L'inchiesta

 
Come si comporta la società con gli “avanzi di galera”?

 

Piccola inchiesta per mettere in contatto il carcere con il mondo esterno. Per sapere davvero che cosa pensano quelli che stanno fuori di quelli che stanno dentro, due classi del Liceo delle Scienze Sociali Duca d’Aosta sono andate a interrogare alcuni genitori e alcuni studenti di scuole non coinvolte nel “progetto carcere”

 

di Paolo Moresco

 

La società non è pronta a riaccogliere e reintegrare chi ha sbagliato ma ha già pagato con il carcere i propri errori. Anzitutto perché la censura sociale si prolunga ben oltre la scadenza formale della punizione (il tanto atteso “fine pena”), lasciando addosso all’ex detenuto l’ombra di una diversità che inquieta, o quanto meno che suscita interrogativi troppo scomodi per essere affrontati: meglio rimuoverli, rifugiandosi nella diffidenza preventiva e nella scettica convinzione che… chi ci è cascato una volta prima o poi ci ricascherà. E poi perché la generosità e la comprensione, quando ci sono, il più delle volte si rivelano “a scartamento ridotto” e si fermano laddove rischiano di mettere in gioco le proprie personali sicurezze, i propri “orticelli”. E infatti sono in parecchi a dichiararsi disposti ad avere un ex carcerato per amico, ma sono molti di meno quelli pronti a spingere la propria fiducia nei confronti di quell’ex carcerato (amico) al punto di affittargli uno straccio di casa.

Sono questi, in estrema sintesi, i risultati emersi da una ricerca effettuata nell’ambito del Progetto Carcere dagli allievi delle classi 5aG e 5aL del Liceo delle Scienze Sociali Duca d’Aosta di Padova, sotto la direzione delle professoresse Silvana Serragiotto e Stefania Stefanin.

La ricerca è partita da una curiosità iniziale: “Che cosa i detenuti pensano che i cittadini pensino di loro?”. Così sono stati i detenuti stessi, con alcuni operatori dell’associazione Tangram, a formulare una serie di domande indirizzate al “mondo fuori”. Le persone coinvolte, 137 in tutto, un campione di studenti di scuole non coinvolte nel progetto carcere e un campione di genitori. hanno risposto ai quesiti proposti da un questionario composto di ventidue domande “a risposta chiusa” (“sì” oppure “no”, con l’eccezione di qualche possibilità di risposta più articolata) e tendente a mettere in luce qual è il rapporto intercorrente fra il detenuto e la società che sarà chiamata a riaccoglierlo una volta che avrà scontato il suo debito con la giustizia.

 

Le carceri immaginate come cittadelle della violenza da tenere lontane e isolate dalla società

 

Vediamo, per cominciare, come vengono percepiti il detenuto e la struttura adibita a punirlo e a “raddrizzarlo”, il carcere. La convinzione prevalente (42% degli intervistati) è che i detenuti siano persone sostanzialmente “normali”, ma significativa è anche la consapevolezza di quanto possano influire nella devianza criminale l’emarginazione sociale (35%) e la presenza di più o meno gravi problemi psicologici (18%). Ampiamente condivisa (80%) è poi la percezione dello svantaggio rappresentato da una posizione sociale debole, anche se tale disagio economico-sociale di partenza viene sorprendentemente sottostimato come causa prevalente della commissione di reati: solo per il 18% degli intervistati, infatti, “un detenuto diventa tale per condizione sociale”, contro il 55% che ritiene lo diventi “per scelta” e il 20% che imputa la commissione di reati a imprecisati  fattori di “disgrazia”.

è notevole la percentuale di coloro che sono propensi “in alcuni casi” a giustificare “la motivazione che spinge a commettere un reato” (il 61%, contro il 38% che ritiene i reati sempre e comunque ingiustificabili), ma ampiamente condivisa (66%) è anche la sfiducia nell’attitudine del carcere a modificare i comportamenti del detenuto “impedendogli di ripetere lo stesso errore”. E infatti la netta maggioranza degli intervistati (53%) ritiene che il carcere e le pene abbiano un’esclusiva funzione punitiva, e che pertanto non migliorino la persona e non la attrezzino nella prospettiva del futuro reinserimento. Il 20% degli intervistati sono anzi convinti che il carcere abbia semmai l’effetto di cronicizzare la “vocazione criminale”, quanto meno perché non è in grado (lo pensa il 60%) di orientare in modo positivo le scelte di vita future del detenuto.

