Parliamone

 

Chiamiamoli scontri, non incidenti

Ogni persona persa sulla strada è un danno per la società

Raccontare la propria esperienza per fare prevenzione su temi come le stragi, che avvengono ogni giorno sulle nostre strade per colpa della mancanza di responsabilità di tanti di noi. Ne abbiamo parlato con Elena Valdini, autrice di Strage Continua

 

a cura della Redazione

 

Elena Valdini è una giovane donna che ha deciso di fare la giornalista per il bisogno di cercare quella “onestà” nell’informazione, che non ha trovato quando nella sua vita si è abbattuto il dolore della morte di una persona cara in un incidente stradale. Ora ha scritto un libro, Strage continua, che affronta proprio la questione degli “scontri”, perché lei si rifiuta di chiamare “incidenti” degli eventi che capitano spesso non per caso, ma per irresponsabilità. L’abbiamo incontrata in redazione perché, all’interno del nostro lavoro di sensibilizzazione delle scuole sulla prevenzione dei reati e dei comportamenti a rischio, ci è sembrato che il suo sia il modo giusto di affrontare la questione delle vittime della strada.

 

Elena Valdini: Strage Continua è nato in due momenti: è nato 12 anni fa (ma non sapevo ancora che sarebbe diventato un libro, come non sapevo del resto che in seguito avrei cominciato a fare la giornalista) e poi è nato il 30 ottobre 2007. Provo a parlare con un poco di ordine.

Perché l’interesse per gli scontri stradali? Dodici anni fa, quando avevo 15 anni, ho perso per la prima volta una persona molto cara in uno scontro stradale – nel corso degli anni, purtroppo, ne sono seguiti altri.

Ciò che ha cambiato la mia vita dodici anni fa, è stata una delle cosiddette stragi del sabato sera: eravamo tutti andati a una festa per i diciott’anni di un ragazzo. Una serata come tante.

La mattina dopo, era domenica, l’ho passata a studiare perché il lunedì avevo il compito in classe di matematica: il sistema di Ruffini. Per tutta la mattina e per le prime ore del pomeriggio non ho saputo nulla – uno strano “silenzio” interrotto solo dalle parole di una compagna che al telefono mi diceva che la notte prima era successo qualcosa; che le sembrava di avere capito che era morto un ragazzo. La notizia transita per la mia mente ma non mi soffermo – anzi, provo a rimuovere.

Non ho saputo nulla sino alle quattro del pomeriggio; sino a quando non ho telefonato a una mia amica per chiederle di uscire a fare due passi. Ha risposto al telefono piangendo e mi ricordo di averle detto: “Non dirmi che hai litigato ancora con il tuo fidanzato!”. E lei – ricordo benissimo – mi ha risposto: “Non dirmi che non sai niente, perché non voglio essere io a dirtelo”. Le ho risposto con il nome della nostra amica perché in quel momento ho messo insieme i pezzi e ho capito che la notte prima non era morto un ragazzo, era morta una ragazza, e non so ancora spiegare come ho fatto ad avere chiaro chi fosse. Immagino che quella mia velocità di pensiero, di associazione, abbia trovato il suo senso nel “peso specifico” di quell’anomalo silenzio delle ore prima: nessuno sino a quel momento aveva osato dirmi, o non aveva trovato le parole per dirmi, che una della persone a cui ero in assoluto più legata non c’era più.

L’ho saputo così; tre minuti prima che cominciassero ad arrivare tutte le altre telefonate.

Ero sola in casa, ricordo di aver avuto una reazione isterica, quasi una sorta di riso – molto spesso mi capita di reagire così di fronte a notizie terribili, perché è come dire che non sta capitando a me – e poi ho urlato con quanta forza potevo.

La mattina dopo sono andata a scuola perché, avevo il compito in classe. Davanti all’ingresso del liceo ho letto la cronaca dello scontro che riportava il giornale locale. Un resoconto ampio e tecnico, ma che si chiudeva con dati inesatti. Le ultime cinque righe riportavano dei dati particolareggiati in merito alla vittima: dove abitava, che scuola frequentava… qui il primo errore; anche la data del compleanno era sbagliata.

Questi errori sono stati come una ferita nella ferita. In quel momento non avevo ancora messo a fuoco che cosa era successo, tanto che ero a scuola a fare il compito, cioè: ordine; avevo bisogno di ordine. Questi errori sembravano alimentare ancora di più il caos che stavo vivendo. Era come se in quel momento, in cui ero completamente stordita, avessi bisogno di molta cura, di molta esattezza, di molta precisione. Allora mi sono arrabbiata moltissimo per quell’articolo, non ho fatto nulla, ma mi sono domandata: perché?

Dodici anni fa frequentavo la quinta ginnasio, e nessuno veniva a scuola a parlarci di scontri stradali, di droga di alcol… Sì, sapevo delle stragi del sabato sera, però non c’ero ancora capitata dentro; non facevo nemmeno il ragionamento “tanto a me non capita”: era proprio qualcosa che mi ruotava intorno ma che non avevo mai messo a fuoco. Metterlo a fuoco a quindici anni significa metterlo a fuoco in una età molto particolare. Avevo bisogno di precisione, di cura; avevo bisogno di risposte e mi sono rifugiata nelle parole, mi sono rifugiata in alcuni romanzi, in alcune poesie.

Ho chiarissimi due ragionamenti che feci praticamente subito. Rifiutavo il concetto di fatalità. Ho rifiutato immediatamente il fatto che fosse stato un incidente, che fosse stato qualche cosa dovuto al caso. E poi ricordo anche che ero terrorizzata dall’imparare a soffrire sempre di meno: mi sentivo in dovere di fare qualcosa per continuare ad alimentare quel momento, perché mi sembrava quasi di venir meno a un rispetto, a un’attenzione, a un affetto: non volevo che il dolore si attenuasse.

Negli stessi mesi in cui mettevo a fuoco il concetto che stava alla base del non volere che si attenuasse il ricordo, si moltiplicavano le domande su quell’ “articolo sbagliato”; non riuscivo a capire come avesse fatto quel giornalista a scrivere inesattezze – per me – macroscopiche. È in quei mesi che ho cominciato a pensare che “da grande” avrei voluto fare la giornalista di cronaca nera.

A me non è che interessasse il mondo del giornalismo, ma mi offriva un’occasione: se non potevo recuperare la mia storia, dovevo provare a raccontarne altre di simili con la maggiore attenzione possibile, volevo dimostrare che si poteva davvero andare più a fondo.

Pochi anni dopo - lo racconto in quel capitoletto che si chiama “La stanza del figlio” – lavoravo già per le pagine locali de Il Giorno di Piacenza, mi sono trovata ad andare una mattina di agosto al Pronto Soccorso – perché il cronista di nera va prima al Pronto Soccorso, poi dai carabinieri, poi in questura e infine in tribunale.

Al Pronto Soccorso alle 8.30 mi dicono che c’è stato uno scontro mortale, è morto un ragazzo di 18 anni; e scopro che lo scontro è avvenuto nello stesso luogo in cui anni prima era morta la mia amica. Era agosto, non c’erano notizie e il giornale mi ha detto che serviva un pezzo lungo con le foto: sono dovuta andare a casa di questo ragazzo.

Quando ho suonato il campanello mi ha aperto sua madre. Non so quanto fosse eloquente la mia espressione… le ho detto: “Capisco”. Lei mi ha preso per mano e mi ha accompagnata nella stanza di suo figlio. È stata un’ “intervista muta”. Non ho fatto domande, ho osservato questa stanza, e ho cercato di raccontare questo ragazzo dagli oggetti che ho visto… è stata una specie di via crucis, e forse la mia esperienza di giornalista è finita quel giorno, perché avevo trovato quello che cercavo.

In seguito, quando ormai lavoravo per Il Giorno anche in nazionale, molte volte mi sono occupata del bollettino del lunedì mattina. Una volta in cui c’era bisogno di “montare su una pagina” mi chiesero di provare a contattare un’associazione di vittime della strada. E così ho contattato Roberto Merli, a Brescia, lui faceva già un grande lavoro nel 2004-2005… e io lo chiamai perché dovevo scrivere un nuovo articolo. Ho conosciuto Roberto così.

Nel frattempo ho scritto anche un paio di racconti: scrivevo quasi sempre de “la stanza del figlio” – come molti altri scrivo un po’ sempre la stessa cosa… sino a quando con l’editore, Chiarelettere, si è iniziato a parlare di fare un libro sul come si muore in Italia. L’argomento mi sembrava troppo vasto e così ho pensato che forse poteva essere l’occasione per lavorare e indagare in termini più completi il problema delle vittime della strada. Il dramma dei familiari meritava di esser sviluppato lungo tutto un libro, non in un capitolo.

Dapprima ho lavorato sull’emotività, attraverso i dieci monologhi sul dolore di cui immagino abbiate letto, sino a quando, nell’ottobre del 2007, mi è arrivata una e-mail di Roberto Merli responsabile a Brescia dell’Associazione italiana familiari e vittime della strada, Aifvs, che è un’associazione con circa 105 sedi locali, nate spontaneamente per iniziativa di familiari di vittime della strada.

