|
Un viaggio attraverso il carcere "virtuale"
La Spezia - Padova Due Palazzi, con tappe forzate a Torino Vallette - Milano San Vittore - Bologna Dozza: gli incubi di un trasferimento da carcere a carcere
Un po’ di tempo fa ho sentito parlare, in un programma televisivo che trattava del carcere, dell’esistenza di un "carcere virtuale", in cui giornalmente gravita una moltitudine di carcerati quantificabili in circa ottocento. In sostanza si tratta di un carcere che non risulta materialmente, perché consiste negli spostamenti da un istituto di pena ad un altro di detenuti che per processi, per assegnazione o per altri motivi, vengono messi in viaggio su treni modificati ad "hoc", che periodicamente fanno il percorso ferroviario tra le varie città, dove si trovano le carceri più importanti.
Queste traduzioni vengono chiamate ordinarie, e per ogni destinazione hanno un giorno prefissato (sempre che il mezzo di locomozione non abbia dei problemi, in questo caso si salta di una settimana la partenza), cosa che detta così può anche essere ritenuta normale, ma che vista dall’interno, da chi la vive sulla sua pelle, diventa un incubo. Per rendere meglio il concetto vi racconto l’odissea del sottoscritto, che nonostante l’esperienza annosa del vivere in cattività, è riuscito a sorprendersi e a stravolgersi per l’allucinante viaggio intrapreso attraverso questo carcere "virtuale". Mi trovavo al carcere di La Spezia per motivi di giustizia (un processo) ed ero in attesa di essere rimandato al carcere di provenienza, Padova, e, questa volta, a differenza delle altre, in cui venivo trasferito con traduzione "straordinaria" (furgone blindato che ti porta direttamente a destinazione) mi era stato comunicato che sarei partito con la traduzione "ordinaria" e di prepararmi gli zaini (non più di due, perché il peso massimo da portare non può superare gli otto Kg). E già qui una parentesi è d’obbligo per la descrizione del mezzo che è definibile treno solo perché viaggia su strada ferrata; di fatto, trattasi di vecchio mezzo di locomozione ferroviaria che da ragazzo spesso prendevo per spostarmi dal paese in città e che veniva comunemente chiamato "littorina", vagone unico, alimentato da due motori diesel, modificato dall’amministrazione penitenziaria per l’uso del caso. Di fatto tutto lo scompartimento riservato ai passeggeri è stato attrezzato con gabbie, cinque a quattro posti ognuna, collocate nel mezzo del vagone; nello spazio tra queste ed i finestrini, rigorosamente sigillati e blindati, vi sono due stretti corridoi che servono agli agenti per passare da un capo all’altro del vagone. La linea è la Roma - Torino, con le conseguenti fermate nelle città che si trovano nel tragitto, dove vengono caricati e scaricati detenuti; essendo inoltre un mezzo indipendente da ogni orario fisso, ad ogni passaggio di altro treno sulla strada ferrata è costretto a dargli la precedenza, ragion per cui spesso si sta fermi a lungo in qualche stazioncina intermedia. Inizialmente, il viaggio non sembra faticoso, anche se i sedili in queste anguste gabbie non sono proprio dei più confortevoli, (si tratta di panche rigide scomodissime) e le manette sono rigorosamente tenute ai polsi (il fatto straordinario è che questi infernali oggetti sono stati brevettati per fare solo minimi movimenti, e quindi ti trovi in difficoltà persino a svitare il tappo di una bottiglietta d’acqua) ma almeno si può guardare fuori dai finestrini attraverso grate bucherellate, per poco però, perché queste grate alla lunga ti mandano la vista in tilt, facendoti perdere la possibilità di mettere a fuoco quello che vi è oltre. Alle 13:30 mi trovo dunque in stazione a La Spezia pronto ad essere trasbordato sul treno. Dopo un viaggio, che mi pare interminabile, alle 19:00 arriviamo finalmente alla stazione di Torino, ma non ancora a destinazione, perché il trasbordo tra il treno ed il pullman richiede il suo tempo; comunque dopo un’oretta eccomi varcare il portone del carcere delle "Vallette" di Torino, convinto di potermi rilassare almeno per qualche ora, cosa che non potrebbe essere più lontana dal vero!!! Per poter sbrigare le pratiche di matricola (ufficio che ti identifica, ti fotografa e ti rileva le impronte digitali), magazzino (luogo in cui consegni gli zaini, trattenendoti solo gli indumenti sufficienti a rimanere per il periodo fino alla seguente partenza, e ritiri lenzuola e gavette), visita medica (che di solito è una pura formalità, visto che è difficoltoso farsi dare persino una pastiglia per il mal di testa) e collocazione in qualche sezione che abbia un posto disponibile, ci vogliono, se ti va bene, dalle sei alle sette ore, nel caso specifico alle tre di notte posso ritenere di essere finalmente arrivato a toccare una branda, ma non certo di rimanerci per lungo tempo, perché un’ora dopo devo disfare il letto raccogliere la mia roba e spostarmi in un’altra cella di un’altra sezione fino al mattino di buonora, quando per l’ennesima volta devo ridisfare tutto per essere portato in un’altra sezione ancora (che fino alla mia partenza rimarrà comunque la stessa, e meno male!!!). Sono arrivato di lunedì, e da quello che mi viene detto, dovrei ripartire per Milano San Vittore il venerdì. Il problema, quando si arriva in un carcere di transito, è come far passare i giorni di attesa per andare nel prossimo carcere di transito. Il tempo si dilata, perché non puoi organizzarti, anzi ti manca proprio la volontà di programmarti le giornate, lasci trascorrere le ore, cercando di cogliere le minime opportunità che ti vengono date per uscire dalla cella: ore d’arie, doccia (e basta!!!). L’unico pensiero è di far arrivare il giorno della partenza per potertene andare; le piccole cose che di norma puoi fare facilmente, tipo berti un caffè, mangiare qualcosa che abbia un sapore ed un profumo, avere le sigarette (per uno che fuma), sono traguardi veramente faticosi e molto spesso ardui, perché anche se ti premunisci di fornello e caffettiera, di solito la bomboletta di gas ti viene tolta alla partenza, ragion per cui quando arrivi hai il problema di trovarne una, visto che difficilmente riesci ad avere la spesa prima di ripartire.