Tanto scetticismo sulla funzione rieducativa della pena nasce anche dalla diffusa convinzione che in carcere non esista rispetto per la persona (64%) e che anzi esso sia essenzialmente un luogo di violenza (è il 95% a pensarlo), esercitata in larga prevalenza sugli altri (81%) e solo in minima parte su se stessi, con atti di autolesionismo (5%). Ed evidentemente è soprattutto per via di questa loro immagine sinistra, di cittadelle della violenza da tenere lontane e isolate dalla società, che l’89% degli intervistati si dichiara d’accordo sulla tendenza a costruire i nuovi istituti penitenziari ben distanti dai centri abitati.

Ma gli aspetti forse più interessanti della ricerca, più che il detenuto “dentro” riguardano l’ex-detenuto “fuori”, nel momento cioè del suo ritorno in società. Conforta notare, in proposito, che sono in netto regresso i pregiudizi di tipo lombrosiano, un tempo così radicati: e infatti solo il 14% degli intervistati ritiene che gli ex detenuti siano riconoscibili “per corporatura e/o tratti somatici”; è alta tuttavia, e suscita qualche perplessità, la percentuale di coloro (66%) che sono convinti che a marchiare l’ex detenuto, rendendolo comunque “diverso” e quindi facilmente distinguibile, siano “il comportamento e/o le abitudini”.

Le facce da criminale sono in declino, insomma; ma a smascherarli, gli avanzi di galera, ci pensano i loro “stili di vita” (fatta eccezione però per le scelte d’abbigliamento, a dimostrazione che il casual - trionfando - ha piallato tutto: solo l’1% degli intervistati ritiene infatti che il modo di vestirsi possa rappresentare, nel caso degli ex detenuti, un tratto distintivo).

 

Come ci si comporta quando si ha a che fare con una persona che è stata in galera?

 

Ma come si comporta la società con gli “avanzi di galera”? È pronta ad accoglierli, e a dare il suo contributo al loro reinserimento? L’opinione degli intervistati a questo proposito si spacca grosso modo a metà, con una leggera prevalenza degli scettici (53%), che non ritengono il “mondo esterno” in grado di reintegrarli, offrendogli valide opportunità di promozione umana e di inserimento sociale. E infatti, sebbene siano in molti (75%) a dichiararsi disposti a concedere la propria amicizia a una persona che è stata in galera, e siano quasi altrettanto numerosi (71%) coloro che si dicono disposti a offrirle un lavoro, prevale (57%) la consapevolezza che per un ex detenuto è tutt’altro che facile trovare una casa. E come si può ipotizzare un effettivo reinserimento sociale se manca il requisito essenziale di un tetto, e cioè di una radice conficcata in profondità nel territorio?

Ma torniamo agli stati d’animo, alle emozioni private prodotte dall’avere a che fare con una persona che è stata in galera. Il 74% degli intervistati subordina la sua capacità di comprensione (e di accettazione) alla “qualità” del reato che è stato commesso, e infatti ritiene fondamentale conoscerlo prima di azzardare qualsiasi investimento di tipo fiduciario. Una volta chiarito il crimine di cui quella persona s’è macchiata in passato, e che ha comunque pagato, la fiducia può essere più o meno accordata, o negata del tutto, ma in ogni caso resta - per il 93% degli intervistati - l’ombra del pregiudizio. Solo il 5% si dichiara infatti pronto a “dimenticare il reato compiuto”.

Un atteggiamento di maggiore apertura c’è però per quel che riguarda i figli dei detenuti: il 64% degli intervistati si dichiara infatti convinto che “il mondo esterno è pronto ad accoglierli”, contro un 34% di scettici, secondo i quali le colpe dei padri ricadono sempre e comunque sui figli. In larghissima maggioranza (77%) nettamente contrari alla pena di morte, i 137 intervistati sono contrari (al 55%) anche alla concessione della grazia, mentre guardano con maggiore ma comunque cauto favore (53%) alla concessione di sconti di pena. Largamente condivisa (76%) è infine la consapevolezza che la percezione che la pubblica opinione ha del carcere e del detenuto è fortemente condizionata dai mass-media e dall’informazione, spesso parziale quando non deformata, che ne proviene.

 

 

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