Roberto Merli mi manda una e-mail, dove si dice che il 30 ottobre 2007 si sarebbe tenuta a Roma, in Piazza Santi Apostoli, una manifestazione; sarebbe poi seguita una conferenza alla Camera dei deputati intitolata “Giustizia per le vittime”.

Mi sono detta “provo ad andare”.

I familiari delle vittime della strada erano in presidio (non in corteo) in piazza Santi Apostoli: allestivano i gazebo, distribuivano materiale informativo, dei vademecum sulla guida sicura, sulle attività dell’associazione… E poi c’erano i genitori che srotolavano gli striscioni su cui erano riprodotte le immagini dei loro figli – grandi, grandissime, sgranate perché il lutto sgrana anche la risoluzione più alta delle immagini e appende arazzi ai muri perché gridino ancora più forte.

Reazioni composte e scomposte. Alcuni manifestanti hanno cercato di trasformare il presidio in corteo: che senso aveva star lì fermi in quella piazza dal sapore di ghetto? Bisognava invece farsi vedere da più persone possibili. E i passanti, che cosa facevano? In molti si sono fatti il segno della croce, come se stessero passando davanti ad un cimitero. Altri invece a sentire nominare morti - vittime - mattanza, 8.000 morti all’anno, omicidio colposo, omicidio volontario, facevano gli scongiuri, e allora, laggiù, mi sono detta: dove abita la natura di un gesto così violento? È davvero solo superstizione?

Ho poi seguito la conferenza alla Camera dei deputati e mi sono detta: quante cose non so, quante cose non so sulla giustizia (la modifica dell’articolo 111 della Costituzione non sapevo neanche cosa fosse, solo per farvi un esempio) non conoscevo i centri di assistenza delle vittime, non distinguevo l’omicidio volontario da quello colposo. C’è un motivo: per dodici anni non mi sono mai interrogata su che pena avesse avuto il responsabile dello scontro in cui è morta la mia amica perché non mi interessava. Mi bastava che quella persona non ricommettesse più quello che aveva commesso. A me non interessano “le sbarre”, non nutrivo desideri di vendetta. Per dodici anni mi sono concentrata solo sul mio senso di colpa: che cosa avrei potuto fare per impedire ciò che invece è successo? Probabilmente niente. Però questo dubbio non mi ha mai abbandonato, sostanzialmente non mi abbandona, e se ce l’ho io, posso solo immagine ciò che può privare un genitore.

Ecco che cosa ho capito in quella piazza, l’esasperazione che ho visto. Si parlò di giustizia per le vittime perché giustizia non c’è. C’è piuttosto un senso d’impunità molto diffuso. A cui si somma moltissima confusione, inesattezza. È per questo che mi sono messa a cercare delle risposte.

Quindi, in sintesi, ecco perché dicevo che Strage continua è nato da un lato dodici anni fa e, dall’altro, il 30 ottobre 2007: quel giorno mi sono detta che se volevo provare a spiegare agli altri ciò che avevo visto e vissuto, dovevo prima di tutto rintracciare le persone più competenti (tecnici, magistrati, avvocati, fisici, medici e familiari) in Italia perché mi aiutassero a parlare con precisione delle cause della strage stradale. Ho fatto “questo viaggio” non come giornalista, ma come cittadina. Ho lavorato sempre “fuori dal palazzo”. Dovevo spogliarmi degli strumenti del mestiere, dovevo riuscire a trovare le risposte non perché stavo indagando’ ma semplicemente perché, da cittadina, avevo bisogno di capire. Parallelamente c’erano due temi, centrali, importantissimi, che dovevo toccare: il senso di colpa e la vendetta. Del senso di colpa vi ho un poco parlato, mentre della vendetta scrivo che è un sentimento che non mi appartiene, o forse è un sentimento da cui ho provato a proteggermi. Su questa necessità del dubbio vorrei che lavorassimo.

Attenzione: i familiari delle vittime credono molto nella rieducazione. È centrale che una persona capisca dove e perché ha sbagliato e scelga di non commettere più ciò che ha commesso.

Per parlare di sicurezza stradale, parlare di vittime della strada, bisogna parlare di senso civico, bisogna parlare di cosa significa essere cittadino e del rispetto degli altri. Nel libro, in sostanza, parlo di una cosa: di responsabilità condivisa.

 

Marino Occhipinti: A me piace molto quello che fa Roberto Merli, purché la cosa, come posso dire, sia serena. Ho infatti il timore che, quando si è sopraffatti dal dolore, si possa rischiare magari di raccontare le cose con una carica, non dico di odio, ma perlomeno di risentimento, che secondo me andrebbe trasmessa il meno possibile, anche se è naturale che ci sia del risentimento, perché se uno ha perso il figlio o un’altra persona cara è inevitabile che racconti le cose con poca serenità.

Invece mi preoccupa un po’ il ruolo dell’associazione delle vittime: che cosa fanno veramente come associazione? Mi rendo conto che quel che dico può essere inquinato dal fatto di trovarmi in carcere. Qui ad esempio l’associazione delle vittime la vediamo in un modo sicuramente diverso da come viene vista fuori. Quello che ci spaventa è che l’associazione delle vittime della strada possa costituirsi parte civile in processi che, mi si passi il termine, quasi non la “riguarda”, magari anche dopo decenni dalla costituzione di quella stessa associazione, e per il solo fatto che si tratta di un processo per incidente stradale, col quale però l’associazione non ha un “coinvolgimento” diretto. Ci chiediamo quindi: qual è lo scopo per cui si presenta come parte civile al processo?

Elena Valdini: Per rispondere alla prima parte della domanda faccio un passo indietro: l’associazione, dal mio punto di vista, ha un ruolo importantissimo in Italia, fosse anche solo perché c’è unicamente quella. Sono 5.000 associati in 105 sedi, ma di Roberto Merli (che fa quell’encomiabile lavoro nelle scuole) ce n’è solo uno, e lo fa con grandissima efficacia. La sincerità della reazione degli studenti dice già quello che è necessario dire a proposito della prevenzione nelle scuole: conta più la testimonianza della tecnica.

L’associazione ha avuto un ruolo importantissimo, diventando il punteruolo delle istituzioni, con centinaia di lettere inviate a tutti i governi. Quando dicono che il dolore rende più attenti è vero, perché dopo che una cosa l’hai provata, la conosci, ne conosci gli elementi positivi e quelli negativi, e puoi farli notare a una persona che magari non li riconosce, non li vede.

La costituzione di parte civile da parte dell’associazione si riassume nel principio che ogni vita persa sulla strada è un danno per la società.

Non vorrei che si corresse il rischio di pensare che ci sia un gruppo di persone talmente addolorate, arrabbiate, “incattivite” che ad ogni occasione presentano il conto. Attenzione, perché questo è un nodo centrale. Il loro è un ruolo sociale importante, da qui la costituzione di parte civile. Non diamo per scontato che tutti i pubblici ministeri siano pronti a comprendere i sentimenti delle vittime. Non si corra il rischio di credere che la vittima sia garantita a priori, proprio perché vittima; perché persona che ha subito un danno. Perché quello che di fatto accade è che, nell’ambito del procedimento penale, l’imputato ha molte più garanzie di quante ne abbia la vittima. Purtroppo ci sono pubblici ministeri pigri, o oberati di lavoro, come in tutte le categorie: Questo non lo dico io, lo sostiene anche il sostituto procuratore Valter Giovannini, che lavora presso la procura di Bologna, con cui ho lavorato per questo libro. Per farvi capire meglio: questo significa che molti pubblici ministeri hanno risposto ai familiari delle vittime (come alcuni rappresentati dell’Aifvs mi hanno raccontato): “Il morto è morto, diamo un aiuto al vivo”.

Nell’ambito del procedimento penale i familiari della vittima non possono parlare. Si può discutere se sia o meno giusto che sia il familiare a comunicare al giudice quello che sta provando, ma certo è importante per lui nel momento in cui lo dice: non c’è un’attenzione molto indirizzata ai sentimenti delle vittime, soprattutto se siamo abituati a pensare che si tratta di “incidenti”.

È questo il valore della costituzione di parte civile dell’associazione: rimarcare ogni volta quello che è un problema sociale dal peso enorme, che ormai oggi in Europa viviamo solo noi con questa portata. Anche questo si chiama sensibilizzazione.

L’associazione è fatta di persone che si aiutano l’una con l’altra. Credo che chi riesce a rendere costruttivo ciò che gli è stato tolto, compie un grande atto di generosità, di coraggio, di amore e di speranza. Perché quello che loro mettono sul tavolo è propositivo, può essere imperfetto, si può discutere sulle proposte, intendiamoci bene, però è propositivo, parte dall’idea che i tempi sono maturi perché qualcosa cambi. Nella giustizia e nell’assistenza alle vittime, principalmente.

Ancora, in Italia non ci sono i Centri di assistenza per le vittime. Negli ospedali, nei Pronto Soccorso non ci sono materiali disponibili per chi ha bisogno… A Milano al Trauma Center del Niguarda c’è un punto di ascolto creato dall’associazione, ma non è che ci sia molto altro. Dobbiamo accontentarci di quel che riesce a fare l’associazione. Be’: non possiamo accontentarci! Quindi non c’è nessuna consulenza legale, o consulenza psicologica, e tutto purtroppo è rimesso a quante forze ha una persona per reagire; è importante allora che ci sia qualcuno che ti aiuti.

