Cari studenti

 

Lettere dei detenuti agli studenti

Il pensiero va alle mie due figlie, vittime anche loro delle mie scelte

 

È come se non fossi mai veramente solo, ho come la sensazione di vivere fianco a fianco con la persona che ho contribuito ad uccidere durante un tentativo di rapina

 

di Marino Occhipinti

 

Cari ragazzi,

mi chiamo Marino e mi trovo detenuto nella Casa di reclusione di Padova. I vostri temi, sia quelli scritti prima dell’inizio del progetto “Il carcere entra a scuola”, sia quelli successivi, mi hanno messo addosso una gran voglia di scrivervi, tant’è che in questi giorni ho provato spesso a riordinare le idee. Ma per quanto abbia iniziato più volte a mettere nero su bianco quello che vorrei dirvi di me e della mia storia, non sono mai riuscito a trasporre sulla carta le mie emozioni con la necessaria immediatezza ed efficacia.

Per obbligarmi a sciogliere la lingua prendo allora spunto da un articolo spietatamente autentico, quasi spudorato, che ha scritto tempo fa Nicola, un mio compagno detenuto che ora sconta la sua pena con una misura alternativa alla detenzione, la “semilibertà”. Quando scrisse quell’articolo fece una cosa molto elementare ma efficace: tracciò il bilancio della sua vita, prendendo in esame i guadagni ma anche, e soprattutto, le perdite. I guadagni si limitavano di fatto a qualche spiraglio di bella vita; le perdite ammontavano invece a… 24 anni di galera già scontata e una decina ancora da fare.

 

Pagare vuol dire convivere con un peso sulla coscienza che il trascorrere del tempo non riesce ad alleviare

 

Quanto a me, cominciamo dunque col dire che ho quarant’anni compiuti da un paio di mesi e che sono in carcere da quando ne avevo 29. Sono sposato e ho due figlie, che hanno rispettivamente 14 e 17 anni. Il termine della mia condanna non esiste: sul frontespizio del mio fascicolo è scritto infatti, in stampatello e ben evidenziato in rosso, FINE PENA: MAI. Ergastolo, insomma, anche se le poche volte che per questioni burocratiche ho avuto la necessità di chiedere un certificato di detenzione vi ho stranamente trovato scritto Fine pena: 2099. Che si sia trattato di un errore, di una simbolica datazione burocratica o di un segno di pietosa gentilezza dell’amministrazione penitenziaria cambia poco. La situazione rimane tragica, anche perché - fosse attendibile questa “edulcorata” versione - nel 2099 avrei 134 anni. È comunque fin troppo ovvio che, per essermi meritato una simile condanna, i miei reati sono stati gravi, anzi gravissimi. E infatti, in ordine di gravità crescente, essi sono: furto, porto illegale di armi e di esplosivi, rapina, tentato omicidio, omicidio. Penso che possa bastare.

Alla luce delle domande che alcuni di voi hanno posto a noi detenuti in occasione dei nostri incontri, nell’auditorium del carcere, immagino siano sostanzialmente tre i quesiti che più vi stanno a cuore:

In quali circostanze è maturato e si è poi verificato il tuo reato?

Cosa ti ha spinto a commettere un crimine?

Con quali stati d’animo sconti ora la tua condanna?

Rispondere a simili domande è tutt’altro che semplice, anche perché - per quanto siano gravi i reati che ho commesso, e per quanto mi abbiano segnato in maniera irrimediabile - essi sotto il profilo temporale rappresentano solo una frazione infinitesimale della mia vita: la mia condanna, fine pena mai, riguarda infatti reati che ho commesso nel 1988, nell’arco di soli quindici giorni. E cosa sono, quindici giorni, in una vita lunga quarant’anni? Sia chiaro però che, ponendo l’accento su quel pugno di giorni che hanno sconvolto e segnato per sempre la mia vita, non intendo affatto accampare scusanti o peggio ancora misconoscere e ridurre le mie responsabilità. Intendo solo rivendicare il mio umano diritto a non riconoscermi soltanto in quel giovane uomo che, oltre 17 anni fa e per tutta una serie di circostanze estreme e irripetibili, si è ritrovato a compiere atti che ora paga amaramente.

