Parliamone

 

Il detenuto non può trasformarsi improvvisamente da delinquente a santo

Le misure alternative sono alternative al carcere, non alla pena

 

a cura della Redazione

 

“I detenuti che escono non lo fanno perché sono meno delinquenti di altri. Quelli che delinquono meno è anche perché sono “trattati”; il trattamento implica innanzitutto ascolto e conoscenza approfondita, ma implica anche l’elaborazione di una concreta progettualità condivisa e verificata passo passo “sul campo”. La persona impegnata in un percorso di trattamento non diventa santa, ma meno pericolosa sì, per se stessa e per gli altri”: è questo il punto di vista degli assistenti sociali dell’Ufficio Esecuzione Penale Esterna in un incontro con la redazione di Ristretti.

A pochi mesi dall’indulto, è importante fare un bilancio, e ripartire da tutto quello che forse non ha funzionato molto bene: ha funzionato solo parzialmente, allora, la rete di sostegno delle persone detenute, quella che dovrebbe provare a pensare, per ogni condannato, un percorso “virtuoso”, dal carcere ai primi benefici, al lavoro all’esterno. Ne abbiamo parlato, in redazione, con l’Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Padova, rappresentato dal suo direttore, Leonardo Signorelli, e dalle assistenti sociali Silvia Quartararo, Angela Stocola, Ilaria Bisaglia, Concetta Iuorio, Lucia Zoppello.

 

Ornella Favero: Visto che c’è stato l’indulto, potremmo iniziare da qualche numero attuale sull’area penale esterna di Padova…

Angela Stocola: Ho fatto ieri una rilevazione dei casi attualmente in carico come misure alternative in generale, ed abbiamo 15 affidati casi ordinari e 7 affidati casi particolari, poi abbiamo 5 indultini; noi seguiamo anche i liberi controllati e in questo momento ne abbiamo 11, come detenuti domiciliari invece ne abbiamo 18. Poi abbiamo anche detenuti agli arresti domiciliari, che sono 7, i semiliberi 10, e poi un numero di liberi vigilati – sottoposti a misure di sicurezza di vario tipo – che attualmente è di 27.

 

Elton Kalica (Ristretti Orizzonti): Cos’è cambiato concretamente nel passaggio, con la legge Meduri, dai Cssa agli Uffici per l’Esecuzione Penale Esterna, oltre al nome? Questa questione, in questi giorni, si pone con particolare intensità, perché è in corso una discussione sulla presenza della Polizia penitenziaria negli UEPE, e allora forse il passaggio da Cssa a UEPE è visto in modo molto contrastante dagli operatori stessi, quindi ci interessava sentire la vostra opinione.

 

Ilaria Bisaglia: Sì, in effetti c’è molto dibattito anche all’interno dell’amministrazione rispetto al cambiamento, nel senso che i Centri di Servizio Sociale erano degli uffici composti appunto unicamente da assistenti sociali, e indicavano un po’ una realtà che era quella di inizio della riforma, per cui il tipo di contributo che si chiedeva a questi servizi era fondamentalmente quello di collaborare con gli istituti penitenziari e in secondo piano la gestione delle misure alternative, che però in questi anni sono aumentate moltissimo, sia dal punto di vista numerico, che da un punto di vista qualitativo.

Per un’attività di osservazione all’interno del carcere c’è un’équipe che si occupa appunto di questo intervento, per cui è un’attività svolta da diverse professionalità, mentre l’assistente sociale si trovava ad affrontare l’attività di osservazione all’esterno, che sicuramente ha delle complessità diverse, però non inferiori rispetto all’osservazione di una persona detenuta, assolutamente sola nello svolgere questo tipo di indagini, per cui, col passare del tempo, si sono aggiunte delle esigenze di nuove professionalità, che sono andate ad arricchire gli uffici. Infatti nell’UEPE di Padova è presente da due anni l’esperto psicologo, ma solo da due anni, poi sono presenti dei volontari, sono previste delle collaborazioni con mediatori.

Da un lato quindi c’è stato questo riconoscimento dell’importanza e della complessità dell’area penale esterna – e questo è l’aspetto positivo – mentre l’aspetto dubbio, critico, una forte criticità che noi come operatori sociali abbiamo sempre evidenziato, è il fatto che la parola sociale sia proprio sparita. Cioè, nella legge Meduri non compare proprio più. Poteva anche essere un Ufficio sociale per l’esecuzione penale esterna, invece, sia nel nome ma anche nella legge stessa, questa attenzione alla parola “sociale” è venuta meno, e quindi il punto di domanda è se sia stata una dimenticanza oppure se di fatto ci sia un’altra volontà.

Adesso è stata avviata una sperimentazione – o meglio si avvierà in alcune regioni, presso alcuni provveditorati – che prevede nuclei di Polizia penitenziaria che come logistica si appoggeranno ai provveditorati e che sostituiranno, o almeno dovrebbero sostituire, le forze dell’ordine nel controllo rispetto alle misure alternative.

 

Silvia Quartararo: Volevo fare una precisazione. Questa sperimentazione non è stata comunque frutto di un lavoro condiviso con gli UEPE, non è stata frutto di un dibattito, per cui ci stiamo trovando di fronte ad una realtà che ci verrà calata dall’alto, ed invece sarebbe stato più opportuno fare diversamente. Molti UEPE sono in agitazione proprio per questo, perché la sperimentazione andrebbe concordata per vedere e definire le modalità dei controlli che questi nuclei di Polizia penitenziaria faranno sulle misure alternative. Comunque, in fondo, l’orientamento globale del nostro ufficio è quello di verificare se c’è una possibilità, un’opportunità migliore rispetto all’attuale situazione, perché i controlli così come vengono fatti oggi dalle forze di polizia, a nostro parere spesso non sono efficaci e rispettosi della persona.