Per fare un esempio pratico, ancora sul lavoro dell’Aifvs: Roberto Merli, quando nella sua provincia legge che si sono verificati altri scontri mortali, scrive una lettera ai familiari della vittima in cui, in sostanza, si dice “se avete bisogno, ci siamo. Noi ci siamo già passati e possiamo aiutarvi”.

Secondo me non è poco. È moltissimo. E non dimentichiamoci che, ad oggi, è tutto quello che abbiamo. La quindicenne che ero aveva bisogno di risposte, a scuola non me ne hanno data nessuna. Ho perso degli amici e mi è mancato molto allora il confrontarmi con ragazzi che avessero perso anche loro degli amici sulla strada… Un familiare sceglierà se l’aiuto di altri gli può servire o no, ma che quell’aiuto ci sia è imprescindibile.

 

Marino Occhipinti: Io non ho nulla in assoluto contro le associazioni, il mio dubbio era sulla costituzione di parte civile, che possa in qualche modo turbare la serenità di giudizio del magistrato. Questo non è mai giusto, perché penso che ogni incidente stradale, o ogni omicidio colposo, e comunque ogni reato debba essere valutato a sé.

Sandro Calderoni: Il problema è il ruolo dell’associazione, che secondo me dovrebbe avere proprio la funzione di promuovere la prevenzione, appunto perché sono persone duramente colpite dalla perdita di una persona cara.

Una seria battaglia per la prevenzione, quella sì ritengo che sia utile cercando di vedere la questione nella sua complessità: dalla prevenzione sulla guida e sui comportamenti, come il guidare in stato di ebbrezza, o sotto effetto di stupefacenti, ma anche con le case automobilistiche, perché ha poco senso che in uno Stato dove il limite di velocità è di 130 km all’ora si vendano macchine che fanno i 250 o anche più. Dove l’alcol è in libera vendita addirittura in confezioni ad uso di una persona tramite macchinette, e ci sono locali che vendono alcolici e che continuano a farlo anche ai minori e a chi ha già superato il limite.

Penso che un ragazzo di 18 anni che provoca un incidente non abbia la consapevolezza di andare per strada a uccidere una persona. Non so se lei ha avuto modo di parlare anche con persone che sono state causa di un incidente. Forse sarebbe interessante perché anche loro hanno storie molto diverse, quindi forse varrebbe la pena porsi in una posizione più neutra.

Elena Valdini: Non vorrei sembrare facilona ma, per riassumere, le persone che hanno causato uno scontro si dividono un po’ in due categorie, quelle che hanno avuto la vita segnata, e non ne vogliono parlare, e poi ci sono persone (spesso recidive) che probabilmente non sono disposte a partecipare a un lavoro corale di riflessione.

Ma non volevo comunque rinunciare ad affrontare anche questo aspetto, allora sono andata in un centro di riabilitazione per cercare la testimonianza di qualcuno che, sopravissuto allo scontro riportando un danno gravissimo, mi spiegasse – avendo magari fatto tutto da solo – come è poi cambiata la sua percezione della strada. Ho raccolto la testimonianza di tre persone. Una in particolare ha fatto tutto da sola su se stessa, un colpo di sonno in un momento in cui, giovanissima, faceva tante cose, è successo vent’anni fa (perché mai avrei raccolto la testimonianza di un lutto fresco) e mi ha detto: per fortuna che non ho provocato nessun danno ad altre persone, per fortuna sono le mie gambe a non camminare più e non quelle di un’altra persona… Tutti e tre hanno poi raccontato di come sia cambiata in loro la percezione dei rischi. Tutti e tre incontrano abitualmente studenti di medie e superiori per contribuire a quel macro contenitore che si chiama “educazione stradale”.

Io sono una di quelle persone convinte che anziché inasprire le pene si debba fare prevenzione, ma con verità. Perché Roberto Merli “funziona” nelle scuole? Perché parla con verità agli studenti. Questo fa la differenza.

 

Sandro Calderoni: Secondo me manca proprio una forma di educazione, un difetto tipicamente italiano. Sfido chiunque a valutare se stesso anche su una semplice cosa come passare con il rosso. È una banalità perché magari ha guardato non ha visto nessuno ed è passato con il rosso, però fa parte di quello scarso senso della legalità che abbiamo nel nostro Paese.

Ma se è proprio una mancanza di educazione, allora bisogna puntare sulla prevenzione, invece che considerare un incidente come omicidio volontario anziché come omicidio colposo. Se a un ragazzo di 18 anni dai una macchina che va a 300 all’ora è difficile che vada a 120, quanto meno farà i 180. Se gli alcolici, anche non venduti in discoteca, sono disponibili nelle macchinette, è chiaro che gli incidenti ci saranno sempre. È invece necessario agire attraverso la prevenzione prima che gli incidenti accadano: perché è giustissimo che una punizione ci sia, anche quello fa parte del sistema educativo, ma secondo me non si possono dare 12 anni di galera a uno che fa un incidente stradale. Non ha senso. Che cosa impara? Quando esce cosa ha imparato? Si è fatto 12 anni e magari non si è neanche reso conto fino in fondo della sua responsabilità.

Vanni Lonardi: Io vedo una cosa molto positiva e molto utile nel momento in cui si presentano al Parlamento delle proposte, quando si interviene per dare sostegno e aiuto alle vittime o quando si fa prevenzione nelle scuole, questo trovo che sia il ruolo fondamentale che deve avere l’associazione.

L’associazione dovrebbe essere aperta a tutti perché porta avanti obiettivi nell’interesse di tutti, e dovrebbero farvi parte tutti, compresi forse gli autori degli incidenti, che hanno alle loro spalle una famiglia anche loro, quindi per tutti è importante che gli incidenti diminuiscano.

Mentre quando le vittime, o l’associazione che le rappresenta, si presentano in piazza insieme ad altre associazioni, come l’associazione delle vittime per il terrorismo, allora si finisce un po’ per mescolare due cose completamente diverse, e quindi nel momento stesso in cui le associazioni si presentano nei processi, si rischia di influenzare soggettivamente il giudizio di un giudice.

Una pena, anche pesante, non potrà mai compensare la perdita di una persona cara, e non credo che le pene esemplari, come quelle che ultimamente stanno comminando, possano servire da deterrente.

Adesso quella che era considerata una aggravante, la questione dell’ubriachezza, è stata trasformata in un certo senso in un vero e proprio tipo di reato. Le ultime sentenze hanno trasformato in omicidio volontario quello che era un omicidio colposo. Però anche la velocità è una aggravante, anche l’uso del cellulare quando si è al volante. Di questo passo le pene diventeranno sempre più alte, perdendo di vista quello che dovrebbe invece essere l’aspetto fondamentale, la prevenzione.

Elena Valdini: Allora per quanto riguarda la manifestazione, solo in quel caso c’erano i familiari delle vittime della strada insieme ai familiari di altre associazioni. Perché altre associazioni? Perché la manifestazione chiedeva giustizia per le vittime tutte: la richiesta di modificare l’articolo 111 della Costituzione riguarda tutte le vittime e tutti i familiari delle vittime.

Facendo invece un discorso più ampio per quanto riguarda la metodologia d’intervento per arginare la strage stradale, credo che solo dopo aver lavorato in tutte le direzioni uno possa capire che cosa funziona e che cosa no. Purtroppo in Italia molto è lasciato alla volontà dei singoli e all’impegno della associazioni: manca un intervento organico, quindi, dobbiamo accontentarci in questo momento di tentativi, sperando che si trovi la strada dove si incomincia a capire e dove poi le cose si strutturano: siamo terribilmente indietro rispetto a tutti gli altri Paesi europei.

Quanto alle ultime sentenze, come quelle “esemplari” di dieci anni o sedici anni circostanziate ai casi di Roma: noi non abbiamo bisogno di sentenze esemplari, abbiamo bisogno, in attesa che si strutturi e che arrivi la prevenzione, che le persone sappiano che non bisogna guidare rispondendo al telefonino, come non bisogna guidare a 90 all’ora in un centro abitato, come non bisogna bere o assumere sostanze quando si è alla guida. Per quanto mi riguarda, la sentenza “esemplare” è importante nel momento in cui contribuisce alla deterrenza.

L’introduzione nel 589 della norma che specifica l’omicidio colposo per guida in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di sostanze (che non è ancora un 589 bis) è molto importante secondo me e secondo le persone con cui io ho lavorato.

È importante perché io non posso punire allo stesso modo chi, veramente, per una concomitanza di casualità, investe accidentalmente e uccide una persona e chi invece perché ubriaco o drogato provoca la morte di una o più persone mentre è alla guida.

Si discute molto sul dolo eventuale e sull’introduzione appunto dell’omicidio volontario, e su quello che poi è il nodo centrale, cioè l’accettazione del rischio. Se mi metto alla guida ubriaco o drogato accetto il rischio di uno scontro stradale, anche mortale.

È chiarissima, e lo ripeto ancora una volta, la centralità dell’educazione e della prevenzione, però parallelamente nei tribunali deve esserci una giustizia che dia delle risposte ai familiari (e alla società), che sia giusta.