E pagare non significa soltanto scontare, giorno per giorno, una condanna lunga come tutta la vita che hai davanti. Pagare vuol dire anche convivere con un peso sulla coscienza che il trascorrere del tempo non riesce ad alleviare, perché si rinnova ogni giorno e t’insegue anche di notte, impedendoti di dormire serenamente anche quando sei stanco morto. Per quel che mi riguarda, è come se io non fossi mai veramente solo: ho come la sensazione di vivere fianco a fianco con la persona che ho contribuito a uccidere durante un tentativo di rapina. Un giovane che aveva la mia età…

Come in una sequenza fotografica proiettata all’infinito, le immagini di quella sera si ripetono in continuazione nella mia mente. “Assalto ad un furgone portavalori, uccisa una giovane guardia giurata di 23 anni…”, strillava poche ore dopo la “civetta” collocata davanti a un’edicola, che dell’uomo riportava anche la fotografia, rimasta impressa da allora in maniera indelebile nella mia memoria. E poi il processo, lo sguardo dei suoi genitori “insopportabile” da reggere, il pianto a volte sommesso ed altre volte straziante della madre… Un brivido di dolore ed un forte senso di colpa ogni volta che ci ripenso, e ciò avviene troppo, troppo spesso. Se queste sono solamente alcune delle sensazioni che può avvertire colui che ha ucciso, e le conosco fin troppo bene, posso invece solo immaginare la sofferenza, atroce e implacabile, di chi un figlio addirittura lo ha perso per sempre, e non per disgrazia o fatalità ma per mano di un’altra persona.

 

L’imbarazzo di avere il padre in carcere, la necessità di doverlo nascondere ai compagni di scuola

 

Ma il peso che grava sulla mia coscienza riguarda anche le mie figlie, mia moglie, tutti gli altri miei familiari: anche loro vittime delle mie scelte, anche loro irrimediabilmente segnati dall’essersi ritrovati con un padre, un marito, un fratello, un figlio assassino. Nelle mie considerazioni sul fatto che mi trovo in carcere - e su tutto ciò che ne consegue - io e la mia vita spezzata veniamo per ultimi: ed è giusto così, perché in fondo io “me la sono cercata”. Loro invece non hanno fatto nulla, ma proprio nulla, per meritarsi il dolore, l’angoscia e i mille disagi materiali e morali che gli ho procurato.

Quando penso alle mie figlie mi si stringe il cuore a immaginare la vergogna e l’imbarazzo che rappresenta per loro avere il proprio padre in carcere, e ai mille sotterfugi cui sono costrette a ricorrere pur di nascondere la verità ai compagni di scuola per non sentirsi “diverse”, tagliate fuori. E ciononostante è accaduto che la verità sia venuta a galla, e che abbiano dovuto perfino cambiare sede scolastica per ritrovare un po’ di serenità. Chissà quante volte, pressate da domande insistenti sulla mia perdurante “assenza”, sono state costrette a cavarsi d’impaccio ricorrendo a pietose bugie: “Mio padre? È via per lavoro, ma quando torna a casa mi accompagnerà sempre a scuola lui…”.

Ci sono alcune foto che porto sempre con me, dalle quali non mi stacco mai. Una in particolare raffigura la maggiore delle mie figlie prima del mio arresto: siamo seduti sull’erba di un parco pieno di alberi secolari. È radiosa, e non c’è bisogno di conoscerla profondamente per accorgersi che è felice, serena. Nelle altre, successive al mio arresto, è invece la sofferenza fatta persona: gli occhi tristi, il viso cupo. Ha avuto ed ha ancora grossi problemi, di salute ma anche comportamentali, dovuti essenzialmente alla mia vicenda e agli effetti traumatici che ha avuto su di lei. Nel suo diario un paio di anni fa ha scritto: “Caro diario, sono davvero sfortunata: mio padre è in carcere ed io sono malata…”. Mi pare significativo che la sua prima angoscia sia stata quella di annotare che io sono in carcere.

Le mie figlie sono cresciute senza di me. Non conosco più i loro gusti alimentari, me li faccio descrivere ma non è la stessa cosa. A Natale, a Pasqua, in occasione dei loro compleanni e delle altre ricorrenze più importanti io non ci sono mai. E non ci sono neppure quando stanno male, quando vorrebbero confidarsi, sfogarsi se qualcosa non va bene, come si fa con un genitore. Sono cresciute senza di me così come io sono cresciuto senza di loro. È doloroso e per me rappresenta una pesante sconfitta, l’ennesima, che mi accompagnerà per tutta la vita.