Poi il discorso del controllo, o meglio dell’equivoco tra il controllo dell’assistente sociale e quello invece della polizia, non ce lo poniamo tanto come problema: abbiamo sempre fatto il nostro lavoro, in effetti abbiamo una funzione di controllo, ma il nostro è un controllo ben diverso da quello delle Forze dell’ordine, ed è un controllo che continueremo a fare, mentre la Polizia penitenziaria, invece, sostituirà proprio il controllo che fa attualmente la questura o che fanno i carabinieri. La cosa che sicuramente noi non vogliamo, e speriamo che non accada mai, è che questi nuclei possano essere fisicamente ubicati all’interno degli UEPE. Questo creerebbe un grosso problema, e su questo noi siamo molto in difficoltà, per noi e per la persona che viene ai nostri uffici. Ecco, su questo non è che ancora ci sia molta chiarezza.

 

Leonardo Signorelli: A tale proposito, il fatto che io dirò una cosa e le assistenti sociali ne dicano un’altra, fa capire anche la genuinità di questo incontro, perché non è stato preparato nulla. Io il giorno 12 aprile sono stato convocato a Roma assieme a tutti gli altri direttori degli UEPE, e ci è stato comunicato che il progetto parte solo per tre regioni. Mentre nei paesi piccoli continueranno a fare controlli i carabinieri, i nuclei di Polizia penitenziaria saranno presenti solo nelle città, e saranno direttamente presso gli UEPE, ma ci è stato assicurato che saranno sotto la nostra gestione, che saranno formati, che saranno scelti ad hoc. Il mio problema però è un altro: non è una questione di Polizia penitenziaria, di carabinieri o di questura, non mi interessa chi vada dall’affidato o dal libero vigilato, ma il problema è la “qualità” delle persone. Personalmente credo che in questo momento non ci sarebbe stato bisogno di nessuna Polizia penitenziaria, ma ci sarebbero voluti molti più assistenti sociali, molti più Magistrati di Sorveglianza, e certamente si sarebbero risolti la metà dei problemi carcerari.

Per quanto mi riguarda, ho le idee chiarissime: ossia, le misure alternative sono alternative al carcere, non alla pena. I nostri affidati, a volte, stanno peggio di chi è sottoposto all’articolo 21, il lavoro all’esterno. Io vorrei la gente in libertà. A ben guardare, credo siano pochi quelli che per motivi di sicurezza o per altro devono necessariamente restare in carcere, però la libertà che io intendo è una libertà “condivisa” con la società e, quindi, anche con le vittime. Una “libertà controllatissima”, ma pur sempre libertà e comunque ricca di stimoli di crescita e di proposte nuove. Per un diverso stile di vita.

 

Maurizio Bertani (Ristretti Orizzonti): Ma la gestione di questi controlli a chi sarà concretamente affidata?

 

Leonardo Signorelli: Al direttore e soprattutto all’assistente sociale, che conosce meglio il caso; quindi, a seconda dell’affidato o del libero vigilato, si deciderà come procedere ai controlli e con quali modalità. C’è però da sottolineare un dato di fatto: possono esserci tutti gli ordini di servizio del mondo, ma se un operatore pensa che chi ha commesso un reato debba essere estraneo a qualsiasi convivenza civile, allora nessun ordine di servizio può “educare” colui che deve effettuare il controllo. Nessun ordine di servizio può imporre un atteggiamento, un modo di fare, nemmeno per quanto riguarda il rispetto alla persona: solo una scelta oculata e una attenta, continua formazione possono creare nella presenza della Polizia penitenziaria una ulteriore risorsa e non farlo diventare un eventuale problema disciplinare.

 

Ilaria Bisaglia: Come assistenti sociali non neghiamo la preoccupazione rispetto ad un’ipotesi che rischia di interferire profondamente con la gestione di un ruolo che la stessa legislazione vigente ha concepito come un ruolo di aiuto e di controllo incentrato sul “funzionamento” di una progettualità stabilita e definita da un provvedimento di un Magistrato.

Ancora non è noto se e come concretamente tale proposta verrà attuata; ed anche il fatto che i nuclei di verifica dipendano dalle direzioni degli UEPE non è per niente tranquillizzante, in quanto ci costringerebbe ad “occuparci” in qualche modo anche di aspetti di controllo che non ci competono e che potrebbero stravolgere il nostro approccio e la nostra professionalità.

Volendo vedere comunque alcuni aspetti pratici: ci sono alcune situazioni in cui si è consolidato un buon rapporto di collaborazione con le Forze dell’ordine del territorio, altre al contrario dove questa collaborazione non esiste; quindi la situazione è molto frammentata, noi operatori non abbiamo assolutamente voce in capitolo e a volte i controlli sul territorio non tengono conto delle possibili problematiche familiari, lavorative, sanitarie della persona in espiazione penale.

C’è una direttiva emanata a tutte le Forze dell’ordine, credo dai Tribunali di Sorveglianza, dove si dice che i controlli dovrebbero essere effettuati arrecando il minor danno possibile al contesto in cui la persona è inserita, quindi vuol dire che non c’è solo la persona in espiazione pena, ma c’è tutta la famiglia, che si sveglia di notte, ogni volta che suona il campanello, e magari dalla strada puntano il faro sul condominio per vedere se sei proprio tu, ti chiamano al megafono chiedendoti di scendere per far vedere i documenti, e in questo caso vi assicuro che la macchina con la scritta Polizia penitenziaria sarebbe il danno minore.

Il problema principale, più che relativo alle future modalità dei controlli, sta nel capire quale è realmente il destino degli UEPE e perché le “riforme” debbano sempre essere calate dall’altro senza considerare i diversi interessi coinvolti, ma è una domanda retorica.

