Donne dentro

 

Alla prigione non ci si abitua mai, ma alla libertà sì e subito

Vite in bilico tra galera e libertà. Bisognerebbe pensare a un’attenzione diversa alle persone che iniziano un percorso di pena fuori dal carcere, e che non sempre vedono i rischi di una vita a metà strada fra la galera e la libertà

 

di Cristina,

redazione della Giudecca

 

Mi ha colpito molto quello che scrive Montesquieu ne “Lo spirito delle leggi” a proposito della capacità umana di adattarsi a tutto, anche alla pena più pesante: “L’immaginazione si abitua a quella grave pena, come si era abituata alla più lieve, e venendo meno il timore per questa...” Ecco, l’uomo fa l’abitudine ad ogni male, quando sopporti e superi una delusione ed un evento negativo sei pronto a passarne un altro e così via; al momento potrai anche esserne spaventato, ma poi non ne avrai quasi più paura e potrai riprendere il tuo cammino. Giusto o sbagliato che possa essere.

Mi viene in mente allora la vita in carcere, e il momento in cui finalmente, dopo molto tempo, entriamo “nei termini” per usufruire di un beneficio. In realtà anzi cominciamo a pensarci ancora prima di essere arrivati a quella scadenza, passiamo ore della nostra detenzione ad immaginare dove, come e quando riacquisteremo la tanto desiderata libertà. Il carcere è un luogo dove tu puoi trovare il tempo per pensare e ripensare agli errori commessi, per metterti una mano sulla coscienza e dirti: “Ho sbagliato, ne sto pagando le conseguenze però vorrei avere una seconda possibilità”. E sei sinceramente convinto che, se te la daranno, saprai usarla al meglio.

Il punto è questo: tutti noi, al momento in cui possiamo chiedere la semilibertà o un affidamento, siamo sicuri degli obiettivi e degli ottimi propositi che ci siamo prefissati; delle promesse fatte a persone che ci sono state vicine lungo il nostro percorso, a cui vogliamo bene, dei percorsi pensati con operatori e volontari che metterebbero (e mettono) la mano sul fuoco per noi. Ci piacerebbe averli come nuovi amici: se una persona in carcere ci dà una possibilità, nonostante il contesto non sia dei migliori, figuriamoci fuori, deve essere un’ottima amicizia.

Ma poi? La vita ricomincia, ci sono mille obblighi da seguire: la firma tre volte la settimana con gli orari concordati dalla questura, i colloqui ogni quindici giorni con l’assistente sociale, lo psicologo e con l’operatore dell’Ufficio Esecuzione Penale di riferimento, non frequentare locali pubblici (sfido io chiunque di noi a sapere se in un bar non c’è nemmeno un pregiudicato), per chi è tossicodipendente ovviamente gli esami tossicologici al Ser.T. anche due volte alla settimana. Ed ancora: rientro a casa, che naturalmente non ci preserva dai controlli delle forze dell’ordine, che possono arrivare a ogni ora del giorno e della notte. Tutto questo dopo una pesante giornata lavorativa, magari con l’obbligo di un percorso fissato rigidamente. Oramai abituati alle ristrettezze del carcere, questo può sembrare niente al confronto. Con un piccolo particolare: alla prigione non ci si abitua mai veramente, ma alla libertà sì e subito.

 

Non so bene che cosa possa servire a chi è in semilibertà o in affidamento, per riportarlo con i piedi per terra

 

Quando sei fuori riesci a prendere il ritmo quotidiano con obblighi annessi, ti sembra di rinascere. Ogni giorno apprezzi sentimenti e sensazioni, che da tempo avevi lasciato in un angolo del cuore, ma che tornano prepotentemente a farsi sentire. Cominci anche a frequentare persone della società “libera”, ma per non essere preda di pregiudizi non puoi dire il vero motivo per il quale ogni sera alle nove e mezza-dieci  (per i più fortunati, per gli altri anche prima) devi mollare tutto e tutti per andartene, in qualsiasi condizione ti trovi. “Hai un figlio piccolo che ti aspetta a casa?!”, “Perché non lo porti mai con te?”, “I tuoi stanno male?!” e così via dicendo. Tutte queste scuse già dopo qualche mese non bastano più. Sì che sei libero, ma lo sei per il fatto che non sei più in carcere, non perché ti abbiano dato una possibilità di rientrare davvero nei ritmi di vita di una persona “normale”. No, la tua vita resta del tutto “anormale” in un sistema nel quale le vite degli altri hanno invece una regolarità quasi perfetta, o che almeno ti sembra tale.