Questi sono soltanto alcuni dei tanti “dettagli” che mi sento di elencare alla voce perdite del mio rendiconto personale; la casella dei guadagni la lascio invece in bianco: zero assoluto. Un bilancio negativo? Peggio, catastrofico. E perdonatemi se, nel presentarvelo, sono riuscito a rispondere solo all’ultima delle tre domande che io stesso mi ero posto all’inizio di questa lettera: purtroppo faccio fatica a confrontarmi con me stesso, figuriamoci con gli altri.

Un giorno molte più persone crederanno che si può cambiare

 

Parlare di categorie di detenuti non è corretto, ognuno ha la sua storia personale che può essere una lunga serie di reati o un unico reato

 

di Altin Demiri

 

Ciao, sono un detenuto della redazione di Ristretti Orizzonti, mi chiamo Altin e mi trovo in carcere dal ‘94 per omicidio con una condanna a 25 anni, di cui ho già espiato 10 anni. Sono albanese e quando ho commesso il reato avevo 21 anni, perciò sono stato condannato a più degli anni che avevo vissuto sino ad allora. Ho letto le vostre riflessioni e mi hanno colpito molto. Mi fa piacere che degli studenti si interessino della realtà carceraria e dei detenuti. Io credo che questo sia un passo importante per entrambi: per me come una nuova esperienza e per voi come approfondimento culturale su un tema importante .

È mia convinzione che un confronto tra detenuti e ragazzi della vostra età sia anche un buon strumento di prevenzione agli atteggiamenti di devianza, può essere un momento per capire quanto è importante la libertà individuale che ognuno di voi  ha e che noi invece abbiamo perso, perché unicamente quando ti trovi solo tra quattro mura hai l’occasione di riflettere sulla sofferenza che hai causato e su tutto ciò che hai perduto.

Inoltre vedo questo progetto anche come un tentativo per sensibilizzare la società di domani e magari per crearne una migliore, dove nessuno abbia dei pregiudizi. Un giorno molte più persone crederanno che chi ha commesso un reato può cambiare e può migliorare, se gli verrà data l’opportunità. È mia opinione che aprendo le porte del carcere alla società civile e permettendo di comunicare con essa si può migliorare il carcere come luogo di pena e dare alla pena stessa quel senso di recupero della persona che dovrebbe avere, così come insegna la Costituzione italiana, mentre un carcere chiuso, isolato dagli occhi della società significa pura punizione e afflizione, al contrario di quello che uno stato civile deve garantire.

 

È importante coinvolgere chi ritiene che il carcere non lo riguarda

 

Il lavoro che svolgo in redazione mi appassiona anche per questo tipo di attività: un confronto diretto con il mondo esterno significa molto perché posso spiegare a chi sta fuori che cos’è il carcere e chi sono i detenuti con le loro storie umane, e cercare così di cambiare le opinioni troppo distanti e superficiali e di coinvolgere anche chi ritiene che il carcere non abbia nulla a che fare con la sua vita. Anch’io prima di entrare in carcere dicevo “io lì non ci andrò mai”, ed invece eccomi qua, perché gli uomini possono sbagliare.

Ho notato che nelle vostre considerazioni si fa riferimento ai detenuti come ad un corpo unico, ignorando invece sia la classe sociale sia la provenienza geografica. Nel mio caso come straniero sto espiando la pena in maniera più severa: ad esempio, non ho la possibilità di colloqui, non ho aiuti economici, non posso usufruire di permessi in famiglia e sconterò l’intera pena qui dentro perché difficilmente gli stranieri possono usufruire di misure alternative al carcere. Vi ho parlato di me e non voglio rattristare nessuno, ma ho cercato tra l’altro di farvi capire che una pena comporta molte sofferenze aggiuntive che pochi conoscono, e che ognuno di noi carcerati subisce la pena in modo diverso.

Perciò avrei piacere che non si parli di categorie come detenuti, assassini, ladri ecc., non è corretto, ognuno ha la sua storia personale che può essere una lunga serie di reati (recidivo) o un unico reato, ognuno prende una sua condanna che può essere minima o massima per ciò che la legge prevede, ognuno espia la sua pena, chi ne espia solo una parte in carcere e chi la espia per intero fino all’ultimo giorno. Confido che questa mia lettera vi possa far riflettere su altri aspetti del carcere e delle persone detenute.