 

Leonardo Signorelli: Nella riunione a cui ho accennato prima, il Direttore Generale dell’area penale esterna, Riccardo Turrini Vita, e poi anche il capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Ettore Ferrara, hanno fatto un discorso chiarissimo: “Signori, vedremo di mandare quello che serve, ma le aree penali esterne saranno fortemente ampliate”. Questo chiaramente mi fa piacere, perché se si pensa all’area penale esterna è per la ragione che probabilmente si pensa davvero a come diminuire i detenuti in carcere. Una cosa invece negativa, o almeno che io reputo negativa ma poi ognuno la pensa come vuole, sono i dati riportati sul dopo indulto: con l’atto di clemenza sono uscite 25mila persone, ma quello che un po’ mi spaventa è che hanno detto che sono rientrati solo il 12 per cento di coloro che hanno fruito dell’indulto, e il solo è fatto da tremila persone, che in pratica sono sei carceri come questo di Padova. Allora io mi chiedo: non si poteva pensare a qualcosa di diverso? perché l’indulto così com’è stato fatto – ovviamente parlo a livello personale – rischia di essere un’ulteriore offesa alla vittima, ed è un’offesa anche al detenuto: non si può infatti far uscire improvvisamente dal carcere una persona che non ha casa, che non ha lavoro, che non ha nulla. Per me se invece dell’indulto i detenuti fossero usciti in misura alternativa, quindi con un progetto ben delineato provvisto dei necessari supporti, sarebbe stato molto meglio per tutti.

 

Ornella Favero: Ma il problema, il nodo, è che dal carcere non si ottiene facilmente la misura alternativa. C’erano 17-18mila persone in carcere con pene esigue, e anch’io sarei stata contro l’indulto se avessi visto un modo per far uscire le persone diverso, ma in quel periodo non si poteva fare diversamente, credo, anche per la situazione politica. Certo lo sportello SOS indulto che abbiamo gestito noi con il Comune di Padova non è stato risolutivo, abbiamo soltanto gestito l’emergenza di quei giorni, dove centinaia di persone si sono ritrovate improvvisamente in strada senza un posto dove andare né le risorse economiche per sostenersi.

 

Leonardo Signorelli: Secondo me bisogna lavorare da subito con chi è nelle condizioni ideali per poter “prendersi carico della sua persona” da solo, uscire e vivere all’esterno, quindi espiare la sua pena in affidamento. Per carità, i detenuti devono essere trattati tutti allo stesso modo, ma se Ornella Favero, detenuta, ha una sorella che le dà da mangiare e bere e dormire e lavorare, e Signorelli invece ha un fratello che non gli dà niente di tutto ciò, a parità di condizioni la Favero dobbiamo farla uscire immediatamente dal carcere. Di Signorelli certamente ci dobbiamo poi occupare: Signorelli rimarrà qualche mese in più, il tempo per risolvere anche la sua, di situazione, ma la Favero dobbiamo farla sparire subito da qui. Perché il carcere produce delinquenza e produce sofferenza anche economica.

Le persone che possono uscire devono poterlo fare il prima possibile. Questo a Roma ce lo siamo detti tutti quanti: le carceri continuano ad essere strapiene, peraltro di poveri disgraziati. Se la loro situazione non ha alcuna criticità all’esterno, perché restano in carcere? Una società che si ritiene civile dovrebbe tentare di rispondere. Sulla libertà “preparata” è chiaro che chi decide è il Magistrato o il Tribunale di Sorveglianza, ma chi raccoglie gli elementi perché il Magistrato o il Tribunale possa decidere con maggior cognizione di causa, siamo noi, sono le nostre relazioni. Spetta agli operatori del trattamento produrre trattamento, al Magistrato di Sorveglianza quello di validarlo.

 

Ornella Favero: Su questo sarei naturalmente d’accordo, ma purtroppo non succede sempre, anzi... Ci sono Tribunali di Sorveglianza in cui i pareri della direzione del carcere, degli assistenti sociali, degli operatori, sono quasi regolarmente ignorati, ed è interessante infatti discutere di quanto conta, nella decisione sulle misure alternative, il punto di vista degli operatori e quello che producono come indagine il carcere e l’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna”.

 

Leonardo Signorelli: L’Ufficio Esecuzione Penale Esterna esprime il parere, e spesso dalla relazione il parere si evince solo forzosamente, mentre io sostengo che bisogna sempre esprimerlo chiaramente. Vi assicuro – ed era un mio convincimento quando ancora lavoravo in carcere – che da direttore chiedo che venga espresso chiaramente il giudizio positivo o negativo sul comportamento della persona della quale si va a relazionare. Se il parere non può essere espresso bisogna saper attendere e continuare, però, ad offrire delle possibilità trattamentali, tipo brevi permessi, per poter tentare di emettere un parere prognostico compiuto.

A tale riguardo vorrei sottolineare un mio forte convincimento: io sostengo che ciò che più importa ai fini di un giudizio positivo, che favorisca le aspettative di un reale inserimento sociale, è che una persona deve iniziare un cammino, che poi da uno a 100 arrivi a 10 è un altro conto, ma almeno ha iniziato un cammino. Ci sono spesso invece coloro che sostengono, e ne sono convinti, che il detenuto debba trasformarsi da delinquente a santo. No, non esiste questo concetto, altrimenti ci porto anche mio figlio qui dentro, e fatelo diventare santo. Il detenuto deve iniziare un cammino, che poi deve continuare in società, ma ci vuole tempo. Su queste opinioni ci confrontiamo con i Magistrati, con i quali abbiamo un buon rapporto. Ogni operatore telefona liberamente al Magistrato, discute tranquillamente, e questo è importante, perché dal dialogo deriva certamente ricchezza. è proprio la diversità di formazione e di ruoli che permette che tutti possiamo essere “educati”: l’educazione è sempre una cosa a due, non è mai monolitica, allora il Magistrato educa me e anch’io posso educare il Magistrato.

