|
Ritorno all’attenuata?
Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ha presentato il progetto “Dap prima” per il trattamento dei detenuti tossicodipendenti
di Stefano Bentivogli
Oramai i dati sulla popolazione tossicodipendente detenuta sono impressionanti, le politiche proibizionistiche col tempo hanno dato gli esiti peggiori, chi si droga finisce in carcere anche senza il disegno di legge Fini, e il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ultimamente si muove, progetta, propone per far fronte a questa massiccia presenza di tossicodipendenti in carcere. Proprio in questi giorni è stato presentato il progetto “DAP prima”, e da quello che si è capito da quanto è apparso sui giornali, si tratta di qualcosa di simile a ciò che in realtà già dovrebbe esistere per merito della legge 309/90, il testo unico che risale a quasi 15 anni fa. L’acronimo ICATT (Istituti a custodia attenuata), di cui si torna a parlare, indica infatti strutture già previste dall’articolo 95 della legge vigente: 1. La pena detentiva nei confronti di persona condannata per reati commessi in relazione al proprio stato di tossicodipendente deve essere scontata in istituti idonei per lo svolgimento di programmi terapeutici e socio – riabilitativi. 2. Con decreto del ministro di Giustizia si provvede all’acquisizione di case mandamentali e alla loro destinazione per tossicodipendenti condannati con sentenza anche non definitiva. Questi istituti per tossicodipendenti (o sezioni d’istituto) sono molto pochi, nel carcere che “mi ospita” la sezione a custodia attenuata è stata chiusa qualche anno fa, e mi piacerebbe proprio sapere per quale ragione, visto che oggi si decide di nuovo di farsi carico in maniera diversa del trattamento di questo tipo di detenuti. Ma la gran parte di chi in carcere ci vive non perde tempo a darsi risposte a questo tipo di domande, si guarda attorno e, tra sovraffollamento e carenza cronica di tutto – dal personale ai fondi di spesa –, alza le spalle e sorride amaro. Ho letto di “celle aperte tutto il giorno, una mensa accogliente e familiare, biblioteca, maggiori possibilità di socializzazione, a patto che si sottoponga alla disintossicazione e ad un fitto programma di lavoro e di attività professionale”. In pratica quello che tutti i detenuti sperano di avere da sempre, una pena seria al posto di un periodo più o meno lungo di ozio blindato che abbrutisce. Sembra anche che il progetto del Dap voglia intervenire seriamente sulle persone tossicodipendenti, che al loro ingresso in carcere, o addirittura in una sede del Ser.T. presso il tribunale, potrebbero essere subito inviate in comunità. Si parla dell’immediata presa in carico da parte di un gruppo di esperti che, verificata la disponibilità del detenuto a curarsi, gli proponga un programma terapeutico e trovi una comunità disposta ad accoglierlo. Effettivamente i tempi della presa in carico non sono oggi immediati, tanto meno è rapida la disponibilità di una comunità che accolga. L’intervento è quindi sensato, ha una sua logica che sta nel fatto che il tossicodipendente meno sta in carcere meglio è. Ci sono però altri dati che ridimensionano la portata dell’intervento, come per esempio il fatto che tante di queste persone provengono proprio dal fallimento di programmi terapeutici, e la riproposizione di programmi, oramai fotocopie, non è altro che il rinviare a tempi non lontani la detenzione, questa volta senza alternative.
Ma come si conciliano il progetto del Dap, il disegno di legge Fini e la proposta di legge “ex Cirielli”
Poi c’è un altro dato di cui si parla poco, riguarda la condizione psicologica, emotiva, e sanitaria nella quale si trovano gran parte degli arrestati, e il regime disciplinare a cui le comunità sottopongono gli utenti: molti, troppi non ce la fanno, alcuni casi limite chiedono di rientrare in carcere. Esistono in realtà comunità che operano in maniera più morbida, quelle che si pongono obiettivi realistici in funzione del livello di disagio della persona che vi accede. In genere seguono la filosofia della riduzione del danno e sono a volte emarginate dai Ser.T. e dalle “supercomunità industrial-terapeutiche”, oltre che considerate poco affidabili da parte della magistratura che, pur non potendo per legge, oramai interviene anche sui programmi terapeutici affiancati alle misure alternative alla detenzione. È importante che il Dap sia al lavoro per cercare delle soluzioni, soprattutto se ha intuito cosa succederà per merito del nuovo disegno di legge sugli stupefacenti: questo porterà schiere di consumatori di droghe avanti e indietro tra carcere e comunità. Per quel che si capisce, per ora, non ci possono essere grosse novità con questo progetto del Dipartimento, visto che non è il Dipartimento a fare le leggi e quindi poco può fare per la questione tossicodipendenze a livello strutturale, come poco potrà realizzare comunque fino a quando non ci saranno nuove politiche sull’esecuzione della pena e finanziamenti adeguati. Alla radice di tutta la questione resta comunque un interrogativo, ossia se consumare droghe sia un reato o no, avendo chiaro oramai che se non lo è, al tossicodipendente deve essere data la possibilità di non delinquere per procurarsi la sostanza di cui ha bisogno, e che quindi anche la legge vigente è incompleta e contraddittoria. Se invece assumere alcune sostanze diventa reato, iniziamo anche a ridefinire il significato stesso della parola e prepariamoci, in nome della coerenza, a far finire in galera tutta quella gente che ha comportamenti, che sebbene non ledano la libertà altrui, vanno contro la morale comune. Un’ultima annotazione: se viene approvata la cosiddetta legge Cirielli, e ai recidivi sarà reso quasi impossibile accedere alle misure alternative, come si pensa di non far fare la galera ai tossicodipendenti, che sono recidivi quasi per definizione?-
Tutti dentro per “stare meglio”
Le novità del disegno di legge “Fini” sulle tossicodipendenze. Abolita ogni distinzione tra droghe leggere e droghe pesanti. Chi sarà sorpreso con un solo spinello verrà “invitato” a chiudersi in una comunità per disintossicarsi, altrimenti c’è il carcere
A cura della redazione
Drogarsi è un reato! Questo teorizza il disegno di legge Fini sugli stupefacenti. In realtà la normativa vigente è già penalizzante nei confronti di chi usa sostanze stupefacenti, non fosse altro perché è difficile usare una sostanza che è illegale e gestita dalla criminalità e non trovarsi automaticamente ad essa legati. Questo disegno di legge però aggrava pesantemente lo status giuridico di tossicodipendente, perché ad esso vengono associate sanzioni obbligatorie, così come obbligatori rischiano di diventare il trattamento sanitario ed il carcere.