Dopo mesi che ti attieni alle regole, la tua psiche pensa di aver fatto già sufficienti sforzi per adeguarsi alla vita fuori, e credo sia in quel momento che scatta la molla per cui i dieci minuti di ritardo al rientro serale li interpreti con un “Cosa vuoi che siano dieci minuti di ritardo?”; e ci metti un attimo a cadere nel torto. Questo è solo un esempio che voglio fare, le situazioni sono complesse e man mano che si va avanti non ci si sente più tanto legati al fatto di essere stati in prigione. Giorni, mesi, anni di sofferenze vengono messi in un angolo recondito della nostra mente, come non fossero mai esistiti, come se con il tempo si attenuassero fino a sparire. Anche i familiari e gli amici che hanno patito con te sembrano voler rimuovere quei momenti di sconforto, di negatività allo stato puro.

Forse sarebbe meglio che qualcuno ogni tanto ce lo ricordasse invece, che la nostra pena non è finita, che ci mettesse in guardia, che ci impedisse di credere davvero che siamo tornati ad essere persone “normali”. Non so bene che cosa possa servire a chi è in semilibertà o in affidamento, per riportarlo con i piedi per terra quando l’abitudine alla libertà fa dimenticare che dietro l’angolo c’è ancora la realtà del carcere. Forse sarebbero utili anche riunioni indette con gli operatori che ci seguono all’esterno, con i familiari, e perché no, con qualche compagno di sventura... per ripensare assieme che nella possibilità che abbiamo avuto di uscire con i benefici prima del fine pena, ogni giorno siamo a rischio di trovarci con un piccolo passo vicini al cancello che ci potrebbe richiudere all’interno di quel luogo, dove ricominceremmo a dire: “Si stava così bene fuori, chi me l’ha fatto fare di cascarci di nuovo?”.

E la vita continua…

 

Anche mia figlia ha bisogno della mamma come tutti i bambini

Quel carcere che ancora divide i figli dalle madri. La legge sulle detenute madri è ancora poco applicata, facciamo in modo che non ci siano davvero più “figli di un dio minore” costretti a vivere privati a forza dell’affetto materno

 

a cura della redazione della Giudecca

 

Di Natasha abbiamo già raccontato la storia: viveva in Francia, con regolare permesso di soggiorno, poi è passata per l’Italia, di ritorno da un viaggio al suo paese, il Montenegro, e si è vista cadere addosso una condanna in contumacia a undici anni di carcere, per fatti legati alla sua convivenza di anni addietro con un uomo che aveva lasciato da tempo proprio perché non condivideva la vita che faceva. Avevamo interrotto la sua storia al momento in cui Natasha aspettava da un giorno all’altro che venisse a trovarla la sua bambina, poco più di un anno fa. Poi che cosa è successo?

 

Natasha, la sua bambina, la paura e l’incertezza del futuro

 

Quando mi hanno arrestato mia figlia aveva tre anni e mezzo, ora sta con i nonni e da mesi ormai cerco di farla venire qui a trovarmi, ma ho tante difficoltà a mettere assieme i documenti e organizzare il viaggio.  Adesso poi c’è un problema nuovo perché lei non vuole separarsi da sua nonna, e mia mamma non è che può venire, che può fare questo viaggio facilmente, non è una persona sana, non sta affatto bene. Non so neanche io più che cosa pensare. Qui alla Giudecca ci hanno concesso due telefonate in più al mese, una benedizione per noi straniere, eppure io non riesco più a parlare con nessuno se non con mia figlia, lei è lei, non lascia spazio a nessun altro, lei mi dice che mi ama più di tutti, mi vuole un mare di bene, e però se le parlo di venire a trovarmi mi risponde “Senza nonna no”. Poi è lei stessa che mi chiede quando vado là, mi dice: “Dai vieni mamma, vieni questa estate”.