 

Silvia Quartararo: Certo, anche qui a Padova basta che cambi un Magistrato e la situazione rischia di non essere più la stessa. Comunque è anche vero che un rapporto di fiducia si costruisce, con i Magistrati. Nel momento in cui, anche solo per una volta, menti al Magistrato, ti sei fregata per tutto il resto della tua carriera. Le sacche di silenzio, di bugie, non possono dare fiducia al Magistrato. Noi siamo sempre stati molto leali nel rapporto con loro, ne abbiamo sempre chiesto la collaborazione, quindi, voglio dire, anche se ci sono stati magistrati meno aperti di quelli attuali, comunque ci hanno sempre ascoltato.

 

Leonardo Signorelli: Mi è capitato che qualcuno mi abbia chiesto di nascondere determinati fatti, e mi sono indignato molto (in verità avrei usato un termine certo più forte). Piuttosto mi è successo di alzarmi alle cinque del mattino per scrivere due pagine e mandarle al direttore del carcere e al Magistrato, raggiungendo il risultato che non venisse revocata la misura alternativa. Salvata per i capelli, ma la persona è rimasta fuori. Questo perché sia chiaro: non possiamo assolutamente dire bugie. Se io, infatti, non imposto un rapporto di fiducia con il Magistrato, perché poi lo stesso Magistrato dovrebbe avere fiducia quando dico che un detenuto può uscire perché la situazione è favorevole?

 

Elton Kalica: Da tempo diciamo che in Italia l’applicazione delle misure alternative è un po’ a macchia di leopardo, nel senso che ci sono città come Padova, Roma o Firenze, in cui le misure vengono concesse con una certa regolarità, mentre ci sono altre regioni o altre città in cui non vengono applicate quasi per nulla, nel senso che i detenuti hanno accesso alle misure soltanto quando mancano oramai pochi mesi al fine pena. Probabilmente se a Padova concedono i benefici è anche merito vostro, perché avete creato questo rapporto di fiducia con i Magistrati di Sorveglianza, quindi vi siete conquistati la credibilità nel tempo, ma sinceramente non credo che se in un determinato Tribunale non vengono prese in considerazione le sintesi, le osservazioni trattamentali che vengono redatte dal carcere, ciò dipenda dalla mancanza di fiducia verso l’operatore…

 

Leonardo Signorelli: Certo che ci saranno sempre Magistrati convinti che i detenuti devono stare in carcere, ma pian piano le cose possono cambiare. Ad esempio un pedofilo, che cosa ci sta a fare in carcere? Un pedofilo messo assieme ad altri pedofili, cosa ci sta a fare qui dentro? La punizione, certo, ma la punizione senza un “trattamento” non ha nessunissimo significato. Dice un proverbio africano: “Le botte fanno male alle ossa, non ai difetti”.

Il problema è un altro: a me piace tantissimo Alessandro Margara, di lui ho letto quasi tutto, concordo con le sue osservazioni, dice delle cose bellissime. Ad un convegno però mi interesserebbe sentire anche quello che ritenete il peggiore dei Magistrati di Sorveglianza. Perché anche il convegno educa, ed io ad un convegno vorrei poter dissentire, poter dire a quel Magistrato che probabilmente ha delle ragioni, ma anche ribadirgli che le ricerche sulla recidiva parlano chiaro, ed è una grande “balla” che magari i nostri detenuti escono perché sono meno delinquenti, sono meno pericolosi. Semplicemente, i nostri delinquono meno perché sono “trattati”, e sono convinto che se uno viene “trattato”…, quindi se vengono ascoltati i suoi bisogni, se vengono rispettati i suoi tempi di crescita, se gli vengono offerte minime possibilità di potersi spendere seriamente, la persona diventa meno pericolosa per se stessa e per gli altri.

Noi abbiamo intenzione di far muovere lo sportello informativo già esistente all’UEPE, e cioè vogliamo che arrivi fino ai piccoli Comuni per spiegare agli assessori che il carcere costa, che crea sofferenza economica – non parlo di quella umana perché potrebbe anche non interessare – e queste secondo me sono le armi vincenti. Tutto questo serve a chiudere quel cerchio secondo il quale le persone devono uscire, sempre se è tutto a posto…

 

Ornella Favero: Prima avete detto che all’interno dell’UEPE ci sono delle figure nuove, vorremmo sottoporvi una questione che riguarda non solo le persone in affidamento, ma anche quelle che lavorano all’esterno in articolo 21. Allora, analizzando le situazioni di questi anni, e anche il perché di certe revoche dell’articolo 21, ci siamo resi conto che la fase più delicata, che è il passaggio tra il dentro e il fuori, paradossalmente è la fase in cui spesso le persone vengono lasciate a se stesse, con l’idea che in fondo “basta il lavoro”… Ci chiedevamo se non sarebbe utile una sperimentazione per le persone che escono in misura alternativa, in particolare per quelle che escono in articolo 21: che, quando mettono un piede fuori, siano seguite dagli psicologi dell’UEPE.

 

Leonardo Signorelli: Io credo che l’idea sia più che buona. Il problema è che noi abbiamo uno psicologo a 27 ore al mese: che ci fai? Però potremmo trovare un accordo, soprattutto per quelli che sono di Padova, con i consultori, con la comunità di servizio. Certo che ad esempio anche con il Comune ci sono comunque delle difficoltà, recentemente non siamo stati presenti al Consiglio comunale proprio per far capire che non c’è solo il carcere, e che noi rappresentiamo l’esecuzione penale esterna, che ha superato il carcere. Ripenso ancora a quello che hanno detto a Roma quando hanno parlato di solo tremila persone che sono rientrate in carcere dopo l’indulto, e a tale proposito sarebbe da capire chi sono le persone che sono rientrate e quelle che invece sono riuscite a restare fuori, perché il nodo è proprio questo: dove non ci sono le condizioni di accoglimento, il rischio di fallimento è maggiore… È chiaro che essendo il nostro ufficio competente per il territorio di Padova, Rovigo e parte di Vicenza sono chiamati in causa tutti i Comuni afferenti a questi territori. Non solo, dunque, il Comune di Padova, il quale da solo non può essere chiamato a risolvere i problemi di altri territori, cosa che invece molto spesso avviene.