 

Silvia Giralucci (volontaria): Perdonatemi, ma mentre di solito quando abbiamo parlato dell’importanza della prevenzione ho sempre condiviso in toto tutto ciò che è emerso dalle discussioni in redazione, oggi, ho sentito per la prima volta un senso di fastidio. Poco fa qualcuno ha detto: “Quando il fatto è successo, è successo. Cosa cambia se è omicidio volontario o colposo? Pensiamo piuttosto alla prevenzione!”. Ecco, che dal carcere emerga la richiesta di spostare l’attenzione sulla prevenzione, piuttosto che sulla colpa e sulla pena, a me suona male. Mi sembra un modo di allontanare il problema. Alla prevenzione si deve pensare, ma l’assunzione di responsabilità è necessaria. E secondo me chi si mette alla guida dopo aver bevuto 3 gin tonic rischia di ammazzare qualcuno e lo sa – e se non l’ha messo in conto ha sbagliato a valutare – e a me non sembra tanto strano che possa essere valutato come un omicidio volontario. Responsabilità e prevenzione sono temi che vanno bilanciati.

Sandro Calderoni: Quando si parla di incidenti stradali secondo me nessuno è immune da rischi. Per non fare un incidente stradale bisogna proprio essere molto attenti. E quando accadono, non è che chi è alla guida sapesse o avesse l’intenzione di fare un incidente, ed è questa la differenza tra volontario e colposo. Magari mi è capitato tante volte di mettermi in macchina dopo aver bevuto qualcosa, e non è mai successo niente. Quella volta che mi succede non è che io avessi avuto l’intenzione e la consapevolezza di fare un incidente.

Marco Libietti: Per me invece una persona, prima di cominciare a bere o a usare droghe, sa perfettamente che se lo fa e poi va in macchina e può provocare un incidente in cui muore una persona, commette un omicidio, per cui automaticamente sa quello che sta andando a fare.

Io ho letto il libro di Elena e mi sembra che il concetto basilare sia quello della responsabilità collettiva, condivisa, e poi una richiesta forte di prevenzione, e però c’è secondo me un corto circuito tra pena e prevenzione. Bisogna fare molta prevenzione perché i famigliari delle vittime non chiedono in assoluto vendetta, chiedono giustizia, e chiedono quello che non dovrebbe più accadere, e nello sperare che non accada di conseguenza si cerca prevenzione.

Ma allo stesso tempo, nel momento in cui leggo l’intervento di Giuseppina Mastroieni, presidente dell’Associazione italiana famigliari e vittime della strada, un intervento molto duro che dice che bisogna fare prevenzione, ma andare anche a chiedere nel contempo una giustizia vera e propria, penso che le due cose si mettono assieme soltanto se si tengono unite le due parti. Cioè se le vittime, i famigliari delle vittime, e non dico chi la provocato l’incidente, ma i famigliari di chi l’ha provocato, lavorano assieme, perché se non li fai lavorare assieme rimarranno sempre due cortocircuiti separati, dove da una parte ci sarà chi alla fine chiederà comunque sì prevenzione, ma una pena maggiore, dall’altra parte ci sarà chi dirà “sì prevenzione, però può capitare a tutti, e le pene cerchiamo di non pensarle sempre allo stesso modo, cioè più carcere..”.

Allora secondo me se io non metto assieme queste due parti, non arriverò mai a fare un lavoro reale di responsabilità condivisa.

Franco Garaffoni: Io vorrei tornare al tema dell’incidente come omicidio volontario: se si dice che mettersi alla guida in stato di ebbrezza, o sotto effetto della droga, significa avere la consapevolezza di provocare un incidente, vuol dire che l’autista ha anche la consapevolezza di mettere sul piatto della bilancia la propria morte. E che una persona dica: “Io guidando in questo stato so di fare un incidente, di conseguenza rischio la morte io stesso”, mi sembra abbastanza complicato. Su questo vorrei porre l’attenzione quando si discute di queste situazioni: stiamo parlando di omicidi - suicidi?

Per quanto riguarda il libro, io considererei innanzi tutto il momento politico che stiamo vivendo, perché indubbiamente tutto quello che sentiamo, sia a livello mediatico che nella politica, tutto quello che stanno ottenendo i comitati delle vittime, è semplicemente un inasprimento delle pene. E praticamente a livello mediatico tutte le vittime, quando vengono intervistate, chiedono giustizia, ma se si parla di pene 10, 12, 16, 20 anni non vanno mai bene, insomma non c’è un limite alle loro esigenze.

Lei invece ha detto al’inizio “basta sapere che non commetta più quello che ha fatto”, e questo non si risolve certamente con l’aumento delle pene e con la carcerazione. Perché noi che stiamo vivendo la carcerazione, capiamo benissimo la scarsa utilità di una pena detentiva, cioè il ragazzo che viene arrestato e viene messo in carcere per lo più non ha nessun tipo di aiuto, non fa nessun tipo di percorso, la consapevolezza di quello che ha fatto non la ottiene nelle 206 carceri che ci sono in Italia, anzi è facile che esca più arrabbiato di prima e senza aver capito la gravità di quello che ha fatto. Perché con la mancanza di risorse e di personale che c’è oggi nelle carceri, il detenuto è un vuoto a perdere, perciò prendere un ragazzo al primo reato e sbatterlo in galera ha poco senso.

Ma in opposizione alla strumentalizzazione delle vittime che spesso avviene, mi sembra che queste associazioni abbiano una forza maggiore in mano, che dovrebbero sfruttare in un modo migliore, senza farsi usare. Allora, se davvero quello che conta è “che non commetta più quello che ha fatto prima”, vuol dire che bisogna lavorare su chi ha commesso questo reato, ma in carcere questo non si fa, e questo glielo possiamo assicurare noi che siamo qui.

Bardhyl Ismaili: Anch’io ho letto il libro, e devo dire che mi è piaciuto, inoltre ho l’esperienza diretta della perdita di un mio famigliare avvenuta per un incidente in macchina, in Albania, però quello che mi ha colpito è che tutti dicono che vogliono una giustizia fatta di aumenti di pene, ma la gente crede veramente che se le pene fossero inasprite domani, il numero degli incidenti calerebbe?

Ornella Favero: Anch’io come Silvia notavo oggi da parte di molti un atteggiamento difensivo, però cerco non di giustificarlo, ma di fare alcune osservazioni in proposito. Qui secondo me sono troppo intrecciati tre grandi problemi, almeno io ne vedo tre, quello della prevenzione, quello della giustizia, e quello che si fa o che viene fatto, o che non si fa per le vittime, che sono anche i tre settori su cui lavora l’associazione delle vittime.

Se io guardo l’ultimo anno, vedo che le ultime pene comminate sono state dai 10 ai 16 anni per questo tipo di omicidi. Allora questo secondo me deve farci ragionare sul fatto, che nel nostro Paese non si fa prevenzione perché non ci sono problemi ma emergenze, e di conseguenza le emergenze usano sempre le vittime, questo lo possiamo dire credo. Perché basta vedere come fanno i servizi le televisioni su questi reati, qualche giorno fa abbiamo visto addirittura che sono andati durante una veglia funebre ad intervistare i genitori.

Noi comunque vedendo le cose anche dal punto di vista di chi commette il reato, vediamo le storie loro e delle loro famiglie, allora queste persone, pur con tutte le loro responsabilità, non possono essere usate come casi esemplari per sensibilizzare la popolazione. Perché nel nostro Paese, non riuscendo a fare prevenzione, vorremmo usare i processi e la costituzione di parte civile per sensibilizzare, cioè per fare quello che si dovrebbe fare da altri parti e non nelle aule dei tribunali.

Allora a me piacerebbe separare le due cose in qualche modo, affrontandole tutte e due: come si fa prevenzione e cosa vuol dire che le vittime chiedono giustizia.

Non è che noi diciamo che il carcere non va mai bene, qui dentro la responsabilità e la consapevolezza esistono, il problema è capire chi sono i responsabili di questi reati, e quale pena ha un senso per loro. Se parliamo delle pene giuste per questi reati e della giustizia che potrebbero avere le vittime, io sono convinta che bisognerebbe trovare altre forme di pena. Quando tu Elena ci descrivi quel Centro di riabilitazione, penso che se un ragazzo che ha provocato un incidente e ha ucciso qualcuno perché era ubriaco, viene messo a lavorare tutti i fine settimana in un centro così, impara certo di più che in carcere. Così come penso che servirebbe la mediazione penale, cercare di fare un percorso che metta l’autore del reato di fronte al dolore della vittima, invece di metterlo in carcere, dove le vittime neanche le vede, e viene travolto dal fatto che comincia a sentirsi lui vittima, tutti questi penso siano temi da toccare.

Quando si parla invece di omicidio colposo o omicidio volontario, a me non piace quando qui dentro dite che uno non può mettere in conto l’incidente perché altrimenti dovrebbe mettere in conto di uccidersi, perché c’è anche sempre un prima, cioè una persona che va in discoteca e sa che beve, e che poi deve guidare, o è un deficiente totale, oppure accetta il rischio.