Al telefono qualche tempo fa mi ha detto che era triste, le ho chiesto perché, pensavo stesse male, mi ha detto “Perché tu non vieni a casa”. Negli ultimi mesi però sento che qualcosa è cambiato, un anno fa lei diceva a sua nonna “Fra poco io vado a trovare mia mamma, non mi aspettare perché non torno più”, adesso mi ripete sempre che senza nonna non andiamo da nessuna parte, per lei sua nonna è tutto e di più. Per me è doloroso perché passano gli anni e sento che lei perde questo attaccamento a me, che era fortissimo prima.

Quando mi hanno arrestata lei è stata cinque mesi con suo padre, che poi l’ha mandata dai nonni in Montenegro, ed è stato meglio perché lì ha i cugini, gli zii, ha trovato una famiglia, mio fratello ha una figlia che ha tre giorni meno di lei. Lei suo padre non l’ha perdonato, perché lui si è subito trovato un’altra donna. Ora è tornato in Montenegro e la prima cosa che lei gli ha chiesto è “Vuoi sposarti di nuovo?”.  I miei genitori cercano di parlarle, di dirle che il suo papà le vuole bene, ma lei è una testa dura, a sei anni ha già il suo caratterino, penso a come mi farà pagare tutto.

Per adesso però non mi sembra che verso di me abbia del rancore, io le faccio sempre presente che ci sono, le mando pacchi, regali, le telefono, in tutto quello che mi chiede io cerco di accontentarla. Quando però mi domanda “Perché non vieni, mamma?”, non le rispondo che lavoro, che sono all’estero, io le dico semplicemente “Perché non posso. Quando potrò verrò senz’altro”. Anche perché lei si ricorda che veniva qui a trovarmi con suo papà, quindi sa dove sono io, e capisce che da qui non mi posso muovere. È una bambina molto matura, non va ancora a scuola ma sa già scrivere e leggere. È una bambina che ha dovuto crescere molto in fretta.

Adesso non so se ci penso più, a farla venire qui con la legge sulle detenute madri. Lei ha subito in questi sei anni troppi traumi, non vorrei “usarla” per uscire, per me è importante solo che lei stia bene, che cresca serena. Ho paura che lei viva ora il trauma della separazione dalla nonna, dopo aver vissuto quello della separazione da me, e poi ho paura che venga qui e che non si riesca a farla rimanere. Io non voglio deluderla, non voglio farla venire in Italia per poi doverla far tornare in Montenegro. Io devo ancora fare quasi otto anni di pena, come faccio se poi non applicano anche per me la legge Finocchiaro? Anche ieri le ho parlato, e lei mi ha detto “Dammi il numero di telefono, che ti chiamo io”, e io lì a spiegarle che è un numero troppo lungo e difficile, ma lei ora sa scrivere e voleva farsi dare da sua nonna un pezzo di carta per annotarselo. Capisce tutto, sa tutto, sono io che non so più che cosa sia bene per lei.

È vero, io sono straniera, però anche mia figlia ha bisogno della mamma come tutti i bambini italiani che possono usufruire con le loro madri della legge Finocchiaro. Lei adesso ha paura di essere abbandonata di nuovo, e io mi sento impotente, incapace di fare qualsiasi progetto per il futuro. Da una parte penso che i mie genitori sono anziani, hanno fatto una vita dura e hanno molti problemi di salute, la bambina è piccola e ha bisogno di sua madre, dall’altra ho paura che mi dicano che la legge va bene per i figli che si trovano già qui in Italia, e magari lei intanto si crea delle illusioni e poi per l’ennesima volta si sentirà abbandonata.

