non ha seguito la mia strada…

 

Con gli altri genitori, che hanno i nostri stessi problemi, ci diciamo proprio tutto

Ci confidiamo davvero tutto con altri genitori di ragazzi detenuti, sono le uniche persone con le quali non abbiamo paura a parlare. C’è una famiglia con la quale ci sentiamo almeno una volta al mese e s’è creato veramente un rapporto di amicizia. E forse è un’amicizia più solida, perché è venuta fuori da queste sofferenze, da queste situazioni pesanti… veramente certe cose non le diciamo a nessuno, però quando ci troviamo con quelle tre-quattro famiglie con le quali abbiamo legato di più, ci si dice tutto… quello che invece non facciamo con altre famiglie, con le quali magari prima avevamo un rapporto di conoscenza da diversi anni. Parlare liberamente ci è servito tanto per buttare fuori il dolore, per alleggerirci un po’. Il dispiacere c’è e resterà sempre, ma se non altro ora ti lascia un po’ di respiro…

Con queste famiglie all’inizio non è stato tutto facile, ma Fra Beppe quando ci ha visto distrutti ha chiesto loro di starci vicino, e quando siamo arrivati ci hanno individuato subito, qualcuno ci ha raccontato tutti i suoi problemi e poi ha voluto sapere perché eravamo lì anche noi… Questa è stata una esperienza un po’ curativa… come una vera medicina.

 

I colloqui così come li vivono i genitori

I colloqui sono pesanti da affrontare, anche per il modo in cui si svolgono. Chi va lì deve aspettare al freddo, pure quando piove, di solito fra una cosa e l’altra passa un’ora e più, prima aspetti fuori che ti chiamino uno alla volta, e certo sarebbe meglio avere una saletta all’interno invece che aspettare sotto quella pensilina. Tempo fa siamo andati un sabato pomeriggio ed era abbastanza freddo, e mia moglie si è sentita male… sono stati gentili, l’hanno portata dentro, ma certo è dura, aspettare fuori e poi la perquisizione, e la sala colloqui dove a volte c’è una confusione che non ci si riesce a sentire, e quindi si è portati ad alzare sempre più la voce e così viene fuori un casino della malora…

Sì, lì al colloquio si è troppo disturbati, non c’è quella serenità per comunicare come si vorrebbe.

Si parla comunque un po’ di tutto, di quello che succede a casa, al paese, e magari si va con la voglia di dire tante cose e dopo ti trovi lì per un’ora che a volte è molto breve, ma a volte è anche molto lunga da passare.

Mia moglie i primi tempi non voleva venire a colloquio, non ce la faceva. Poi è successo qualcosa, c’era una mia sorella che si è malata di tumore, mia moglie andava a trovarla e io intanto andavo in carcere a trovare nostro figlio. Mia sorella ha sempre insistito, le diceva di continuo: "Vai a trovarlo, vai a trovarlo, e quando esco dall’ospedale vengo anch’io e andiamo assieme", ma dopo si è aggravata. Mia moglie ha quindi capito che glielo aveva promesso e doveva farlo, e un giorno mi ha detto: "Vengo anch’io". Ha pianto tanto, quel giorno…

Mio figlio è rimasto sconvolto, proprio non se l’aspettava… e lei comunque, lei ha fatto molta fatica, si è sbloccata solo per questo fatto della malattia di mia sorella.

 

La rabbia, l’affetto, quello che prova un genitore nei confronti del figlio in carcere

Io verso mio figlio ho provato anche un po’ di rabbia, ma devo dire che in me ha sempre prevalso l’affetto, sempre.

Ancora adesso, dopo anni, penso continuamente a cosa starà facendo, se starà dormendo, a cosa penserà in questo momento, ci penso sempre anche adesso… L’affetto in me ha avuto davvero il sopravvento su quel po’ di rabbia che ti provoca una situazione così.