Allora su questo bisogna discutere di più perché la responsabilità esiste, anche se a me non piace la trasformazione dell’omicidio colposo in omicidio volontario, non mi piace perché io credo che molto spesso quello che il cittadino comune non coglie è che la legge è fatta non per i casi estremi, ma per i cittadini comuni, e un giudice valuta se c’erano o no delle aggravanti. L’aggravante forse è diversa per quel ragazzo che soffriva di depressione, ha commesso un omicidio colposo, ma poi si è impiccato, rispetto a quello che ogni fine settimana se ne sbatte di tutto perché gli piace la trasgressione. Ma se tu trasformi il reato in omicidio volontario, secondo me ti togli questa possibilità di valutare le situazioni e le persone, cioè crei una categoria di reati e basta.

Per questo torno a dire che a me piacerebbe che le associazioni delle vittime diventassero qualcosa di più aperto, per esempio appunto l’associazione delle vittime della strada potrebbe essere l’associazione per prevenire gli incidenti, perché ragionare sulle responsabilità significa vedere tutte le componenti di queste storie così complesse.

Elena Valdini: Il rischio che ognuno si organizzi un po’ da sé (e vada avanti per tentativi) perché non c’è quello che dovrebbe esserci, cioè una prevenzione seria, questo alla fine è vero.

Specifico: io non rappresento l’associazione; ho solo raccolto la testimonianza di molti familiari e il loro lavoro, contestualizzandoli poi all’interno del libro. Per conoscerli da vicino, dovreste incontrarli perché comunque, se ve ne parlo io, posso riportarne un’immagine, spero il più possibile vicina al vero, ma comunque filtrata dal mio sguardo, dal mio ascolto, dal mio sentimento.

Io posso trovare aspetti positivi o negativi nell’associazione ma, a conti fatti, scelgo nella mia analisi finale di privilegiare gli aspetti positivi, perché oggi c’è solo quella realtà lì… E magari, per rispondervi, potesse essere usata di più!… Avremmo già fatto un grandissimo passo avanti in visibilità, importanza e peso.

Per esempio: mi sono arrabbiata molto quando in piazza Santi Apostoli durante la manifestazione ho visto testate giornalistiche televisive intervistare le grida delle madri, non le madri che gridavano, proprio le grida delle madri, e mandare in onda quello. All’associazione non interessa che vada in onda la lacrima della madre: all’associazione interessa che si spieghi qual è il loro lavoro nell’ambito delle richieste per gli interventi normativi necessari e nell’ambito della prevenzione.

Interventi normativi. Allora: non è che i genitori chiedano (almeno per quello che mi è sembrato di cogliere alla fine) 10, 12, 15, 20, 25 anni di carcere, no non entrano nemmeno nell’ordine di idee di quantificare loro la pena equa, quello poi lo deciderà il giudice… ma non chiedono – attenzione – nemmeno il carcere, inteso come “sbarre” (inteso nel senso del discorso toccato prima). Chiedono l’applicazione rigorosa della legge: e se la legge prevede la reclusione, reclusione deve esserci. Parlavamo prima di quel dilagante senso d’impunità…: non potete immagine quanti genitori mi hanno raccontato di aver rivisto il responsabile dello scontro in cui era morto il figlio di nuovo al volante dopo una settimana, e magari a correre a 90 all’ora nel centro del loro paese.

Giustizia significa allora che quella persona non deve guidare più sino a quando non avrà dimostrato di non essere più un rischio per la società: via la patente per tre anni come fanno in Inghilterra. È di questo che stiamo parlando, non di pene esemplari. Stiamo parlando di giustizia, non di vendetta.

Dov’è allora che il sistema s’impalla? All’origine, praticamente. Come viene ripresa la patente in Italia? Con un esame in cui si arriva, si frequenta, si firma, costa circa 250 euro. Ma questa persona può guidare di nuovo? Guardate, non arrivo nemmeno a pensare che ci sia stata una vittima; penso a un ragazzo che ha bevuto (o ha preso delle sostanze), che va a 150 all’ora su una provinciale e viene fermato con 1,5 di tasso alcolico… Bene, penso che per riavere la patente questo ragazzo debba andare tutti i giorni per settimane e settimane ad assistere i disabili in centri di riabilitazione come quello di Villanova sull’Arda, o Montecatone, dove troverà decine di suoi coetanei sulla carrozzina.

Purtroppo che cosa succede invece? Succede che stiamo a dibattere su “sentenze esemplari” (due, tra parentesi) e finiamo per credere che tutti gli scontri stradali mortali siano provocati dalla guida in stato di ebbrezza o sotto effetto di sostanze. Sbagliatissimo: alcol e droga pesano per il 40 per cento degli scontri stradali gravi. Perché non ci parlano di velocità? Di mancate precedenze? Di telefonino alla guida?

Ancora oggi in Italia manca un bollettino quotidiano dei caduti.

Volete sapere quante sono le vittime ogni giorno per incidenti stradali in Italia? Guardate su Google News, cercate incidenti stradali, perché purtroppo “scontri su strada” non viene utilizzato come formula, e lì compariranno tutte le persone che sono rimaste vittime in Italia nell’ultima settimana e oltre. I giornali questo non ce lo dicono, per lo più insistono sulle pene e basta. Il paradosso di uno degli ultimi decreti sicurezza è che il nostro legislatore è intervenuto sulla sicurezza stradale aumentando le pene, e nello stesso tempo con il decreto fiscale tagliava i fondi al Piano nazionale di sicurezza stradale. Ma del taglio fiscale si è parlato moltissimo, perché si parlava dell’abolizione dell’ICI, si è parlato pochissimo di dove sono andati ad attingere i fondi per questi tagli.

Attenzione allora, tentiamo di non trattare questo argomento raccogliendone le coordinate dai giornali, perché purtroppo c’è un vizio di fondo: sui giornali non ci sono le informazione che invece dovremmo avere, per esempio che i finanziamenti dal 2004 al 2006 per il piano nazionale di sicurezza stradale sono stati azzerati. A questo proposito, quando è uscito il mio libro qualche collega generoso nei miei confronti ha parlato di “un grande scoop”… A me veniva un po’ da ridere, perché io sono andata su internet, sul sito del CNEL, e mi sono scaricata il libro bianco sulla sicurezza stradale, i dati erano a disposizione di tutti… È questa la grande fatica, è importantissimo parlarne.

Io qui invece non sono la persona più adatta a parlare di omicidio colposo o omicidio volontario, però credo fermamente nell’accettazione del rischio.

Allora giriamo la questione: in molti mi stanno chiedendo come guido. Io so che non guiderò mai parlando al telefono, avendo bevuto, o sotto effetto di sostanze, che non supererò mai il limite di velocità (ragion per cui mi prendono in giro in molti) quindi io penso di aver abbassato la soglia di quei rischi di cui ho conoscenza, ed essere ormai nella sfera degli incidenti, che non si possono controllare.

Sergio Lotta, il primario di quell’ospedale per la riabilitazione di cui vi ho parlato, mi ha detto che la conoscenza è libertà, e che meglio conosciamo i rischi che possiamo correre in strada e più siamo più attenti, più siamo liberi. Allora ho chiesto a lui come guida, lui che vive a contatto con questa realtà tutti i giorni, e mi ha detto: “Non posso essere prigioniero della paura”, ribadendo poi la conoscenza come libertà.

 

Prince Obayangbon: Dal mio punto di vista l’associazione non ha niente da rimproverarsi, perché chi ha perso qualcuno di caro deve aggrapparsi dove può per avere la forza di andare avanti, non è facile magari vedere che quello che ha provocato il tuo dolore domani è lì di nuovo a guidare.

Noi qui non abbiamo una posizione sola, stiamo tutti provando a capire la situazione, discutiamo di come migliorare le cose, non difendiamo, solo perché siamo qui, chi commette questi reati. Però l’incidente sappiamo che cosa è, speriamo che non succeda a uno che non fa niente di contrario alla legge, cioè che non beve e non si droga, ma può succedere anche a queste persone un incidente.

Se questo governo allora mette una pena esagerata come base, forse chi ha fatto un incidente per una cosa che proprio non ha voluto si troverà in carcere, e questo può succedere ad un famigliare di qualsiasi persona, perciò io spero che più passa il tempo e meno lo Stato usi questo come pretesto per creare emergenze.

Adnen El Barrak: Per quanto riguarda chi guida ubriaco, vorrei dire una cosa: io personalmente, quando ero fuori, ho guidato tante volte ubriaco, e grazie a Dio non ho mai fatto neanche un incidente, però sono in carcere per concorso in omicidio, e quel giorno quando è successo l’omicidio ero ubriaco. Quindi qualcosa in comune c’è, se non capitava così forse sarebbe capitato lo stesso in modo diverso, perciò la consapevolezza ce l’ho, perché spesso penso a come sono andate le cose.

Ma il messaggio che adesso mi hai trasmesso è quello della prevenzione, nel senso che tu vuoi parlare con le persone per fare prevenzione, forse hai ancora dolore dentro di te che sicuramente trasmetti agli altri, e secondo me questa è la cosa importante che io ho avuto da questo incontro, quello che mi ha colpito dentro. A me non piace parlare delle questioni giuridiche, processi, giudici, pene, a me quello che mi ha colpito sono le emozioni, le sensazioni che emanano le persone.