La condizione delle detenute madri

La legge Finocchiaro e le proposte di modifica per rendere più agevole l'applicazione

 

Lillo di Mauro, Presidente della Consulta

permanente cittadina sul carcere del Comune di Roma

 

Negli ultimi anni il numero dei bambini da zero a tre anni di età, che crescono in carcere, è andato progressivamente aumentando, nonostante una legge riconosca l’incompatibilità della detenzione per le donne madri con figli sino a dieci anni di età. Questo problema non tende a scomparire spontaneamente, perché la popolazione delle madri detenute è composta da una prevalenza di donne immigrate, donne tossicodipendenti, e in misura crescente da nomadi, che sono quelle maggiormente a rischio di recidiva, che è uno dei motivi ostativi per l’ottenimento dei benefici previsti dalla legge.

La possibilità, consentita dall’articolo 11 della legge 354 del 1975 (la riforma penitenziaria), di tenere i bambini sino a tre anni accanto alla madre in carcere, è una prospettiva alla quale le donne, quando possono, cioè quando hanno all’esterno del carcere una qualche rete familiare e sociale di riferimento a cui affidare il figlio, si sottraggono volentieri.

Va inoltre considerato che, per le donne nomadi il carcere è spesso una breve parentesi, essendo condannate quasi sempre a pene brevi, così come per le donne italiane tossicodipendenti, per le quali però il periodo di pena si aggiunge ad un distacco con il proprio bambino quasi sempre già avvenuto, portando ad estreme conseguenze una situazione già difficile ancor prima della detenzione. Nel caso delle donne straniere invece, il carcere modifica pesantemente la loro condizione di madri. Si tratta di donne quasi sempre condannate a pene lunghe per reati relativi allo spaccio e al traffico internazionale di stupefacenti, raramente con un coinvolgimento personale nell’uso della droga. Pur essendo in grado e volendo occuparsi dei propri figli, sono costrette a farlo in un contesto inadeguato alla loro crescita psicofisica e con la disperazione di sapere che al compimento del terzo anno di età il bambino verrà loro tolto per essere dato in affidamento ad altra famiglia. Tutto questo inevitabilmente ha una ricaduta sulla salute della donna e del bambino, le situazioni di stress a cui è esposta la donna in stato di detenzione provoca disturbi come amenorree, caduta di capelli, dermatiti.

Ma il disagio vissuto dal bambino, se si vuole, è ancora più drammatico: occorre considerare i diversi significati che il carcere ha dello spazio e del tempo per i bambini, per valutare quale stato di salute psicofisica ne consegua. Difatti il carcere, anche nelle situazioni migliori dove sono state realizzate delle sezioni nido, è comunque di per sé, per le finalità che deve raggiungere, per le modalità e l’organizzazione che ne derivano, un luogo incompatibile con le esigenze di socializzazione e di sviluppo del bambino.

La necessità di dare soluzione a questo problema deve rimettere in moto la ricerca di risposte legislative più adeguate, per spostare la pena fuori dal carcere per le madri e dare una soluzione definitiva alla drammatica situazione che a tutt’oggi vede la permanenza di bambini in carcere. Per tutto questo sono state elaborate, su iniziativa dell’associazione “A Roma insieme”, della Consulta permanente cittadina sul carcere del Comune di Roma e di altre realtà del volontariato, delle proposte di modifiche sia della legge Finocchiaro che della Bossi-Fini, che riguardano: la possibilità per le madri di trascorrere il tempo della pena con i figli in case protette, se non possono andare in detenzione domiciliare a casa; la necessità di evitare alle madri straniere e ai propri figli di essere espulse dal nostro Paese a fine pena, soprattutto se hanno realizzato un percorso di recupero e reinserimento sociale; la possibilità per le madri straniere che hanno i figli nel loro Paese di farli venire in Italia e di poter così accedere alla detenzione domiciliare prevista dalla legge Finocchiaro per accudirli.

 

 

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