 

Ornella Favero: Noi pensiamo però che la presa in carico debba essere davvero complessiva, anche perché ho visto tante storie in cui c’è la mitica famiglia ideale, che però poi scoppia. Ricordo in particolare la vicenda di una donna detenuta alla Giudecca: finché i figli erano affidati alla sorella e alla madre, sembrava andasse tutto benissimo, ma quando lei è tornata a casa è stata una difficoltà continua: appena apriva bocca, la rimproveravano per tutto, non le davano tregua, non le riconoscevano più nessuna autorità con i figli, per cui questo discorso della presa in carico è da discutere veramente con attenzione su tutti i fronti.

 

Ilaria Bisaglia: In molte situazioni abbiamo chiaramente visto proprio questa difficoltà del passaggio dal dentro al fuori, e la delicatezza che certe misure più di altre rappresentano, per cui in particolare la questione dell’articolo 21 è veramente di una estrema complessità, nel senso che logicamente una persona esce, ma resta detenuta a tutti gli effetti. Esce esclusivamente per lavorare – anche se adesso, per chi ha una famiglia, sono previsti una serie di contatti – però in un regime estremamente limitato, mentre chiaramente le aspettative scoppiano: uno mette un piede fuori e vorrebbe ben presto metterci anche l’altro. Quindi da un lato c’è, per quel che riguarda il lavoro che facciamo noi, un invito alla calma rispetto a questa aspettativa di recuperare il tempo perduto, di fare cose che non hai potuto fare fino a quel momento per tanto tempo. Perciò si va da problemi estremamente terra a terra, a problemi poi di una ripresa di relazioni con persone o con ambienti esterni, per cui la persona tende a voler fare anche cose che non potrebbe fare: non perché siano illegali, ma non le può fare perché è all’interno di un programma estremamente rigido e limitato. E per chi ha questo vissuto alle spalle, e questa grossa voglia di sperimentarsi all’esterno, a volte queste sono regole incomprensibili. Quindi sono convinta dell’esigenza di seguire più da vicino questi percorsi, con i semiliberi stiamo cominciando anche a pensare ad altre opportunità, che al di là poi dei contenuti sono anche un po’ delle motivazioni per riunirsi, per parlare, per stare comunque all’esterno della sezione, e per riflettere magari su alcune tematiche. Bisognerà farlo anche per le persone in articolo 21, definendo con il carcere delle modalità di base sulle quali lavorare.

 

Silvia Quartararo: Per questo scopo potremmo chiedere un aumento del monte ore della psicologa, perché anch’io ho chiesto il supporto psicologico ad un articolo 21 uscito da poco, ma al momento il carcere mi può proporre soltanto il suo, di psicologo, e mi rendo conto che anche questa è una difficoltà; primo perché il carcere non ha tanti psicologi, e poi perché il detenuto deve restare in istituto per effettuare il colloquio e poi uscire. Forse si potrebbero chiedere altre risorse, ad esempio al Comune, o ai consultori.

 

Marino Occhipinti: Guardate, una richiesta da fare assieme potrebbe essere quella che riguarda un intervento alla Regione Veneto. Mi spiego: in Lombardia, ma anche in Piemonte, le regioni pagano degli operatori, che chiamano agenti di rete, che lavorano in carcere e fungono anche da collegamento tra il dentro ed il fuori, ed affiancano gli operatori dell’Amministrazione penitenziaria, si potrebbe allora avanzare anche qui una richiesta analoga.

Vorremmo poi affrontare un’altra questione: nel vostro pieghevole abbiamo letto del sostegno ai familiari di detenuti. Vi capitano casi rispetto ai quali intervenite concretamente?

 

Leonardo Signorelli: Per legge dovremmo intervenire, in realtà interveniamo soltanto su alcuni casi eclatanti. L’operatore ha un potere enorme, perché non lavora solamente con un senso, ma lavora con tutti i cinque sensi, cioè anche con le orecchie, con gli occhi, perché deve poter cogliere tutti i problemi. Certo che se i problemi non vengono esplicitati, cioè se il detenuto non mi spiega in quali difficoltà si trova la sua famiglia, io non posso saperlo. D’Altra parte se un operatore trova una persona “rabbiosa”, può immaginare che ci siano delle difficoltà, ma se fa finta di non capire, di non comprendere la situazione, la storia finisce là. È molto una questione di capacità e di sensibilità nostra: perché voi non vi fidate, perché noi rappresentiamo l’istituzione… e comunque siamo pochi, miseramente pochi come d’altronde i Magistrati di Sorveglianza. Prima dell’indulto ogni operatore aveva 160 fascicoli, dentro vi erano contenute esistenze da “sprigionare”, ma chi poteva seguirle bene… queste esistenze. Immaginate ora quanti fascicoli erano chiamati a conoscere i due Magistrati di Padova? Fate un po’ il conto e capirete le enormi difficoltà per concedere permessi o benefici.

 

Marino Occhipinti: Non è completamente vero che i detenuti non si fidino, o meglio non bisogna generalizzare, perché in effetti sento che alcune persone non si fidano. Secondo me, invece, certi timori dovremmo abbandonarli, e avere il coraggio di chiedere agli assistenti sociali di “intervenire”, se ce n’è bisogno, anche rispetto alle nostre famiglie, poi certamente è sempre una cosa soggettiva, nel senso che non tutti i detenuti sono uguali come non tutti gli assistenti sociali sono uguali.

 

Silvia Quartararo: Proprio ieri mi ha chiamato un ex detenuto, uscito in agosto con l’indulto, per una problematica familiare che io conoscevo perché l’avevo seguito in istituto, e mi ha chiesto di intervenire. Se possiamo renderci utili, in raccordo con i servizi sociali esterni, lo facciamo sia durante la detenzione che quando le persone sono in misura alternativa, ovviamente nel momento in cui c’è una richiesta esplicita.

