|
Spaventato tra le ombre del passato e le incertezze del futuro Una società che crede poco nel cambiamento e quindi nella conseguente offerta di una possibilità di riscatto, e che a volte dà più attenzione agli animali che non ai detenuti
di Altin Demiri
Buttato sulla mia branda ascolto una musicassetta albanese, le cui canzoni mi riportano indietro nel tempo. Mi ricordano la mia gioventù, il mio Paese, gli anni belli della mia vita, rivedo la libertà di una volta, e soprattutto mi torna in mente la mia ex ragazza, che amavo profondamente. Questa musicassetta è per me la cosa più preziosa del mondo in questo luogo, e la custodisco molto gelosamente. La ragione di questo mio attaccamento sta nel fatto che questa cassetta mi ricorda proprio quel passato del quale vado fiero, contrariamente ad un’altra parte del mio passato – che mi ha anche portato qui – di cui mi vergogno e che vorrei seppellire, nascondere per sempre agli occhi di tutti. Mi trovo solo, circondato dall’indifferenza, in un Paese straniero, lontano dai miei affetti e dal contatto con mia madre, che non vedo da 12 anni, e lontano da tutti gli altri miei familiari, che soffrono quasi quanto me la mia detenzione. Oltre a qualche rara lettera ed alla voce di mia madre quando telefono, l’unico affetto che mi è rimasto è questa musicassetta, questi brani che nonostante tutto mi fanno ancora sognare… e che oggi mi fanno anche provare tanta nostalgia e rabbia. Mi chiedo cosa ci faccio in questo posto, soffro e sopporto, ed allo stesso tempo – è questa la sensazione peggiore – avverto tanta ansia anche nei confronti del futuro, e la rabbia che provo è tutta contro me stesso. Mi guardo attorno e vedo soltanto solitudine. Detenuti italiani e stranieri uniti nella stessa sorte, quasi nelle medesime condizioni, a cullarci di illusioni di un futuro migliore. Illusioni perché il mio futuro, e anche quello di molti altri come me, è solo un miraggio: certo a causa del nostro passato, e di quello che abbiamo fatto. In carcere si parla spesso del dopo-carcere, desideriamo che la società ci ascolti e ci interroghiamo sulle possibilità che avremo una volta espiata la pena che ci è stata inflitta: avremo delle occasioni vere per rifarci una vita? La società ci accoglierà nuovamente? Cosa potremo fare? Molto spesso, purtroppo, nessuno trova una risposta. Il rifiuto, l’indifferenza, i pregiudizi, ci spaventano.
La società di oggi non crede più che una persona detenuta possa cambiare
Sono in tanti a pensare che chi ha sbagliato deve pagare fino all’ultimo giorno con la galera. Se uno chiede alle persone regolari se sono d’accordo che un detenuto esca dal carcere prima del fine pena per stare un po’ con la famiglia o per cercare un lavoro, probabilmente si sentirà rispondere di no! Posso capire il rancore e la diffidenza che la società ha verso chi ha sbagliato. Ma oltre il sentimento umano contrario al nostro reinserimento, ci sono alcune leggi che ogni tanto vengono emanate che tendono a tagliarci sempre di più la strada: forse, invece, sarebbe più conveniente per tutti che ci venisse tesa una mano, che si cercasse il dialogo, anziché isolarci dal resto del mondo e basta. Non è mia intenzione tenere una lezione sui valori, sulla storia, né tantomeno giudicare nessuno, perché sono il meno indicato a farlo, ma credo che la permanenza in carcere mi abbia almeno rafforzato alcuni valori come il senso della vita, il perdono, e anche la sofferenza. Parimenti, invece, ho la sensazione che la società di oggi sia scesa così in basso da non credere più che una persona detenuta, un essere umano che ha sbagliato, possa cambiare. Che si tratti di stranieri o di cittadini italiani poco importa, ma se non si crede nel cambiamento e quindi nella conseguente offerta di una possibilità di riscatto, di una seconda opportunità, allora mi si perdoni l’espressione ma siamo tutti nella merda, perché vedo che a volte si dà più attenzione agli animali che non ai detenuti. Nulla contro di loro, anzi li amo, ma ho l’impressione che ci siano più associazioni in difesa degli animali che non delle persone recluse, e ciò dice tutto. Inoltre non dimentichiamoci che è proprio dai grandi errori che si impara, e la storia dell’umanità è densa di errori e di cambiamenti. Gli inglesi e gli spagnoli hanno sterminato gli indio per conquistare le Americhe; l’impero romano ha conquistato mezzo mondo con il sangue, per finire con