Tra tutte le domande che voi ragazzi ci avete posto, una di quelle che mi ha fatto più riflettere era se la punizione del carcere serve a pentirsi del reato che abbiamo commesso. Inizialmente l’ira, la paura, l’incoscienza della giovane età, non mi hanno permesso di capire che ero ristretto per causa mia, e anzi mi ribellavo all’idea. Penso però che ciò sia abbastanza consueto, è un istinto primordiale, davanti ad un interrogatorio, di negare tutto per sostenere la propria libertà (con tutto ciò che hai, affetti e benessere), con la speranza di non essere punito. Negare tutto anche di fronte all’evidenza dei fatti solo per mantenere la propria libertà. È quello che è successo anche a me di fronte a un grave reato come l’omicidio con prove incontestabili. Ho negato tutto, non solo per restare in libertà, ma anche per l’incoscienza che non mi permetteva di capire la gravità dell’accusa che mi veniva contestata. Mi ricordo quando il Pubblico Ministero disse alla Corte che io non ero ancora cosciente della gravità del reato che avevo commesso. Era tutto vero, io non mi rendevo conto davvero di avere tolto la vita ad un essere umano!

Solo il carcere con tutto il tempo per ripensare al grave reato che ho commesso, la solitudine e la riflessione mi hanno portato a riconoscere gli errori e la sofferenza che ho provocato. Alle volte quando rifletto sulla mia vita, su come ha potuto succedere tutto ciò, quando penso al dolore che ho causato ai famigliari della vittima ed alla mia famiglia che non vedo da 12 anni, e anche a me stesso, è allora che mi rendo conto di essermi rovinato la vita, specialmente la parte più bella, quella della giovinezza, e dico a me stesso: “Testone, come hai potuto arrivare a questo?”. Quando mi domando se merito veramente questa galera, la mia coscienza si esprime sinceramente e mi dice di sì. È un sì che fa sentire dentro di me in forma quasi masochistica un piacere nel dover soffrire espiando la pena, quasi fosse una vendetta mia personale nei miei confronti che la legge ha solamente applicato. “Godere” di questo piacere così crudele, come il carcere e tutte le privazioni che comporta, significa compiere una riflessione che mi porta a riconoscere l’errore che ho fatto, e pensare di poter un giorno riunirmi con la società con la quale desidero tanto riconciliarmi.

Prima di finire dentro mi sarei riconosciuto nei vostri scritti

 

Il carcere può sembrare buio e tetro, ma ogni microsocietà è anzitutto composta da esseri umani, da persone diverse tra loro

 

di Gianfranco Gimona

 

Cari ragazzi,

ho letto con piacere quello che avete scritto in merito a ciò che vi viene in mente quando pensate al carcere. Sono alla mia prima carcerazione, senza avere precedentemente avuto contatti con la malavita. Ero un bravo cittadino, pagavo le mie tasse (il meno possibile…), con il mio impiego mantenevo la mia numerosa famiglia, (ho tre figlie), mi impegnavo socialmente in attività di volontariato, ero attivo politicamente, frequentavo la parrocchia.

Poi un giorno… Sinceramente devo confessarvi che anch’io mi sarei riconosciuto in quasi tutto quello che avete scritto voi, se avessi dovuto svolgere lo stesso tema prima della mia carcerazione, visti gli stereotipi che i mezzi di comunicazione, e soprattutto la televisione, ci propinano. Per questo motivo i primi giorni da detenuto li ho vissuti con una tensione, una diffidenza, una paura interiore indescrivibili, ben attento però a non far trasparire queste ansie per non essere soggetto a tutte quelle malvagità che avete descritto. Ma le cose non stanno così: anzitutto mi sono accorto che la realtà carceraria è composta da UOMINI! Gente che ha sì sbagliato, ma che ha dietro storie diverse e spesso per mille ragioni è stata indotta all’errore.

“Belle parole dette da un galeotto! Sì adesso lo dice, che dentro c’è anche lui! Ecco un altro che dà la colpa alla società per le atrocità commesse!!”. Già me li immagino i pensieri che vi vengono in mente mentre leggete queste mie prime righe. Ma proviamo assieme a fare un altro paragone.