 

Ornella Favero: Sappiamo che avete avuto un rapporto di scambio professionale con la Svezia, e ci interessava un aspetto preciso, e cioè la riconsiderazione, la rivalutazione della pena dopo un certo numero di anni di carcere. Nel sistema penale svedese, mi pare che il massimo della pena in termini di galera sia di dieci anni, e siccome in Italia è in corso la riforma del Codice penale, ci piacerebbe capire meglio come funziona lì.

 

Leonardo Signorelli: Su otto milioni di persone, la Svezia produce duemila detenuti a tempo pieno nelle carceri, tutto il resto è affidato al social worker. In Svezia, però, i social worker sono degli assistenti sociali, i quali se c’è bisogno dello psicologo si rivolgono allo psicologo, se c’è bisogno del criminologo si rivolgono al criminologo o all’educatore e così via. La Svezia è piena di assistenti sociali, si dice che in ogni quartiere ce n’è uno, è per questo che… però tutta la gente è fuori, è tutto sotto controllo. La recidiva è bassissima e ci sono soltanto questi duemila detenuti fortemente pericolosi, però la Svezia ha anche un’altra cultura: mi ricordo un sentiero, in campagna, con una natura stupenda, e una macchinetta con la scritta che avvisa che da quel punto in poi bisogna pagare il biglietto. Non c’era nessuno a controllare, e solo gli italiani non lo pagavano, mentre gli svedesi sì. Ci sono negozi dove si può entrare, comprare e lasciare i soldi, perché non c’è nessuno, questo per dire che la Svezia ha una cultura ben diversa da quella italiana, ha un sociale di tutto rispetto, che è proprio entrato dentro le coscienze delle persone.

 

Ornella Favero: Però questa idea di riconsiderare la pena credo che sarebbe valida anche in un sistema penale con tutti i difetti come il nostro, perché quando uno è in una misura alternativa, che dovrebbe magari portare avanti per anni, non è facile reggere.

 

Leonardo Signorelli: Ma se ci fosse quello che la legge prevede, e cioè il programma individuale, la situazione sarebbe differente. Il problema è che ci sono pochi educatori, pochi operatori in generale, non ci sono differenziazioni tra i vari detenuti, e questo non è nemmeno giusto. Se una persona ha ancora 10-15 anni da fare, dipende da come glieli fai fare. Ci si potrebbe inventare di tutto, solo che dovremmo essere molti di più, coinvolgendo ovviamente anche gli enti locali.

 

Ornella Favero: Riguardo invece allo Sp.in, il vostro sportello informativo, cos’ha funzionato e cosa invece non è andato bene? Che prospettive ci sono e cosa si potrebbe fare per farlo funzionare meglio? Il fatto è che vorremmo proporvi una collaborazione perché anche noi stiamo lavorando per uno sportello tra il dentro e il fuori, che sia giuridico e anche un po’ di segretariato sociale, e volevamo lavorare assieme a voi per costruire questa prospettiva, e cioè che una persona sappia a chi rivolgersi per tutte le necessità, che non debba chiedere il piacere al singolo volontario o simili.

 

Ilaria Bisaglia: Noi abbiamo avviato questa esperienza tre anni fa. Il primo è stato un anno dedicato alla formazione, quindi è stato realizzato un corso, al termine del quale circa 12-15 persone hanno avviato l’esperienza all’interno del nostro ufficio. Un’esperienza sperimentale, per cui c’era la presenza dei volontari in alcuni giorni stabiliti, poi c’è stato l’indulto e non c’erano più persone che accedevano allo sportello, pertanto adesso stiamo avviando dei progetti per cercare di migliorare la qualità del servizio che possiamo offrire.

Il progetto principale è quello che abbiamo chiamato “Spazio-lavoro”, ed è un progetto che prevede la ricerca di risorse lavorative, che permettano di qualificare maggiormente i percorsi di reinserimento sociale, perché prima ci trovavamo, nella progettazione delle misure alternative, a dover ricorrere sempre a quelle pochissime realtà sul territorio, che poi sono le poche cooperative uniche disponibili ad accogliere le persone in misura alternativa, che possono offrire alla persona un inserimento lavorativo a volte estremamente scarso in termini di numero di ore e quindi anche di remunerazione economica. Può essere anche un passaggio necessario, ma sicuramente non c’è la realtà che consente alla persona di sperimentarsi in un ruolo sociale diverso, per cui abbiamo approfittato anche dell’avvio di un progetto all’interno di quasi tutti gli UEPE in Italia, che è il progetto di inserimento di volontari in servizio civile, per organizzare con loro un’ipotesi di lavoro per allacciare delle relazioni con associazioni di categorie, di cooperative, di imprenditori, proprio per riuscire a trovare dei canali che migliorino la ricerca lavorativa. Abbiamo quindi bisogno di uno sportello che non sia più soltanto informativo, anche perché, almeno in questo momento, non c’è più nessuno a cui dare informazioni, quindi abbiamo bisogno di volontari che si coordinino con gli altri operatori dell’ufficio proprio per fare un’attività di sensibilizzazione sul territorio alla ricerca di nuove risorse.

Probabilmente quindi serve anche una maggiore flessibilità dello sportello e un suo inserimento all’interno di progetti che stanno già funzionando. Questo è un aspetto, mentre l’altro è quello che diceva prima il direttore, di portare lo Sp.in sul territorio. In questo periodo siamo completamente proiettati sul territorio, nel senso che vogliamo stabilire modalità di collaborazione con i vari servizi, con le varie realtà lavorative, anche con le associazioni di volontariato, per reperire risorse più qualificate in modo tale da poter anche proporre alla persona in misura alternativa delle soluzioni più diversificate e di qualità.