Continua il pellegrinaggio da carcere a carcere: Milano San Vittore - Bologna Dozza
Arriva il giorno della partenza (dopo un rinvio di una settimana, causa guasto mezzo ferroviario), alle 10:00 del mattino mi dicono di prepararmi che devo partire, insieme ad altri incomincia il percorso a ritroso; magazzino, matricola, manette, pullman, stazione e treno (tutto il procedimento ha richiesto circa 4 ore), finalmente mi rimetto in viaggio, destinazione Milano, carcere di San Vittore: il processo di avvicinamento riparte. Anche se sono consapevole che devo fare un altro transito, con le relative conseguenze e sbattimenti, in cuor mio sono quasi euforico per essere almeno ripartito. Arriviamo alla stazione di Milano alle 18:30, ma riusciamo ad entrare in cella alle 22:30, dopo intense ed insistenti richieste di accelerare le prassi di rito (vedi primo transito). E qui un’altra delusione: mi comunicano che devo "visitare" anche il carcere di Bologna prima di arrivare a destinazione. Credevo che una volta arrivato a Milano avrei preso la linea per Venezia (la cosiddetta linea Serenissima), ma mi dicono che quella linea la tradotta dei carcerati non la fa più (è stata soppressa da almeno quattro anni). Devo quindi rimanere a San Vittore per tre giorni, con i relativi problemi del carcere precedente, ma amplificati perché il sovraffollamento cronico, la struttura ormai vecchia e l’emergenza continua in cui versa a causa dei lavori di restauro portano ad una situazione di perenne caos. Questa volta l’orario della partenza è per le 4:00 del mattino, o per meglio dire la sveglia, perché di fatto quando parto dalla stazione sono le 8:30, mi sento talmente stanco e assonnato che il tragitto che mi porta a Bologna lo faccio praticamente rannicchiato su me stesso tra la veglia ed il sonno, indifferente a qualsiasi cosa, ho perso qualsiasi interesse al paesaggio, al voler fumare, a richiedere di andare in bagno, lascio che gli eventi mi scivolino addosso, desidero solo arrivare al prossimo carcere, perché so che almeno è l’ultimo. Arrivo a Bologna alle13:00, ma come al solito riesco a toccare la branda solo alle 17:00, e devo rimanere in quel carcere per altri quattro giorni. Il mio stato di sopportazione e di resistenza è ridottissimo, tutto ciò che mi circonda mi dà fastidio. Nonostante io ritenga di avere un carattere socievole e cordiale, trovo difficile perfino comunicare con qualcuno, meno che meno con gli agenti, perché in queste circostanze si tende a scaricare le tensioni sulle persone con le quali hai più contatti conflittuali: una banale richiesta, fare una doccia, cercare di metterti in cella con qualcuno che conosci o che ha la tua stessa destinazione, evitando in questo modo di vedere persone andare e venire, con relativi iniziali convenevoli e così via, diventa un’impresa titanica, perdi lucidità e pazienza, al punto da passare da momenti di totale apatia a momenti di esplosiva aggressività. Finalmente arriva il giorno della partenza, la tradotta Bologna - Venezia fa la fermata a Padova, il carcere in cui ho la destinazione finale, il posto nel quale ho la possibilità di rilassarmi, non tanto perché sia un carcere così diverso dagli altri, ma perché è il posto in cui devo stare per più tempo e quindi posso partecipare alle attività, organizzarmi la cella e renderla, nel suo piccolo, vivibile. La meraviglia è che, nonostante sia un carcere, lo trovi accogliente. L’odissea di questo viaggio mi ha fatto apprezzare una struttura che non è certo definibile, in situazioni normali, ideale, ma che alla luce degli eventi accaduti appare quasi come il ritorno ad Itaca di Ulisse. L’esperienza vissuta mi ha fatto sentire come quegli animali, che trasbordati e stipati su mezzi di trasporto disumani per essere portati alla loro destinazione, mostrano a chi li guarda un’espressione rassegnata e persa che trapela dai loro grandi occhi tristi.
|