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Vita offesa, lotta per il riconoscimento e mediazione… e poi anche "giustizia riparativa", incontro tra vittima del reato e autore dello stesso
Riflessioni di Carla Chiappini, responsabile della redazione del giornale del carcere di Piacenza
Di giustizia riparativa abbiamo sentito parlare la prima volta nella primavera del 2001, in una piccola casa parrocchiale nella periferia di Reggio Emilia. Stavamo intervistando il cappellano dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario della città emiliana e Don Daniele accennò "alla nuova frontiera su cui interrogarsi e impegnarsi"; quella dell’incontro tra la vittima e il colpevole "per colmare un solco" aperto all’interno della società. Poi di nuovo nel marzo del 2003 in un seminario organizzato da Age.sol presso la Caritas di Milano, l’incontro con uno dei maggiori studiosi italiani e internazionali: Adolfo Ceretti, professore associato di criminologia dell’Università Milano-Bicocca, dal 1992 giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Milano e coordinatore dell’Ufficio per la Mediazione di Milano. Più che di una lezione cattedratica possiamo parlare di un vero e proprio "incontro formativo", considerando che il punto di partenza è stato immediatamente fissato all’interno di noi e delle nostre emozioni: "Se qualcuno facesse del male a una persona a voi cara, addirittura a un vostro figlio, come reagireste a livello emotivo e spontaneo?". Mentre ascoltavo distrattamente i primi pensieri raccolti in sala, pensavo ai figli miei amatissimi e saliva la rabbia, il rifiuto, quasi la voglia fisica di punire l’autore del danno. Intanto incalzavano le domande di Ceretti: "Cosa vorreste fare a chi li ha feriti o violentati…?". Sinceramente l’unica richiesta forte che si faceva strada dentro di me era quella di essere legata come Ulisse tentato dalle Sirene per non poter rispondere al male con un male anche peggiore. E poi un certo stupore nel contemplare un lato di me tenuto sempre molto sotto controllo. Dalle emozioni è cominciato il lavoro di un pomeriggio dei più interessanti da quando il carcere è entrato a far parte dei miei pensieri quotidiani. In un percorso intenso e apparentemente "disorganizzato", si è via via delineata "la nuova frontiera" già preconizzata da don Daniele; il lungo cammino di avvicinamento tra due situazioni del tutto differenti e antitetiche: la vittima e il colpevole. Alcuni punti chiave ci restano impressi e possono essere utili a capire meglio una proposta di notevole valenza umana e morale. Innanzitutto il cammino della mediazione parte dal libero consenso dei due principali attori, consenso che può, comunque, essere ritirato in qualsiasi momento, anche il giorno stesso dell’incontro vero e proprio di mediazione. In secondo luogo l’obiettivo fissato non è né quello di alleggerimento della pena (perché questa possibilità in Italia è prevista solo in ambito minorile) né quello di un "perdono cristiano". La mediazione è qualcosa di altro e di sicuramente più complesso. Cito dagli appunti del Professo Ceretti: "…Ritengo gli spazi di mediazione un luogo di frontiera dove diviene possibile interrompere il senso di claustrofobia creato dalle condotte di spregio e ridare slancio al dialogo, all’ascolto reciproco. Lo spirito delle pratiche di mediazione va difatti individuato nel fatto che a ogni gesto afasico, a ogni atto che provoca in altri sofferenza, dolore, può fare da contrappunto un luogo in cui tale dolore può essere detto e ascoltato. Per fare mediazione, dunque, occorre saper reggere la paura degli effetti distruttivi dei gesti violenti e imparare a situarsi tra le persone che ne sono immediatamente portatrici. È da questo non-luogo che il mediatore cerca di incontrare la fonte e gli effetti di quei conflitti che creano un vuoto, un isolamento dei singoli attori nel proprio vissuto, nella propria versione dei fatti, nella propria solitudine e separazione dall’altro. In definitiva la mediazione – almeno nella prospettiva umanistica sostenuta da Jacqueline Morineau in Europa e Mark Umbreit negli Stati Uniti – intende aprire un inedito spazio rituale nella società contemporanea, poiché indica una strada lungo la quale la sofferenza, le emozioni, gli affetti, i sentimenti sociali che sono messi a nudo, a repentaglio, violati, possono esprimersi via-partecipazione a una nuova modalità di riconoscimento e di condivisione rispetto all’identità". Fin qui la definizione teorica; ben altro impatto hanno avuto sui