E nel nostro lavoro, quando si parla di qualità, uno degli elementi di valutazione non è soltanto che una persona sia in qualche modo riuscita ad arrivare a fine pena, ma bisogna vedere come ci è arrivata, nel senso che se arriva alla fine dell’affidamento con una situazione che la soddisfa, questa persona probabilmente avrà anche un interesse a mantenere questa condizione, e quindi a non tornare indietro rispetto agli obiettivi che ha raggiunto. Se invece la persona arriva a fine affidamento con un lavoro per niente qualificato, con una realtà sua sociale che non lo soddisfa, con delle relazioni che di fatto non gli fanno sentire la convenienza a difendere quello che a fatica ha conquistato, probabilmente sarà forte la tentazione di dire: “Beh, io qui guadagno 1.000 euro, se ritorno a spacciare li guadagno in un giorno”. Quindi ovviamente, quello che stiamo cercando di fare noi, un po’ tutti quelli che lavoriamo all’interno dell’UEPE, è di cercare di attivare delle risorse che consentano alla persona che si sperimenta in un percorso esterno, di raggiungere degli obiettivi più qualificanti e più soddisfacenti.

 

Leonardo Signorelli: Bisogna comunque mettersi in testa che le persone, anche se hanno commesso reati, non devono necessariamente stare in carcere, almeno quando ci sono le condizioni perché stiano fuori. Io ho delle proposte: la prima è quella di fare una Casa per la semilibertà fuori, magari chiedendo al Comune di Padova di darci una scuola elementare inutilizzata per collocare la sezione semiliberi fuori dal circuito carcerario, e tramite i detenuti in articolo 21 o in attività riparatoria potremmo sistemare la struttura. Poi bisognerebbe lasciare l’attuale sezione semiliberi esclusivamente per gli articoli 21. Credo che la sensibilità del Direttore, dell’assessore alle Politiche Sociali e quella dei Capi, iniziando dal Provveditore, concorderebbe se la proposta venisse presentata in forma “trattamentalmente” seria ed onesta. La seconda proposta è quella di farsi carico dei sex offender; se si lasciano soli fra di loro non si fa che aumentare la loro perversione. Non mi guardate male, però vi assicuro – e mi sono letto un po’ di letteratura in merito – che o si “castrano” oppure si tenta un programma trattamentale. Un progetto dovrebbe prevedere di creare uno spazio, che io chiamo una specie di camera iperbarica, dove tutte le paure del detenuto possano essere “trattate”, per riconsegnarlo al fuori con un dentro senza paure; perché abbiamo casi di persone che non vogliono in nessun modo uscire dal carcere proprio per il timore di commettere altri reati del genere. L’unica certezza è che per loro, soprattutto per loro, il carcere non serve assolutamente a nulla.

Io non voglio abbattere l’idea del carcere per buonismo, ma perché in certi casi il carcere non serve, e questo non vuol dire che sul territorio le persone che escono in misura alternativa se la spassano, perché se vengono a fare l’affidamento con noi, sarà “trattamentalmente” molto duro.

Il parere del Magistrato di Sorveglianza sul controllo delle persone in misura alternativa

Una funzione di controllo e aiuto nelle misure alternative

 

di Maria Rosaria Parruti

Magistrato di Sorveglianza di Pescara

 

Nei confronti di una persona in misura alternativa, che fatichi a trovare un equilibrio nel proprio comportamento, l’aiuto offerto dall’assistente sociale non può fare a meno di comprendere anche il controllo, che va esercitato, analizzando proprio le eventuali difficoltà a rispettare le prescrizioni.

Ci si potrebbe porre questa domanda: l’assistente sociale che tratta il caso, ad esempio, del singolo affidato, può esercitare contemporaneamente la funzione di controllo ed aiuto che il mandato istituzionale rimette alla sua competenza, ovvero l’assolvimento delle funzioni di solo aiuto gli impedisce una qualsiasi azione di controllo? La distinzione delle due funzioni in realtà riflette un modo astratto di considerare il problema: infatti, se si ha riguardo alla pratica operativa, risulta evidente che nei confronti di una persona che sia in difficoltà nell’esercitare un controllo efficiente sul proprio comportamento, (e che quindi va aiutata in primis nel rispetto delle prescrizioni, o meglio, a partire dal rispetto delle prescrizioni dettategli come condizione di libertà), l’aiuto offerto non può fare a meno di comprendere anche la verifica delle difficoltà che la persona ha in rapporto agli obblighi di comportamento assunti, e la valutazione dei problemi che vi sono connessi.

La prescrizione ed il suo controllo diventa occasione di approfondimento e di conoscenza del caso. Nel momento, cioè, in cui l’assistente sociale controlla qualcuno non può non farlo alla luce di quello che lui stesso è, e dunque analizzando le eventuali difficoltà a rispettare gli obblighi, fornendo dunque, in questo, la sua professionalità specifica.

Ciò che conta dunque, è che tale controllo non si esaurisca nella contestazione dell’infrazione eventualmente commessa, ma rappresenti il punto di avvio o comunque una tappa di un percorso diretto a sostenere il condannato nel rispetto della realtà che lo riguarda e nella ricerca delle soluzioni più adatte.

Si comprende bene come in questa azione l’assistente sociale svolge un ruolo di grande significato (controllo è anche quello di polizia, ma dai contenuti tutti diversi) non solo per i contenuti tecnici che assicura nel corso del trattamento, ma anche per la possibilità che ha di comunicare una considerazione positiva nei confronti del condannato e delle sue capacità di “rilancio”, sempre che questi affronti il programma trattamentale con autentica accettazione e rispetto.

A questo punto è bene tener presente la norma principe dell’esecuzione penale e cioè l’articolo 27 della Costituzione, cui le singole misure vogliono dare attuazione, laddove chiarisce che le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato”. La pena nel comune sentire, e spesso dagli stessi operatori penitenziari è vista come qualcosa di assolutamente e radicalmente negativo, nel quale non c’è nulla di positivo che vada salvato. La funzione della pena invece, nel nostro sistema non è pura retribuzione, non si esaurisce nel puro controbilanciamento di una colpa, ma deve tendere a mettere in moto la libertà del colpevole.