Io non ho letto il libro, ma mi piace l’incontro con le persone perché mi porto sempre via qualche emozione, secondo me la strada giusta è proprio quella degli incontri con le persone per far riflettere, per mettere tutti in condizione che quando tornano a casa pensino a quello che hanno ricevuto, poi la galera non c’entra niente cioè più galera meno galera non è quello il punto, una punizione c’è e ci sarà, ma non serve sicuramente a far riflettere le persone, almeno non quanto sentire la sofferenza che è stata provocata con i propri gesti, questo è il mio punto di vista.

Elton Kalica: Vorrei aggiungere una cosa. Noi qui oltre a fare informazione, ci siamo fatti carico di un altro obiettivo che è quello di fare prevenzione, cioè ci sono detenuti che vanno in permesso nelle scuole, e poi le stesse scuole vengono qui dentro, e noi facciamo questi incontri un po’ come fa anche Roberto Merli, che ha perso un figlio in un incidente, e di cui lei parla nel suo libro.

Io credo che se noi possiamo dire con convinzione che facciamo prevenzione è perché quando andiamo a parlare con i ragazzi, raccontiamo semplicemente i percorsi sbagliati che abbiamo fatto e che ci hanno portato in carcere, e raccontiamo la nostra esperienza nel carcere, cioè che cosa significa stare chiusi in una cella per 20 ore al giorno, che cosa significa dover chiedere all’agente di aprirti il cancello per andare a fare la doccia, ecco noi raccontiamo queste cose e basta. Perché sappiamo che se si va a dire ai ragazzi che se uno spaccia prende 10 anni di galera, o se uno uccide ne prende 30, i ragazzi non capiscono, cioè lo sanno, ma non pensano mai di potersi trovare un giorno a dovere fare10 anni di carcere, pensano invece che “tanto in galera io non ci finirò mai”.

Mi ha stimolato il discorso di Adnen, che in pratica dice: io non ho letto il libro, ma quello che c’è scritto difficilmente mi avrebbe suscitato le emozioni, che invece mi ha suscitato ascoltare personalmente delle testimonianze.

Ecco è questo che noi crediamo potrebbe funzionare in questo lavoro di prevenzione fatto da parte di una associazione di vittime, o comunque da chi ha subito un incidente stradale. L’associazione delle vittime è una cosa giusta, perché io credo che per le persone che vengono accomunate da un dolore la motivazione di riunirsi in associazioni sia quella di scambiarsi delle informazioni, di scambiarsi le esperienze e di trovare un supporto per superare anche i momenti difficili. Ma poi quasi sempre immagino che si entri in un vortice di rivendicazioni rispetto ad una giustizia che non funziona, rispetto a dei giudici che sono troppo buoni, rispetto a persone che in carcere non entrano mai. Se l’obiettivo però è quello di fare prevenzione, non credo che lo si raggiunga andando a dire appunto che la giustizia non funziona, o che le pene non sono abbastanza alte, perché in quel caso chi ascolta, il cittadino comune, il ragazzo delle scuole elementari, o il liceale o anche l’universitario, ti dirà solo, “sì è giusto! chi sbaglia deve finire in galera!”. Però poi il sabato va lo stesso a bere, ubriacarsi e guidare.

Allora io dico che queste pretese riguardo alle pene possono anche essere giuste o meno giuste, ma non dovrebbero oscurare quello che è un discorso di prevenzione, cioè cosa significa fare un incidente, quindi il dolore che causi alla persona che investi e il dolore che causi a te stesso.

Per questo mi piacerebbe che queste associazioni non siano solo associazioni di vittime, ma che siano associazioni che si pongano l’obiettivo di fare prevenzione e raccolgano all’interno parte della società proveniente da diversi campi. Io non dico solo i famigliari di chi viene investito e i famigliari di chi l’incidente lo ha provocato, ma anche altre componenti della società come insegnanti, medici, perché soltanto in questo modo si riesce ad uscire da quel vortice di rivendicazioni che io credo che non aiuti a raggiungere l’obiettivo della prevenzione.

Elena Valdini: Riflettevo ora sul che cosa hanno in comune con voi le persone che vengono alle presentazioni del mio libro, e ho pensato che hanno in comune i giornali che leggono, che leggiamo… be’, stavo per cadere nella “trappola” anch’io. Penso a tutti gli articoli che ho ritagliato e che poi ho messo da parte e più consultato… Perché? Perché si assomigliano. Per Strage continua sono dovuta andare oltre alla “nota fonte”, senza comunque lavorare a un’inchiesta. È questo che ha fatto la differenza, solo che è una strada molto più lunga.

Penso che se dovessi andare in una scuola non andrei certamente a parlare di leggi, penso che racconterei la mia storia, così come ho tentato di raccontarla a voi; racconterei che ero ragazza come loro in quel momento e che ho sofferto molto, e ho cercato poi di capire tutto quello di cui avrei avuto bisogno: se non c’era allora perché non può esserci oggi? Di questo parlerei.

So che anche voi andate nelle scuole, e che fate questo lavoro portando la vostra testimonianza, quindi facciamo la stessa cosa.

Vittime della strada:

vittime di una mancanza di responsabilità condivisa

 

recensione di Marco Libietti

 

Mancanza di responsabilità condivisa… questa l’estrema sintesi del significato e del messaggio che ci arriva da “Strage continua” di Elena Valdini. Un libro scorrevole, preciso, condito con storie, esperienze, incontri, interviste e ricerche tutte ben strutturate, che alzano la saracinesca su un problema gravissimo, le vittime della strada, che causa ancora oggi in Italia 6000 e più morti all’anno, e che l’opinione pubblica e la società nel suo complesso sembrano confinare nell’ambito del caso… di qualcosa che, purtroppo, fa parte dell’imprevisto che può accadere (di solito agli altri, dato che più o meno ognuno di noi tende ad escludere il pensiero di poterne essere toccato) e che va accettato come “ingrediente naturale” della vita collettiva.

Leggendo il libro, però, ci si accorge che le cose non stanno proprio così, perché tanto si potrebbe fare, mentre molto poco viene fatto nel nostro Paese soprattutto se confrontato con i dati dei nostri partner europei e gli obiettivi posti dall’Unione Europea.

Si va da paesi come Svizzera, Svezia e Francia che investono 20 euro l’anno pro-capite sulla prevenzione in questo settore per arrivare a noi, solitario fanalino di coda che dallo ZERO del triennio 2004-6 siamo riusciti ad “elevarci” ad uno 0,90 (euro) nel 2007-9. Per constatare infine che, per non venir meno alla promessa elettorale sull’abolizione dell’ICI, questo governo ha dimezzato i fondi per la prevenzione nel DPF del triennio 2009-11 (da 35 ml a 17,5 ml)… come dire: vi togliamo l’ICI ma qualcuno dovrà pagare con la vita!

Il quadro che ne esce è, da un lato, drammatico nella narrazione dei famigliari di V. (V. è il modo, in cui l’autrice definisce ogni Vittima della strada) e delle vittime stesse (sì… ci sono pure 912 feriti al giorno e alcuni di loro riportano danni permanenti, e una visita nei centri di riabilitazione sarebbe più istruttiva di valanghe di parole e proclami di cui abbonda quotidianamente il nostro Paese)… dall’altro lato ne esce un quadro di quasi assoluta assenza dello Stato e delle istituzioni.

In mezzo a questo mare di nulla e di abbandono spiccano le parole e le azioni di persone come Roberto Merli, responsabile a Brescia dell’Associazione italiana familiari e vittime della strada, che si è caricato sulle spalle l’onere della prevenzione nella sua provincia (Brescia) coinvolgendo negli anni ben 323 insegnanti; Pubblici Ministeri come Walter Giovannini che, nella quasi totale assenza dello Stato, che come unico atto interventista ha alzato le pene nell’ultimo pacchetto sicurezza (tagliando i fondi per la sicurezza sulle strade… questo va sempre ricordato!), applica un metodo proprio: se uno ci è ricascato dopo 2 precedenti vuol dire che non ha capito o se ne frega, quindi la sua richiesta (peraltro accolta dal Tribunale del riesame di Rimini) è di arresti domiciliari sino all’esito del processo; medici come Sergio Lotta, primario nell’Unità Spinale di Villanova nel piacentino, che dice “Conoscere i traumi, vedere i nostri pazienti aiuta, aiuterebbe. Basterebbe visitare ogni tanto un centro come il nostro e tante parole potrebbero essere evitate, mentre potrebbero realizzarsi molti più fatti”.

In tutto questo emerge il solito, atavico problema del nostro Paese: quando scatta una presunta emergenza, c’è sempre un grande clamore, enorme sdegno, tambureggiante grancassa mediatica su qualche incidente più clamoroso di altri, poi, come si fosse trattato di un gossip, tutto svanisce e i parenti di V. e le vittime stesse si trovano in un limbo, dimenticate, abbandonate nel loro dolore, nei loro problemi economici e psicologici, oltreché fisici… in balia di uno Stato assente, di assicurazioni che tirano a non pagare, di furbetti che falsificano pure i tagliandi assicurativi, di processi troppo lunghi e di sentenze che lasciano l’amaro in bocca e il sentore di pressoché totale impunità…

Questo libro dà invece voce a chi subisce tutto questo, spiegando come stanno le cose, dicendo che sì le pene devono esserci ma la soluzione forse non sta tutta lì, e che se ci fosse, come in altri Paesi, una cosciente e profonda responsabilità condivisa si potrebbero evitare tanti drammi e prevenire tante morti, e anche tante pene che non portano a capire e migliorare ma solo ad ergere barricate emotive ancora più alte e difficili da smantellare.