E poi questa vicenda ha cambiato anche il mio modo di vedere il mondo, perché, per esempio, la condizione della vita in carcere prima anche per me era qualcosa di lontano, e invece mi sono trovato a pensare non solo a mio figlio, ma anche a tutti i genitori che si trovano a combattere con questi problemi, queste situazioni…

Certo non so come avrei reagito se tutto questo fosse capitato ad un mio amico invece che a me. È difficile a dirsi, sono sincero… adesso se dicessi che l’avrei aiutato non sarei onesto, ma certo se succedesse ora saprei stargli vicino…

 

Per mio figlio sta per cominciare una nuova fase della vita, con i primi permessi

È una fase che aspettiamo con tanta fiducia e tanta speranza, però qualche paura c’é.

Non penso che il paese, dopo nove anni, reagisca in maniera cattiva, anche perché oggi c’e tanta gente che mi chiede di lui, come sta, ho visto in più di qualche persona non la curiosità ma la solidarietà. Non mi aspetto una reazione cattiva, solo che bisogna andare un po’ calmi, e poi bisogna vedere anche mio figlio come reagisce… può venire a casa e chiudersi dentro e non avere neanche lui il coraggio di affrontare la gente, non è semplice prevedere come andranno le cose.

Ma poi comunque prevale la gioia che possa tornare a casa, e dopo al futuro si penserà con un po’ di fiducia, sperando che qualcosa di positivo possa succedere, la fiducia c’è. Questa fiducia che in un primo momento non c’era, quando i pensieri erano sempre gli stessi: cosa farà quando verrà fuori? Ci saremo ancora noi per dargli una mano? E i suoi fratelli, che ora hanno una loro famiglia a cui pensare, che cosa diranno? E tutte queste cose… tutti questi pensieri mi venivano all’inizio, ma poi ho visto anche che è un po’ cambiata la situazione e adesso ho più fiducia.

 

Che cosa direi a una persona che si trovasse nella mia situazione?

Le direi di cercare persone con le quali parlare e di dire tutto quello che si sente di dire, senza nessuna remora, senza paura. Non bisogna vergognarsi di far vedere di essere dei sentimentali, e poi vale la pena avvicinare il più possibile persone che magari abbiano anche una certa comprensione, una certa intelligenza. Questo sia a mia moglie che a me ha aiutato molto, perché io la vedevo veramente nera all’inizio, non vedevo un minimo di luce, pensavo che la vita di mio figlio fosse chiusa, finita. E adesso è stato come rinascere, rigenerarsi, imparare a vedere che le cose che succedono tante volte agli altri sono successe anche a noi e bisogna accettarle, altrimenti ci si mette lì continuamente a pensare e questo ti porta alla disperazione. E poi io fra l’altro ho sempre pensato al fatto che dovevo esserci, stare bene per dargli una mano quando ne avesse avuto bisogno, forse anche questo mi ha spinto un po’ a non lasciarmi andare."

Sono in carcere da sette anni e mezzo

e da sette anni e mezzo non vedo mio figlio

 

di Graziano Scialpi

 

Sono in carcere da sette anni e mezzo. Da sette anni e mezzo non vedo mio figlio. In tutti questi anni non mi sono mai arreso e ho sempre continuato a lottare per poterlo incontrare. Ma a quanto pare in Italia le sentenze dei Tribunali per i minori sono drasticamente efficaci solo quando si tratta di impedire a un padre di vedere i propri figli, quando invece stabiliscono il diritto di incontro non valgono nemmeno la carta su cui sono scritte. Ho vinto tutte le battaglie giudiziarie, nessuna delle quali si è svolta nemmeno con un centesimo della rapidità con cui mi è stata levata la patria potestà, però non è servito a nulla, perderò la guerra. So già quale sarà l’esito finale. Mi verrà detto: "Lei ha ragione, però ormai è passato troppo tempo, il bambino è cresciuto e per lui sarebbe traumatizzante", e questa sarà la sentenza definitiva, quella "più comoda" per tutti, quella che verrà fatta rispettare senza tollerare deroghe. Ma in questo non c’è niente di nuovo sotto il sole: solo le mamme sono indispensabili, dai tempi di San Giuseppe il padre è solo un optional facilmente intercambiabile, e con l’avvento dell’inseminazione artificiale è stato finalmente ridimensionato al suo ruolo di semplice donatore di Dna. Il nuovo "amico" di mammà può assolvere altrettanto brillantemente il compito, quindi arrivederci e si faccia una ragione delle sue pretese assurde e campate in aria.