Apro il giornale e leggo: “…Adolescente violentata da un branco di coetanei negli spogliatoi della scuola…, arrestato insospettabile studente all’uscita da scuola con centinaia di pastiglie di ecstasy pronte per lo spaccio…, banda di ragazzi semina terrore tra i compagni di scuola rapinandoli dei loro soldi, cellulari, scarpe, giubbotti…, ragazzo respinto uccide con taglierino rivale in amore, alcolici e droga prime cause delle stragi del sabato sera…”.

Potremmo andare avanti così a lungo. Il prossimo anno la figlia mia più grande si iscriverà alle superiori: dovrei essere terrorizzato! Ma non tutto fortunatamente è così come lo descrivono i media. Io personalmente vedo sempre tanti giovani che con entusiasmo (e fatica), si fanno strada formandosi, irrobustendosi, pieni di ideali, positività, voglia di cambiare quel mondo abbastanza brutto che noi adulti gli stiamo lasciando in eredità.

“Non sai quanta neve è caduta su quel ramo prima che si spezzasse”, recita un antico proverbio cinese per indurci a non giudicare sommariamente. Per me rispetto a voi è più facile discernere la vera quotidianità dei giovani d’oggi da certa cronaca giornalistica, perché io l’esperienza della giovinezza l’ho vissuta, mentre nessuno di voi, fortunatamente, ha condiviso la mia. Qualunque posto da fuori può sembrare buio e tetro come il carcere descritto da voi, ma ogni microsocietà è anzitutto composta da esseri umani, da persone diverse tra loro, e anche in carcere ci sono persone che riflettono in silenzio, altre che invece danno fiato solamente alla loro disperazione, ci sono uomini veramente pentiti, altri che imputano tutto al giudice, al complice, al mondo intero, vediamo quello che naviga a vista per non farsi travolgere dagli eventi e quello che invece mette a disposizione degli altri la propria esperienza carceraria perché non sia del tutto inutile. Possiamo scoprire chi si è arreso, ma anche chi vuol riprovare a farsi una vita nuova. Insomma, nulla è buio e immobile come spesso si vuol far credere, anzi!

Un conturbante addio ai ricordi

 

Quando tanti studenti, come un fiume di vita, sono entrati in carcere, qualche giovane detenuto ha ritrovato pezzi del suo passato, ricordi, nostalgie

 

di Elton Kalica

 

Non so se in qualche modo ci fosse un oscuro collegamento con la mia difficile esistenza, ma l’ultimo incontro con gli studenti liceali è stato per me un micidiale composto di agitazione e sconvolgimento. Ho appreso con allegria la notizia che degli studenti sarebbero venuti a farci visita in carcere e che io avrei partecipato all’incontro. Finalmente, per il volontariato di Padova, il modo di vedere e concepire un possibile rapporto tra noi detenuti e il mondo esterno era cambiato: fino a qualche anno fa, il confronto tra le due realtà si svolgeva in qualche rara partita di pallone all’interno del carcere, dove solitamente entrava una squadra di liceali o seminaristi che, finita la partita, ci salutava con una veloce stretta di mano. Lo scopo doveva essere un reale contatto con il mondo esterno, qualche oretta di confronto umano, ma in realtà il contatto principale era il rincorrere tutti insieme il pallone, per poi abbandonarlo in mezzo al campo e tornare nelle rispettive vite intrise di problemi. Oltre ai lividi sulle gambe, gli studenti non portavano a casa molto di nuovo, e noi non portavamo in cella molto di incoraggiante, di emozionante.

Quest’anno, a quanto pare, la lunga esperienza di lavoro con i detenuti ha spinto i volontari a proporre e realizzare un percorso diverso, che poco ha a che fare con il pallone. Il progetto, che è stato chiamato “Il carcere entra a scuola”, consiste nel far conoscere da vicino agli studenti il carcere e i detenuti, con lo scopo di informare bene per prevenire la devianza dei giovani: forse sarebbe stato meglio chiamarlo “La scuola entra in carcere”, visto che più di trecento studenti, come un fiume di vita, sono entrati in carcere, si sono seduti insieme ai detenuti, hanno discusso con loro, li hanno visti cantare per loro, e forse tutti si sono fatti conoscere un po’ meglio.

Sicuramente, per molti studenti questa visita è stata un evento che rammenteranno a lungo - non succede tutti i giorni di entrare in un carcere - e il fatto di aver incontrato qui dentro e ascoltato persone giovani, che sono come loro e come chi gli sta vicino, gli ricorderà per il resto della vita che in carcere può finire chiunque, in qualsiasi momento, se non osserva rigorosamente la legge.