È un libro che dovrebbe essere consigliato, divulgato e discusso in tutte le scuole, dovrebbe essere inserito come materia fondamentale nei corsi di “rieducazione” civica, negli esami per patenti e patentini, perché con la sua semplicità e la sua essenzialità è alla portata di tutti e può servire per aprire un varco nelle coscienze, per aiutare ognuno di noi a capire e ad assumersi, finalmente, le proprie responsabilità. Ma è un libro che andrebbe letto anche in carcere con attenzione, perché qui dentro è importante ragionare sulla responsabilità, a fronte di scelte passate irresponsabili, ed è altrettanto importante imparare a misurarsi con la sofferenza, non quella che sta nella natura, nella vita, nella malattia, ma quella che siamo noi a procurare, per leggerezza, per egoismo, per una totale incapacità di metterci nei panni dell’altro.

Le pene sono ritenute sempre troppo brevi, troppo “generose”

Alcune riflessioni sugli omicidi colposi, a margine di Strage continua

Mi lascia perplesso quando la prevenzione si intreccia con richiesta di giustizia più severa

 

di Vanni Lonardi

 

Sono tempi strani quelli di oggi. Nei mesi scorsi le prime pagine delle cronache giornalistiche, soprattutto televisive, non facevano altro che trasmettere bollettini di guerra, che avevano al centro gli incidenti stradali e i cosiddetti omicidi colposi, arrivando ad etichettarne gli autori come i “nuovi mostri”. Si è invocata all’unanimità una giustizia più severa per “ubriachi e drogati” al volante che continuano indisturbati ad ammazzare senza scontare un giorno di galera, e le sentenze “esemplari” non sono tardate ad arrivare, classificando in alcuni casi il reato come omicidio volontario e prevedendo così pene di 10 e 16 anni di carcere. Però di prevenzione non ho mai sentito parlare. Ma da qualche tempo a questa parte, da quando cioè la nuova emergenza è costituita dagli stupri, sembra che tali incidenti siano scomparsi, hanno di fatto perso di interesse, non reggono più “mediaticamente”, le TV ne parlano decisamente meno.

Strage continua è un libro che tratta di questo argomento, ma non vuole essere un’inchiesta, quanto piuttosto un viaggio verso una responsabilità condivisa. I morti sulla strada continuano ad essere ogni giorno circa 16, così almeno dicono le statistiche, ma sembra che l’unica via d’uscita sia quella di innalzare le pene allo scopo di porre un deterrente al fenomeno. Nella lettura del libro ho avvertito fortemente una frustrazione generale per la mancanza di giustizia. È molto toccante una delle testimonianze iniziali, dove un padre di famiglia racconta il dolore per la perdita di un figlio, travolto da un pirata della strada che non ha rispettato la precedenza, e trovo molto istruttivo che tali esperienze siano raccontate nelle scuole, affinché i ragazzi capiscano qual è il valore della vita, cosa significa la perdita di una persona.

Mi lascia invece perplesso quando la prevenzione si intreccia con la richiesta di una giustizia più severa: lo stesso racconto del padre termina quando lui traccia sulla lavagna il numero 2. “Gli avranno dato 2 anni”, dice un ragazzo. “No, 2 mesi, 2 mesi di sospensione patente”, è stata la risposta, seguita da un comprensibile, lungo No indignato dei ragazzi. Quello che mi sembra passare è un messaggio che non riguarda più la prevenzione, ma come un invito a stare attenti che lì fuori ci sono i mostri che guidano ubriachi e irrispettosi del Codice stradale e, anche se uccidono qualcuno, se la cavano allegramente perché in galera non ci finiscono mai. Ovviamente il ragazzo tende a immedesimarsi nella vittima, a provare un senso di ingiustizia profonda, ma ha ben capito che la persona al volante potrebbe anche essere lui o il fratello o il genitore? A me sembra che la cosa che più colpisce rischia di essere non più la causa dell’incidente, ma la sentenza di condanna per il colpevole, che è sempre considerata inadeguata, troppo generosa, troppo lassista.

Il libro fa poi riferimento all’Associazione famigliari e vittime della strada, costituita per dare un sopporto alle vittime, un sostegno nel momento difficile per far capire che non si è soli nel dramma. È una associazione a cui, per la ricchezza della sua esperienza, è stato riconosciuto un ruolo importante in materia di sicurezza stradale, e che si è fatta portavoce di diverse proposte parlamentari. Quello che però non condivido è il duplice ruolo che ha assunto specialmente negli ultimi tempi, costituendosi anche come parte civile nei processi penali. Se all’associazione sta a cuore la sicurezza dei cittadini, perché non si parla più spesso di quanto poco faccia lo Stato per la prevenzione? Nel triennio 2004-2006 lo Stato non ha investito nel settore la miseria di 1 centesimo, zero assoluto. Nel triennio 2007-2009 invece ha stanziato novanta centesimi per cittadino, mentre negli altri Paesi europei si va dai 5, agli 11, ai 20 euro!

Invece per quanto riguarda i processi si sente, eccome, l’influenza degli avvocati dell’associazione, alcune frasi mi sembrano eloquenti: “Ogni vita persa sulla strada rappresenta una sconfitta, un danno. Si chiede una pena importante come deterrente. Se il colpevole non viene punito, difficilmente potrà essere rieducato”. Oppure “l’affidamento ai servizi sociali sarebbe consistito in una vera e propria presa in giro della giustizia”, riferendosi a un caso in cui un ragazzo veniva messo agli arresti domiciliari.

 

Il labile confine tra giustizia e vendetta

 

I familiari della vittima hanno tutte le ragioni per attutire il loro dolore chiedendo che quella persona non sia più messa in condizioni di nuocere ulteriormente, ma un’associazione che accumula continuamente la rabbia delle vittime non rischia qualche volta di trapassare quello che è il labile confine tra giustizia e vendetta? La prevenzione, infatti, dovrebbe riguardare anche la rieducazione dell’autore del reato, affinché capisca e si assuma la responsabilità del gesto, e di conseguenza diventi una sicurezza non solo per lui ma anche per gli altri. Se lo si mette in carcere si risolve ben poco dal punto di vista della sua riabilitazione, anzi è probabile che cominci addirittura a sentirsi una vittima.

Io sono convinto che sarebbe più educativo allargare il quadro delle misure alternative al carcere, riservando, proprio in questi casi, un percorso che passi per un servizio di assistenza nei centri di riabilitazione per traumatizzati, magari con la sospensione della patente per il periodo di “riabilitazione”. Nel ragazzo si creerebbe così una forte presa di coscienza, un’assunzione di responsabilità che in carcere non ci può certo essere, se si è lasciati tutto il giorno su una branda a poltrire, in una pena senza senso e senza utilità. Non a caso, la recidiva passa proprio per la mancanza di questo percorso rieducativo, che non c’è sia se la pena è troppo blanda, sia se si mette la persona in galera inutilmente.

Una misura come la “messa alla prova” sembra però non far breccia nell’opinione pubblica, a causa di una informazione che ha solo l’interesse a esaltare il caso eclatante, senza proporre mai una critica costruttiva. Tra l’altro i titoli sono sempre simili: “ubriachi al volante… avevano assunto cocaina… trovato con un tasso alcolico elevato e con presenza di sostanze…”. E su questi casi si sono inasprite le pene considerando “colpa grave” la guida in stato d’ebbrezza o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti. È già stata considerata come “dolo volontario” in alcuni casi. Sembrerebbe invece una “colpa normale” il fatto di guidare a velocità folli, o la distrazione a causa del cellulare o della sigaretta, come se in questi casi si trattasse di un omicidio non voluto, a differenza del mettersi alla guida ubriaco. A mio avviso sono tutte quante eventualmente delle aggravanti, ma il nocciolo della questione sta nel fatto che l’unico rimedio per impedire questi atteggiamenti, pericolosi per se stessi e per gli altri, consiste in una vera prevenzione che nasce da una educazione civica e morale impartita già a partire dalle scuole e dalle famiglie, portando a conoscenza anche da vicino quelle esperienze strazianti che i famigliari delle vittime della strada hanno purtroppo già alle spalle. Il ragazzo dovrebbe imparare che non ci si mette alla guida ubriachi o rispettando i limiti solo perché si rischiano i 10 anni di galera, ma perché in quel modo si mette a repentaglio la propria vita e quella degli altri, con il rischio di causare un dolore a quel punto irreparabile.

Ma il carcere aiuta davvero a prevenire?

