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Quelle domande “severe” dei ragazzi Ma nella sofferenza e nella fatica che si provano mettendosi a nudo, si compie una specie di liberazione, di purificazione
di Paola Marchetti
Per me è sempre difficilissimo iniziare a scrivere, specie quando mi viene chiesto di farlo su un argomento specifico (è la sindrome da “compito in classe”) e specie se l’argomento è così ampio, importante, e soprattutto coinvolgente. Sto parlando dell’esperienza che ho fatto (e che sto ancora portando avanti) nelle scuole medie inferiori e superiori. Un’esperienza assolutamente arricchente, anche se lacerante. Confrontarsi, aprirsi, mettersi a nudo, raccontare i reati commessi, ammettere gli errori e i fallimenti, parlare dei propri problemi con i famigliari e soprattutto con i propri figli a 30, 40, 50 ragazzi che vogliono sapere, che vogliono sincerità, che si fidano delle tue parole solo se “sentono” che sei sincero, è una vera impresa. C’è anche la difficoltà di immedesimarsi in ciò che sono i nostri ragazzi, cercando di ricordare ciò che si era alla loro età per riuscire a entrare in comunicazione profonda con loro. Ricordare: operazione non semplice, perché i ricordi per essere veritieri devono essere “ripuliti” dalle esperienze successive. Ma c’è qualcosa che spiega con maggior chiarezza la mia scelta di continuare a “vivere” il carcere, anche ora che ne sono fuori, andando a parlarne agli studenti delle scuole: è il fatto di aver trascorso più di qualche anno nelle patrie galere perdendomi una parte importante della vita di mia figlia. Vi sono molti aspetti di questa mia esperienza con le scuole che mi sento di sottolineare: nella sofferenza e nella fatica che si provano mettendosi a nudo, si compie una specie di catarsi, di liberazione, di purificazione che subito mi svuota e successivamente mi fa sentire un po’ più “pulita”. E questo perché anche se la propria sopravvivenza psicologica durante la carcerazione è legata alla capacità di rimuovere parte dei sensi di colpa, alla capacità di rimozione almeno parziale del male che si è fatto, è anche vero che i conti con la propria coscienza prima o poi si fanno, e gli incontri con i ragazzi per me hanno anche questo valore. Durante tutto il mio percorso penale non ho mai pensato di “non aver fatto nulla”, sapevo di aver agito contro la legge e che quindi la conseguenza logica di questa trasgressione era la punizione. C’era però la quasi rimozione del “male fatto”, come se il mio reato non potesse avere delle “vittime”, e non tanto perché dentro di me non mi rendevo conto che potevano esserci, ma per quello che dicevo poc’anzi: questione di sopravvivenza. Anche se la rimozione non è mai stata totale, visti gli incubi che più di qualche notte mi hanno fatto compagnia. Quindi fare i conti con il proprio reato è un altro aspetto di questa esperienza. Il momento più forte in questo senso l’ho vissuto quando uno degli studenti di una scuola mi ha detto senza mezzi termini: “Lei ha mai pensato, finché stava facendo i suoi “affari”, che quello in cui lei “commerciava” sarebbe finito nelle mani di ragazzi che avevano l’età di sua figlia? Avrebbe voluto che sua figlia finisse ad usare le stesse sostanze che le permettevano di fare soldi?”. Con le spalle al muro. Così mi sono sentita quando questa frase, che pur era latente dentro di me, è uscita dalle labbra di questo giovane che avrebbe tranquillamente potuto essere mio figlio (e meno male per lui che non lo era!) mettendomi davanti a qualcosa che io sapevo ma che non volevo ammettere a voce alta. Perché una giustificazione di quello che facciamo ce la vogliamo, ce la dobbiamo dare per poter andare avanti, per non farci schiacciare dai sensi di colpa. Questo ragazzo ha fatto di più: mi ha messo davanti a delle responsabilità che avevo e cercavo di dimenticare. Ma credo davvero, senza ipocrisie, che non abbiamo il diritto di dimenticare il male fatto. Incontrare gli studenti è dunque un’esperienza di crescita continua, di arricchimento, di “esame di coscienza”, di presa di coscienza, quasi psicoanalitica. Ma non è solo questo. Parlare nelle scuole sta avendo la conseguenza non prevista di un riavvicinamento tra me e mia figlia Il primo lavoro che ho fatto fuori dal carcere è stato in una pasticceria, dunque in un ambiente lavorativo “normale”, ma poi ho scelto di tornare “nell’ambiente”, accettando di lavorare per una associazione che si occupa di carcere e inserimento sociale, il Granello di Senape, in progetti che hanno il fine di far conoscere il mondo del carcere, di creare dei ponti tra il carcere e il mondo esterno. La mia è stata una scelta dettata anche da questa mia consapevolezza: dopo un’esperienza così totalizzante come quella di aver trascorso anni da detenuta, dopo aver pagato il debito con la società, non mi piace pensare di considerare chiusa la mia esperienza, preferisco pensare che un’esperienza negativa, messa a disposizione degli altri, può assumere un senso nuovo, per questo cerco di farla conoscere ai ragazzi, quasi per sdebitarmi. Ma c’è anche altro. Il capire che cosa pensano gli adolescenti, quali sono i loro dubbi, i loro pregiudizi, sui reati, le pene, il mondo carcerario, i detenuti, la giustizia, mi ha aiutato a comprendere, almeno in parte, cosa può essere passato per la testa di mia figlia, ora ventiduenne ma che ha visto sua madre finire in carcere quando di anni ne aveva quattordici. Io ho perso tutta la sua adolescenza, e lei ha trascorso questo periodo importante della crescita senza la madre vicino. Mi chiedo: è giusto che mi perdoni? È giusto che mi “rimetta” il debito che io avrò sempre nei suoi confronti e che in qualche modo e molto parzialmente sto cercando di pagare parlando con altri ragazzi per dare loro qualcosa che non ho potuto (anzi “voluto” visto che dovevo sapere che ciò che facevo mi avrebbe prima o poi allontanato da mia figlia) darle? Che poi questo parlare nelle scuole stia avendo la conseguenza non prevista e insperata di un grande riavvicinamento tra me e lei è stata una fortuna che non credo di meritare, ma che mi rende una persona davvero felice.
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