partecipanti al seminario i due racconti di mediazioni reali. In particolare, ai limiti dell’umana comprensione, l’incontro condotto dallo stesso Ceretti, tra uno stupratore e la mamma del minore violentato. Un bimbo di sei anni che, oltretutto, dopo aver subito violenza, si ammala gravemente. Alla sua guarigione, la donna chiede di poter incontrare, in un contesto di mediazione, l’autore della violenza. - Per non restare prigioniera di quella storia, per riuscire a chiuderla, per ricominciare a vivere… - ci spiega il professore. Naturalmente i contenuti della singolare mediazione restano rigorosamente coperti dal segreto professionale così come l’identità dei protagonisti, apprendiamo solo che l’incontro è durato sette ore, che ha avuto esito positivo per entrambi, che il "mediatore" non ha dormito per nulla la notte precedente e che, per la prima volta nello svolgimento di questo ruolo, ha pianto. Le considerazioni e le riflessioni vengono, ovviamente, affidate ai partecipanti del seminario. Ci rendiamo conto di essere tutti turbati. Facciamo fatica a capire. Adolfo Ceretti sottolinea e precisa più volte che la mediazione non è un intervento terapeutico o psicologico, ma altro. Quello che mi colpisce, a livello del tutto personale, è la possibilità per due soggetti, che molto spesso non si conoscono nemmeno e sono imprevedibilmente legati da un fatto doloroso, di trovarsi in un luogo "protetto" e di fronte a un "terzo neutrale" per dar voce e sfogo alle proprie emozioni, per gridare il proprio dolore e dare riconoscibilità alle proprie ferite. Le proprie e autentiche, non quelle che altri attribuiscono o immaginano. Nasce così un dibattito sulla forza educativa che l’evento-mediazione potrebbe avere su quanti hanno commesso un reato e, magari, ne hanno solo una percezione vaga, legata piuttosto alle conseguenze penali che questo ha prodotto.
Da Milano a Piacenza
Forti emozioni suscita questo discorso sulla mediazione trasferito alla redazione del nostro giornale nel carcere di Piacenza. Una grande difficoltà a comprenderne il senso, innanzitutto, e poi l’incontro con il coriaceo concetto della "finzione", base e paradigma fondamentale della cultura carceraria. Sfiducia e incredulità. "Siamo abituati a fingere sempre, lo faremmo anche in quella sede". Spieghiamo a fatica che l’incontro di mediazione viene preparato da una serie di colloqui personali, che non produce nessun vantaggio pratico, che non "conviene". La resistenza è molto forte. Qualche minuto prima dello scadere del tempo disponibile, una mano alzata. "Credo", interviene M., autore di un duplice omicidio, "che sarebbe giusto dare alle mamme dei due ragazzi che ho ucciso la possibilità di dirmi tutto il male che ho procurato loro. Sarebbe più terribile per me dell’arringa del Pubblico Ministero, ma sì, sarebbe giusto per loro. Non dimenticherò finché avrò vita i loro occhi durante il processo". L’agente sollecita e noi attraversiamo i cancelli con tanti pensieri che si accavallano nella testa. Il carcere sempre più ci sembra il luogo del dubbio. Delle domande esistenziali.
Concludo citando Nico, un detenuto della redazione delle Novate
"È giusto che una colpa sia pagata e una pena scontata e questo ben lo sa anche chi ha sbagliato, ma è altrettanto giusto che un errore non diventi marchio, impresso a fuoco, sulla pelle e nel cuore di una persona". "Accade che, sentendoci appagati, alleggeriamo le nostre difese"
La dura testimonianza di un uomo che, dopo il carcere, non ce l’ha fatta a salvarsi dalla droga. Ma è riuscito comunque a fare cose buone per gli altri
La testimonianza che segue è tratta da un libro, "Uomo libero amerai sempre il mare", che raccoglie poesie e riflessioni di un detenuto del carcere di Terni, Ivo Manduchi. Un’associazione di donne combattive, il Club Soroptimist di Terni, ha deciso di pubblicare il libro, stampato dai detenuti del carcere di Spoleto, e, con i fondi raccolti, di contribuire all’acquisto di protesi per le persone mutilate dalle mine antiuomo. Dunque, Ivo sarà utile a tanta gente, ma alla presentazione del suo libro, avvenuta di recente nel carcere di Terni, lui non c’era, stroncato da un’overdose durante un permesso dalla comunità dove si trovava. Una fine triste, la sua, ma non una sconfitta: Ivo conosceva la sua debolezza, aveva paura del "dopo carcere", ma queste sensazioni, queste angosce le ha raccontate con tanta efficacia, che è riuscito davvero ad aiutare tutti noi a capire di più e ad avere più voglia di dare una mano a chi esce dalla galera.