Quando sono finito dentro, mio figlio aveva due anni e stava appena iniziando a parlare. Era un cambiamento importante che suscitava in me sentimenti ambivalenti. Ho sempre amato la parola, il racconto, e aspettavo con trepidazione il momento in cui avrei potuto iniziare a leggergli le fiabe, ma soprattutto non vedevo l’ora di misurare e misurarmi con la sua curiosità, in quel meraviglioso momento della vita che rappresenta la fase dei "perché?". Da un altro punto di vista però temevo che, con l’avvento del dialogo, sarebbe andata persa una comunicazione fatta di sorrisi, sguardi, gesti ed espressioni che avevo scoperto con lui e non avrei mai creduto potesse essere così profonda, così autentica. Di tutto questo non ho potuto avere nemmeno le briciole. Per qualche tempo ho cercato di mantenere un contatto con lui inviandogli delle cartoline che, ho saputo, si portava dietro tutto il giorno, mostrandole a tutti e consumandole a furia di stringerle. Ma l’accurata "damnatio memoriae" operata nei miei confronti esigeva che questi residui focolai emozionali venissero estinti. Così hanno smesso di consegnargliele e io ho smesso di spedirgliele, giusto per eliminare il disturbo di doverle gettare nella spazzatura.

Adesso mio figlio ha nove anni. Quel bimbetto dalla testa rotonda i capelli arruffati e gli occhi vivaci che si svegliava con un sorriso radioso e mi saltava sulla pancia, divertendosi un mondo alle mie finte lamentele, non c’è più, esiste solo nei miei ricordi. Adesso non solo sa parlare, ma anche leggere e scrivere. E io non so niente di lui. Non so se gli piace andare a scuola. Non so se ha ereditato almeno parte del mio amore per la lettura. Non so cosa gli piace e cosa non gli piace. Non so cosa lo fa ridere e se la sua risata è ancora quella squillante esplosione di gioia di quando era piccolo. Per qualche tempo ho potuto seguirne parte dei progressi attraverso gli occhi dei miei genitori, ai quali era concesso di vederlo per un’ora, una volta al mese. Ma ben presto anche a loro è stato impedito di incontrarlo. Di lui possiedo solo un paio di foto. Un ragazzino di quattro anni che osserva l’obiettivo con uno sguardo triste.

I primi anni ho sofferto in modo atroce per questa separazione. Soprattutto di notte, quando sognavo che non riuscivo a raggiungerlo o che qualcuno me lo strappava via. Poi qualcosa si è lacerato, lasciando solo una grossa cicatrice. Adesso non provo nulla e so che non soffrirò mai più nella mia vita. Non è possibile strapparmi un figlio una seconda volta.

Ancora adesso, di tanto in tanto, lo incontro ancora nei sogni. Ma ora non vedo più il bimbetto sorridente che ho tenuto tra le braccia e a cui ho dato il biberon. È un ragazzino che non conosco, con l’aria triste e accusatoria e io mi affanno nel vano tentativo di spiegargli tutto, di chiedergli scusa, di convincerlo che non è colpa sua se l’ho abbandonato, che gli ho sempre voluto bene, che non l’ho mai dimenticato, che è la cosa più importante della mia vita. Ma non ci riesco mai e lui mi respinge. E io mi sveglio in preda a un profondo disagio che mi accompagna per giorni.

Per fortuna sono sogni che faccio di rado.

 

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