Omicidi colposi: proviamo a pensare a come prevenirli

Le campagne di stampa sempre più feroci rispetto a questi reati fanno pensare che ci capiterà sempre più spesso di vedere in galera cittadini “comuni”, che poco hanno a che fare con la delinquenza e molto con l’irresponsabilità

 

Finora non succedeva quasi mai di incontrare in carcere autori di omicidi colposi per guida in stato di ebbrezza o sotto effetto di droghe, ma le pene sono state di recente inasprite, e le campagne di stampa sempre più feroci rispetto a questi reati fanno pensare che ci capiterà più facilmente di vedere qui dentro cittadini “comuni”, che poco hanno a che fare con la delinquenza e molto con l’irresponsabilità. E questo non ci fa per niente felici, non riusciamo davvero a pensare che la galera sia la soluzione e vorremmo provare a ragionare insieme, chi sta “dentro” e chi sta “fuori”, per trovare forme di prevenzione e di pena più sensate.

La droga ti frega nel momento in cui sei convinto di averla sotto controllo

 

di Andrea Andriotto

 

Sono stato fortunato, mia nonna direbbe che sono stato “miracolato”! Ho invaso, guidando, la corsia opposta di una strada statale, alle 19.30 di un giorno lavorativo, e per fortuna nello schianto contro il palo della luce non ho coinvolto altre persone, e questo significa veramente avere una grande fortuna. Me ne rendo conto solo adesso, la macchina distrutta e quei due giorni passati in ospedale sono niente in confronto a quello che avrei potuto causare. Oggi, quando vedo in televisione immagini di gravi incidenti provocati da persone in alterato stato psichico, magari ragazzi della mia età, che proprio come me non pensavano a quello che sarebbe potuto succedere, penso con orrore a quello che a me per fortuna non è successo. Sino a prima dell’incidente certe notizie mi facevano rabbrividire, mi chiedevo come fosse possibile essere così incoscienti, e mi immaginavo ragazzi che guidavano in uno stato fisico e psichico pietoso. Adesso riesco anche a vedere l’altro aspetto della situazione, riesco a mettermi nei panni di quel ragazzo che per passare la “serata diversa” si ritrova con la vita rovinata e segnata per sempre, e che non smetterà mai di chiedersi “ma perché l’ho fatto?”.

Anch’io quel giorno avevo usato sostanze e il mio senso della realtà era ovviamente e percettibilmente cambiato, anche se in realtà non me ne rendevo conto. Ma è così che funziona, la droga è bastarda, lo dicono tutti, anche quelli che non la conoscono, ma è bastarda veramente, perché ti frega quando meno te l’aspetti. Ti frega nel momento in cui sei convinto di conoscerla bene e di averla sotto controllo, per cui sei sicuro che puoi usarla a tuo piacimento, e smettere quando vuoi, ma in realtà è “lei” che ti tiene in pugno, e sino a quando non ti rendi conto di come stanno realmente le cose sarà sempre lei a vincere.

Non era certo la prima volta che assumevo sostanze, o che bevevo qualche bicchiere di più prima di mettermi alla guida, ma mi era sempre andata bene, non avevo mai provocato incidenti e non avevo mai procurato danni ad altre persone: “Tanto a me non succederà niente, sono mica fesso!”, pensavo.

Io salivo in macchina e a volte ero in uno stato anche molto alterato, ma non mi rendevo conto che ero un grosso pericolo per me e per gli altri. Perché, c’è poco da fare, quando hai la testa confusa e annebbiata da alcol o droga, non sei in uno stato tale da poter guidare una macchina. Il problema è che chi ha di questi comportamenti non si rende conto di aver passato il limite e anzi, a volte, ha la percezione di essere addirittura migliore, di avere più riflessi e di riconoscere la realtà meglio di tutti gli altri… 

Una pena che stimoli recupero di una maggiore responsabilità e coscienza civile

 

di Gianluca C.

 

A diciannove anni c’era tra i giovani universitari che frequentavo un ragazzo che affermava con beffarda irriverenza: “Io sono un principe libero e ho altrettanta autorità di fare guerra al mondo intero quanto colui che ha cento navi in mare”. Aveva ripreso da De Andrè questa frase trasformandola però in uno stile di vita goliardico. L’impeto e la leggerezza con cui affrontava la quotidianità lo facevano sentire ben accettato dai coetanei. Mi è capitato di ripensare questa frase in occasione delle vicende di cronaca riguardanti incidenti stradali con vittime, perché forse oggi in molti credono che essere “principi liberi” significhi non dover rispondere, in termini di coscienza, a nessuno.

Ma un evento come la morte di una persona cara per un incidente ha una tragicità che non si può negare, soprattutto quando il fatto trova la sola spiegazione nell’irresponsabilità di uno sconosciuto. Il primo impulso è sicuramente di rabbia nei confronti di qualcosa che sfugge al tuo controllo, e che però incide in modo così doloroso nella tua vita. Ma siamo veramente sicuri che una pena detentiva più o meno lunga metta la società al riparo dall’eventualità di comportamenti simili, e che inasprendo le pene si verifichi quella che i giuristi chiamano prevenzione speciale? Chi ha studiato queste dinamiche giurisprudenziali assicura di no. Io più che studiarle le sto vivendo sulla mia pelle. Sono recluso in un carcere penale e, se ho imparato qualcosa in questo luogo, è che la persona colpevole può riflettere sulla sua azione, accettare di aver attuato un comportamento sbagliato per la società e anche per sé come uomo, solo se è messa nelle condizioni di potersi confrontare con gli effetti prodotti da quei comportamenti.

Ho avuto modo di incontrare autori di omicidio colposo in seguito a incidente stradale e mi sono convinto che difficilmente ragazzi rei di aver provocato la morte di una persona con un comportamento irresponsabile possono meglio comprendere la portata della loro condotta se aumentano gli anni di vita carceraria. Allo stesso tempo, avendo praticato la professione medica anche in un Pronto Soccorso, ritengo che sia un’idea buona quella di identificare come pena adeguata l’obbligo di prestare servizio, magari come barelliere, in una Unità di Pronto Soccorso. Uscire con l’ambulanza, recuperare un politraumatizzato con fratture esposte o in una condizione di grave pericolo di vita, offre una possibilità di riflessione critica sui propri comportamenti che nemmeno cent’anni di carcere sarebbero in grado di produrre. Proprio questa potrebbe essere una via per il recupero di una maggiore responsabilità e coscienza civile.

Gentili imprenditori, commercianti, casalinghe distratte

 

di Daniele Barosco

 

Sulla strada in Italia muoiono circa seimila persone l’anno. Le pene per l’omicidio colposo sono state aumentate di recente, e probabilmente faranno entrare in carcere molte persone per bene, anche incensurate. E, paradossalmente, sono state proprio le “persone perbene”, gridando allo scandalo per le pene ritenute troppo esigue, a incoraggiare il legislatore ad inasprirle per tutti, casalinghe distratte comprese. Ma quale prevenzione si fa davvero? Quali investimenti si fanno per la sicurezza sulla strada?

Ho ancora in testa la notizia del giovane di Pinerolo che si è suicidato a un anno dall’incidente stradale in cui ha ucciso una ragazza di diciassette anni. Soffriva di depressione, era ubriaco come altre volte nella sua vita. Ma lo hanno curato davvero, lo ha preso in carico qualcuno, dopo il primo episodio negativo della sua vita? O dopo il secondo o il terzo? O forse la prevenzione costava troppo? E qualcuno pensa a quanto valgono seimila vite perse ogni anno? L’Italia spende per la sicurezza sulle strade meno di un euro pro capite, la media europea è di venti euro, eppure invece di discutere di prevenzione si pensa di aumentare le dosi di galera per tutti.

Noi che stiamo dentro cominciamo a immaginare che debbano prepararsi le borse con ciabatte, accappatoio, asciugamani tutti quei cittadini “normali” che rischiano di condividere la vita dei delinquenti per una colpevole leggerezza, a volte per quella depressione che ti porta a buttarti sull’alcol senza vederne i rischi. Dovranno capire cosa significa vivere venti ore al giorno con due o tre persone sconosciute in tre metri quadrati, in uno spazio uguale a quello dove prima parcheggiavano l’auto ora saranno parcheggiati loro. Vedranno che per il nostro menù lo Stato paga circa due euro e novantacinque centesimi al giorno, colazione, pranzo e cena. Quindi, gentili imprenditori, commercianti, casalinghe distratte, allenatevi a uno stile di vita consono all’ambiente che potrebbe essere lì, dietro l’angolo, che vi aspetta, un posto in galera oramai non si nega proprio a nessuno.

Magari pensate che a voi non potrà mai capitare, e nemmeno ai vostri figli, anche se fumano qualche spinello o si bevono qualche spritz di troppo. Dopo l’incidente di Civitavecchia, in cui sono morti quattro ragazzi, e il quinto è in coma, con una denuncia per omicidio colposo per guida sotto l’effetto della cocaina, ho sentito i genitori di questi ragazzi dire quanto bravi erano i loro figli, e lo erano probabilmente, ma qualche problema lo avevano anche loro, purtroppo.

Ieri è arrivato in sezione un meccanico, padre di famiglia, deve scontare una condanna di cinque mesi. Piange, si dispera, mi chiede di aiutarlo. La scorsa settimana era entrato in carcere un operaio edile, per assegni a vuoto, truffa. Due mesi fa un invalido civile che deve farsi qualche mese per lesioni personali. Oggi non si regge in piedi, ed è ancora più disperato dei primi due. Ma che razza di carcere è questo? Davvero più galera per tutti serve a qualcosa?

 

 

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