le guerre mondiali. Eppure, anche se ne ricordiamo le atrocità e gli orrori, giustamente non continuiamo a giudicare i popoli e le persone in base al loro passato, mentre invece io, e con me tutte le persone che siamo o che sono state in carcere, continuiamo, anche a distanza di moltissimi anni, ad essere considerati per quello che abbiamo fatto e basta. Ma perché, mi chiedo, una persona non viene valutata anche per ciò che è il suo presente? Il passato non si deve dimenticare, e va bene sono d’accordo, ma se incontro un amico gli chiedo come sta ora, attualmente, e non come è stata dieci anni fa o magari come starà in futuro. Sono convinto che se una persona mi conoscesse solo sulla base del mio presente non avrebbe problemi ad offrirmi un lavoro, oppure ad uscire a cena o a frequentarmi come amico, senza pregiudizi, ma una volta appreso il mio passato… beh, le cose cambiano. È giusto, tutto questo? A mio avviso il passato spesso è una menzogna del presente, se utilizzato per creare ulteriore esclusione, non fa altro che produrre situazioni di recidiva ad oltranza, con il risultato di pagarne le conseguenze tutti, buoni e cattivi, detenuti e cittadini liberi. Se quello che mi succederà dopo il carcere mi spaventa, il mio passato mi terrorizza perché mi segue come un’ombra e lo vedo negli occhi di tutti. Ci si deve rendere conto che la vera sicurezza sociale si ottiene con la prevenzione, agendo sui fattori di disagio e di discriminazione, nelle “sacche” di marginalità e nelle periferie degradate, che sono il terreno fertile per la criminalità, quindi ci vuole più impegno in tali settori anziché “rinfacciare” per tutta la vita a chi è detenuto – o a chi dalla galera è già uscito – gli errori che queste persone hanno commesso. Il problema è che quando i cittadini liberi, le persone “perbene” incontrano un ex detenuto, gli atteggiamenti, anche quelli più cordiali come il sorriso, sono quasi sempre di circostanza, perché il reale pensiero è negativo e le possibilità di un vero reinserimento sociale restano, nella maggioranza dei casi, solo un miraggio. La legge Bossi-Fini sull’immigrazione ha reso praticamente impossibile la regolarizzazione di qualsiasi straniero che abbia precedenti penali, anche di poco conto, e ciò non consente di rifarsi una vita onesta in questo Paese. Eppure vorrei semplicemente fare la vita onesta che conducevo prima di entrare in carcere, quando ogni giorno lavoravo con passione. Invece mi viene impedito di dimostrare il mio cambiamento, e anche qualora i magistrati dovessero accertare che sono veramente riabilitato, reinserito, recuperato, dovrebbero comunque applicare la legge che impone l’espulsione. Non importa che io sia buono o cattivo, che abbia imparato una professione o meno, che mi adegui alle regole del vivere civile oppure no, che abbia una famiglia in questo Paese o che sia solo ed abbandonato. Ho sbagliato venti anni prima e non esiste ragione che tenga: devo essere cacciato senza possibilità di appello. Francamente mi sembra assurdo. Ci separano soltanto 45 miglia di acqua, l’Albania e l’Italia sono Paesi confinanti, eppure veniamo espulsi nella maniera peggiore, e c’è tanta gente che ci considera “diversi”. Sembra che tutti i mali ed i guai dell’Italia in tema di giustizia e di sicurezza siano nostri. Spesso siamo trattati come dei nemici da combattere e quasi nessuno crede invece nelle nostre potenzialità, che sono enormi ma nessuno ovviamente ne parla, forse perché non hanno interesse giornalistico. Nonostante venire in Italia sia stata la mia rovina, perché gran parte del tempo l’ho trascorsa “dentro”, ininterrottamente dal 1994, mi piacerebbe molto vivere in questo Paese, anche dopo aver terminato la mia condanna. In Italia ho sofferto e non ho la certezza di essere benvoluto da questa società, ma io mi ci sono comunque affezionato, è proprio veritiero il detto che se ti fermi in un posto per tanto tempo ti ci affezioni. Tanto che penso di essere affetto dalla sindrome di Stoccolma, una “malattia” per la quale le persone sequestrate si innamorano dei loro sequestratori, di chi le fa soffrire. Ecco, a me è successa la stessa cosa, mi sono innamorato di questo Paese che mi tiene prigioniero da 12 anni. Naturalmente la privazione della mia libertà avviene esclusivamente per colpa mia, ma questo è un altro discorso poiché chiunque può sbagliare e “chi è senza peccato scagli la prima pietra”.
|