Ornella Favero
Non sempre è facile riuscire a sconfiggere i mostri interiori, i nostri pensieri distorti; l’insano, come un ragno, ha tessuto la sua ragnatela per noi. È più facile lasciarsi andare, per poi tardivamente accorgersi che siamo nuovamente nel pozzo della disperazione. Molto spesso crediamo di aver tagliato il traguardo, raggiunto la nostra meta di salvezza, perché dopo tanto impegno riusciamo a vedere una luce, ad ottenere qualcosa, ma basta una piccola scintilla, un flash della nostra combattuta personalità, un piccolo ritorno di fiamma per quel passato distorto, per ritrovarsi addosso una nuova sconfitta. Accade che, sentendoci appagati, alleggeriamo le nostre difese. Questi sono invece i momenti in cui dovremmo triplicare le nostre forze, per non rischiare di cedere alla debolezza: quando ci lasciamo alle spalle la prospettiva del carcere e ci troviamo fuori tra la gente. Un mondo che per mesi e anni viviamo soltanto per sentito dire, un mondo che aspettiamo e sogniamo giorno dopo giorno. In quell’istante ci sentiamo vincitori, inconsapevoli che proprio da lì deve iniziare la nostra vera lotta, quella per la vita. Dobbiamo cercare semplicemente di non sbagliare più, ma anche di evitare di rimanere ancorati al passato con la mente. Dobbiamo essere consapevoli che il tempo non si è fermato: la vita al di fuori, benché noi ne siamo esclusi, va avanti, continua ad un ritmo per noi inconcepibile, che non riusciamo a sostenere, avendo vissuto per lunghi periodi nell’apatia e nell’improvvisazione di arrivare soltanto a sera. Invece fuori tutto è più reale, non esistono né sogni, né fantasia, tutto è più materiale, completamente al di sopra delle nostre abitudini e soprattutto delle nostre aspettative. Confrontandoti con la gente poi ti accorgi che non sei niente, non hai niente e ormai non avrai più il tempo per raggiungere il loro ritmo, il loro modo di vivere. Non è facile ritrovare il senso della vita: ci vediamo come dinanzi ad uno specchio che riflette la nostra immagine confusa, annebbiata, l’immagine che ci siamo costruiti sui nostri castelli campati in aria. Personalmente io difetto del senso di responsabilità, cado e ricado nelle stesse trappole di sempre, perdendo l’autocontrollo. Per adeguarmi alla vita esterna e proteggermi dalle insidie devo crearmi delle solide autodifese che mi consentano di vivere senza distruggermi, evitando anche di danneggiare il prossimo, in special modo le persone che mi sono vicine. Devo assumermi a tempo pieno la completa responsabilità di ogni mio gesto, di ogni mia parola, evitando di lasciarmi andare anche quando sono da solo. Dopo tante esperienze devastanti, anni vissuti ai margini, certo non sarà facile, ma è importante lavorare in questa direzione, perché non dobbiamo pensare di essere al centro del mondo, ma di essere soltanto persone, persone anzi più deboli, più vulnerabili. Basta un attimo di smarrimento e ricadiamo, poi per poterci rialzare anni di rinunce, di sacrifici: tutte cose che potrei evitare cominciando già da qui a maturare e ad impegnarmi, costruendo una solida base sulla quale potermi difendere fuori... penso che ho ancora bisogno di un po’ di tempo per poter trovare il mio equilibrio all’esterno. Devo pormi un obiettivo e convincermi di esserne all’altezza.
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