D’altro canto, pieni di impressioni sono rimasti anche i miei compagni detenuti: qualcuno ha riconosciuto negli studenti gli occhi dei propri figli che non ha visto crescere, mentre altri, più giovani, hanno potuto respirare un momento di libertà nello stare per qualche ora vicino a dei coetanei  liberi. Credo che tutti abbiano portato in cella, oltre al ricordo di una giornata diversa, la consolazione che almeno quei ragazzi forse uscivano da questa visita in carcere un po’ diversi, con meno paure e meno pregiudizi verso chi ha sbagliato. Forse ho avuto anch’io per qualche momento questi sentimenti rasserenanti, ma in realtà quello che più ha segnato il mio ricordo è stato un miscuglio di emozioni e palpiti mozzafiato di felicità.

Sin dal momento dell’arrivo degli studenti, mi sono sentito mancare il fiato perché la prima persona che ho visto entrare è stata una ragazza bruna dai capelli lisci che stringeva la mano di un’amica, che non so descrivere neanche un po’ per via del mio totale infervoramento nel guardare la prima.

I suoi capelli morbidi, la sua bocca piccola e sensuale, gli occhi grandi e profondi nella cui oscurità era impossibile non perdersi erano una copia identica di Nadia: sembrava che il creatore l’avesse vista nella mia mente e ne avesse fatto un’altra uguale, per sbeffeggiarmi. Era una sua sosia. Nadia è la ragazza che ho salutato dieci anni fa prima di partire per l’Italia: tra singhiozzi, e con le labbra bagnate dalle sue lacrime, le ho promesso che sarebbe stato per poco e che l’avrei pensata sempre e che presto saremmo tornati di nuovo insieme. Per lunghi anni ho mantenuto la promessa di pensarla sempre, avevo custodito il suo viso nella mia memoria e la guardavo ogni volta che chiudevo gli occhi: non ho mai tenuto una sua foto ma lei è impressa nella mia mente nella bellezza dei suoi diciassette anni, mentre per quanto riguarda il resto del mio giuramento, non potrò mai tenergli fede visto che devo rimanere ancora per molti anni in prigione.

È risultato una piacevole scelta quella di non aver mai chiesto una sua foto recente, e oggi non so come questi dieci anni l’abbiano rimodellata, e non lo vorrei sapere: credo che non sarà gradevole rivederla cambiata - anche se fosse altrettanto bella di allora non mi piacerebbe vedere una bellezza che non mi appartiene più, è il ricordo della bellezza che fu mia che mi incanta - così come spesso continuo a pensare di avere ancora diciannove anni come quel lontano giorno.

 

All’improvviso è stato come tornare  a dieci anni fa, alla mia vita prima del carcere

 

Ho creduto veramente di essere ancora giovanissimo quando, seduto sui gradini dell’auditorium del carcere, ho visto gli occhi neri di quella ragazza che si guardava intorno disorientata. L’ho fissata smarrito, accompagnandola con lo sguardo, fino a quando ha trovato un posto dove sedersi, circondata e coperta dai suoi compagni di scuola che nel frattempo riempivano la sala. I dieci anni che mi separavano da lei sono spariti di colpo, la sofferenza della lunga prigionia all’improvviso è svanita, il ricordo dei cancelli, delle divise, dei tribunali, delle condanne, insomma tutto quello che è successo da quando ho salutato lei, si è cancellato come per magia.

Nei primi anni di carcere mi spaventava l’idea della morte perché significava non poter più pensare a lei, poi mi ero stancato di ricordarla e avevo invece desiderato proprio la morte, che non mi faceva più paura perché non avrei perso nulla, mentre in questo incontro con gli studenti ho cominciato di nuovo a temere che qualcosa mi avrebbe potuto portar via questa gioia inaspettatamente ritrovata.

La giornata è proseguita movimentata. Intorno a me erano seduti dei volontari, dei detenuti, degli studenti, e guardavamo tutti insieme lo spettacolo preparato dall’orchestra del carcere, mentre alla mia destra era seduta una ragazza che da quando si è laureata pochi anni fa ha deciso di fare volontariato in carcere.