La norma usa il verbo “tendere”, proprio perché la rieducazione non ha nulla di automatico, passa attraverso la libera decisione del colpevole ed è un percorso consapevole che il condannato, se vuole, deve accettare ad al quale deve partecipare con tutta la sua libertà.

Si parla a proposito dei Magistrati di Sorveglianza di giudici che lavorano su una scommessa sul futuro… proprio perché c’è dentro, è in ballo tutto il rischio della libertà del condannato (capite che quando si parla di libertà è non soltanto di movimento, ma anche di scelta).

 

La persona non è mai tutta nei gesti che compie, buoni o cattivi che siano

 

A questa funzione della pena occorre, però, educare anche la società che spesso vede la sanzione come una giusta vendetta da applicare al colpevole, poiché non dobbiamo mai dimenticare, come è stato autorevolmente detto (da Silvia Giacomoni), che il carcere, e dunque la pena, è pena per certi gesti compiuti che non andavano compiuti, ma la persona non è mai tutta nei gesti che compie, buoni o cattivi che siano.

Occorre comprendere noi stessi e far comprendere poi alla società civile che questa attenzione al cambiamento ed all’emenda del colpevole non è solo nell’interesse del colpevole, ma è un’attenzione al bene comune, perché la società rieducando recupera un membro alla vita sociale, evitando così ulteriori devianze e costi futuri. E questo è bene anche per la persona offesa, che nella solidarietà sociale e nel recupero del condannato può trovare solo ed adeguato risarcimento anche in termini di sicurezza sociale.

Fallace dunque è in questo senso la contrapposizione tra rieducazione e prevenzione (la tutela del colpevole non è altra cosa rispetto alla tutela della vittima e della società intera): di solito pensiamo che il creditore dell’obbligo rieducativo sia il soggetto che ha commesso il reato, mentre il creditore principale dell’attività rieducativa è proprio la società, poiché dall’attività di rieducazione, seria effettiva ed adeguata, trarrà il beneficio della diminuzione del crimine.

 

Nel tempo si sono succedute disposizioni che hanno esteso la possibilità di accesso a misure extramurarie (proprio in attuazione di questa tendenza a negare l’afflittività della pena e ad uscire dal carcere): basti pensare alla legge Simeone, che già dal 1998 ha previsto che salvo il caso dei delitti più gravi e delle pene superiori a tre anni, la pena vada sospesa.

Disposizione in tal senso è stato il cosiddetto “indultino” previsto dalla legge 207 del 2003, così come la legge numero 49 del 2006 che ha previsto che il Magistrato di Sorveglianza possa concedere la sospensione della pena e l’affidamento in prova al servizio sociale in casi particolari a coloro che sono detenuti, prima e nelle more del giudizio innanzi al Tribunale di Sorveglianza, allargando peraltro la possibilità di concessione della misura di cui all’art. 94 d.p.r. 309/90 anche a coloro che hanno un residuo pena di anni sei di reclusione per i reati cosiddetti non ostativi, da ultimo nella stessa direzione è l’indulto concesso con legge n. 241 del 2006. Il problema però non è tanto uscire a tutti i costi dal carcere, ma è comprendere cosa è il carcere stesso e la sua funzione.

Dopo aver passato un po’ di ore in carcere o comunque a contatto con chi ha una pena da scontare, ci si rende conto che occorre in questo percorso, innanzitutto, che il colpevole sia aiutato ad una presa di coscienza della colpa commessa, poiché è invece normale sentire l’accaduto, il crimine commesso e la stessa espiazione come un’ingiustizia subita da parte di altri (vittima del reato, giudice, operatori penitenziari, vita stessa).

Invece, solo la presa di coscienza della colpa può far rendere conto dell’errore commesso e della necessità di un cambiamento (lo si scorge in tutti coloro che si sono “rieducati”), e dunque disporre ad un’espiazione che sia percepita come tempo nel quale recuperare quanto con il crimine si è rotto o incrinato.

Ed in secondo luogo, per dare vita e concretezza al nostro concetto di rieducazione, occorre accompagnare il condannato nel recupero dei suoi affetti e della sua capacità di impegnarsi attraverso il lavoro, peraltro così scarso e difficile da reperire, così da poter ritrovare il gusto di interagire con la realtà (tutte le attività di cosiddetto reinserimento sono volte a questo).

Non dimentichiamo, infatti, che chi ha commesso un reato, sia contro il patrimonio che contro la persona, ha violato il rapporto corretto con il reale, e che dunque deve essere aiutato a vivere, per un vero recupero e reinserimento nel tessuto sociale.

Dico queste cose, proprio perché è importante che coloro che entrano a contatto con il condannato (operatori penitenziari o assistenti sociali o magistrati) concorrano nel favorire questa accettazione in primo luogo, della colpa commessa e dunque della giustizia dell’espiazione per una vera riappropriazione del reale e del suo senso. Rieducazione dunque, come presa di coscienza della assoluta necessità del cambiamento. Centrale è perciò la necessità che il condannato incontri persone positive, impegnate nel loro ambito.

A questo fine, rispondendo alla domanda che ci siamo fatti, anzi appare a dir poco opportuno che le funzioni di controllo ed aiuto siano svolte in modo integrato da un unico operatore, poiché solo in un processo unitario del genere, il condannato può sperimentare come l’autorità che esercita il controllo non lo svolga in modo repressivo e formale, ma dimostrando nei fatti l’intenzione di fornire un aiuto di fronte alle difficoltà incontrate, a cominciare da quelle che sono determinate da una inadeguata capacità di autocontrollo rispetto alle prescrizioni da osservare.

L’attività di controllo dunque, non è mera rilevazione e contestazione dell’infrazione, ma costituisce anche un’occasione per vedersi in azione, e cercare possibili soluzioni, rispetto alle quali il condannato è chiamato ad assumere un atteggiamento costruttivo.

 

 

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