Per quasi tutto il tempo ho goduto lo spettacolo insieme a lei, commentando e canzonando tutto ciò che succedeva: starle vicino naturalmente aveva del piacevole - non sempre mi succede di sedermi vicino a una ragazza e passare lunghe ore all’insegna del divertimento, disinteressandomi delle regole - ma la felicità che m’aveva pervaso e l’ilarità che stavo manifestando era di origine diversa: la presenza della sosia di Nadia m’aveva rilanciato in un’altra dimensione, fuori dal carcere, e lei continuava ad apparirmi nella mente, nei suoi diciassette anni, mentre io volevo soltanto allontanarla. Allora mi aggrappavo ad ogni idiozia per ridere, ad ogni particolare per commentarlo, soltanto per evitare di pensare a quella mattina di dieci anni fa.

Mi sono sentito fortunato quando tutto è finito e ho dovuto alzarmi in piedi, ma soltanto per un momento: d’un tratto sono stato assalito da un forte desiderio di rivedere la ragazza dai capelli neri, volevo guardarla per un’ultima volta, prima ero fuggito dal suo ricordo, ma in quel momento ho sentito come se l’immagine di Nadia, negli anni, avesse perso l’antica lucidità e fosse diventata opaca, e il destino, forse dispiaciuto, mi stava offrendo l’occasione di rinnovarla, per continuare a ricordare il suo delizioso viso, i suoi incantevoli occhi e la sua seducente bocca con la nitidezza di una volta. L’ho cercata con ostinazione finché l’ho trovata a pochissimi metri da me, di schiena: inconfondibili i suoi capelli lisci e il corpo dalle forme armoniche che i miei abbracci conoscevano bene. Non si trattava più di una sosia, ma proprio di lei: era la stessa persona, la Nadia di dieci anni fa, che si era introdotta tra gli studenti di nascosto per sconvolgermi. Ho sceso le gradinate e ho fatto un giro intorno a lei senza toglierle mai gli occhi di dosso e assorbendo con desiderio ogni raggio di luce che lei continuava a effondere, da anni. Sono risalito poi felice fino al punto di partenza, vicino alla mia amica volontaria, alla quale, non potendo nascondere la mia emozione, ho confessato che stavo guardando una ragazza di rara bellezza, che non riuscivo a toglierle gli occhi di dosso, e che era proprio lì, solo a qualche metro.

Ho sempre saputo che la felicità non è fatta per durare, ma riguarda soltanto qualche attimo, e che per il resto l’esistenza umana è un continuo tetro sopravvivere, cosicché ero certo che anche quella felicità sarebbe durata pochi attimi, e così è stato.

La mia amica mi ha guardato negli occhi e impassibile mi ha detto: “Cosa fai, guardi le ragazzine? Guarda che sei vecchio ormai per queste qui!”. Il buio ha avvolto la mia mente come una nuvola schiumosa che scendeva nei bronchi per togliermi il respiro, il dolore mi ha trafitto ed ho avuto paura: avevo promesso a Nadia di pensarla sempre riuscendoci per parecchi anni, immaginandola sempre tra le mie braccia come una volta, e questo mi aveva allontanato dall’idea che gli anni passavano e, oltre a lei, anch’io subivo i cambiamenti imposti dal tempo. Con orrore ho visto questi dieci anni, che non sono riusciti a farla sparire dalla mia mente, mettersi di traverso tra me e il suo ricordo per bocca di una persona ignara di tutto ciò - forse un po’ distratta nelle sue affermazioni, ma pur sempre ignara degli intrighi intessuti dal mio crudele destino - che mi diceva di dovermi togliere dalla mente il ricordo di una ragazzina, incompatibile con la mia età, a dispetto della mia promessa.

L’immenso dispiacere di non dover più pensare a lei, al mio ultimo e lontano amore, mi ha tolto, oltre al respiro, anche la parola. Sconvolto ho restituito con qualche balbettio i saluti dei volontari, dei compagni detenuti e della mia amica che in quel momento odiavo, nel suo ruolo di strumento obbediente del destino. Stanco dall’incontro, avvilito dalla mia anomala esistenza, depresso dalla vista di quel fiume di vita, che per un momento mi aveva trascinato nel suo potente scorrere, sono tornato in cella, ho chiuso io stesso la porta blindata e mi sono buttato sulla branda, pensando che forse sarebbe stato meglio giocare una partita di pallone.

 

 

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