La distinzione tra droghe leggere e pesanti è praticamente abolita
Gli stupefacenti saranno divisi sostanzialmente in due categorie: quelli ad uso medico, prescrivibili ed acquistabili in farmacia, e tutti gli altri. L’uso di marijuana è punito come quello di eroina, di cocaina o di ecstasy.
È introdotto un preciso limite alla quantità di sostanza detenibile per uso personale
Dose media giornaliera (in milligrammi di principio attivo): al di sopra di queste soglie si applicano le sanzioni penali, al di sotto quelle amministrative: Anfetamine: 50 Cannabis e derivati: 250 Eroina: 200 Ecstasy: 300 Cocaina: 500ù
Chi viene trovato in possesso di quantità inferiori a tale limite incorre in sanzioni amministrative (come la sospensione della patente, del passaporto, l’obbligo di dimora, sospensione del permesso di soggiorno, etc.) e il prefetto è obbligato a comminare le sanzioni alla prima violazione delle norme (scompare infatti la cosiddetta “ammonizione”). Quando ricorrono le condizioni per l’applicazione di sanzioni amministrative, il prefetto deve anche “invitare” la persona sanzionata a intraprendere un programma di trattamento per la disintossicazione. Quando il consumatore non si attiene alle sanzioni o viola nuovamente questa legge, è condannabile ad una pena che va dai 3 ai 18 mesi. Chi conosce un po’ le attuali probabilità di esito positivo di prescrizioni e trattamento sanitario sa che per la gran parte dei consumatori la galera diventa una certezza, come sa che il trattamento così diventa obbligatorio e perde la gran parte della sua efficacia proprio perché non è più il risultato di una scelta personale.
Lo spaccio
Chi viene trovato in possesso di quantità superiori a quelle indicate commette un reato, punito con la reclusione da 6 a 20 anni e con multa da 26.000 a 260.000 euro; i fatti di lieve entità (es. il piccolo spaccio contestato a persone tossicodipendenti) vengono puniti con la reclusione da 1 a 6 anni. In entrambi i casi non verranno fatte distinzioni tra i diversi tipi di droghe spacciate. Questa storia della quantità che distingue il consumo dallo spaccio è una mostruosità per due motivi. Tale sistema venne abolito dal referendum del ‘93 e non si capisce in base a quale mandato politico Fini e gli altri pretendano di reintrodurlo. Immaginiamo poi questa nuova generazione di consumatori di droga, sempre in giro, in alcuni casi più volte al giorno, con il bilancino di precisione ed il kit per quantificare la percentuale di principio attivo: chi si dimentica, o sbaglia a determinare la quantità di principio attivo acquistata finisce in galera come uno spacciatore!
Le misure alternative alla detenzione
Le pene fino a sei anni possono essere sospese se la persona condannata si sottopone a un programma terapeutico, da svolgersi agli arresti domiciliari, anche presso una struttura sanitaria, o in affidamento presso una comunità. È interessante la schizofrenia con cui vengono proposte alcune leggi oggi, da una parte si cerca in tutti i modi di tagliare la Gozzini e le misure alternative, comprese quelle per i tossicodipendenti, che sono i soggetti più a rischio di recidiva (v. proposta di legge ex Cirielli), dall’altra vengono allungati di due anni gli attuali termini per l’affidamento e la detenzione domiciliari con finalità terapeutiche. In realtà l’alta recidiva dei tossicodipendenti rende già oggi difficile la concessione di queste misure, portarle a sei anni non modifica la situazione attuale tranne nel finanziare, non si sa con quali soldi, il business terapeutico che sulle tossicodipendenze prolifera.
Le comunità saranno equiparate ai Ser.T.
Le strutture private vengono equiparate a quelle pubbliche, per realizzare i programmi di recupero e di disintossicazione, alternativi al carcere o connessi alle sanzioni amministrative (compresa la somministrazione di metadone). Questa apparentemente sembra un’operazione che valorizza le comunità terapeutiche, in realtà rischia di rendere padrone del mercato della cura del tossicodipendente solo quelle che accetteranno in toto la logica del trattamento obbligatorio. Diventeranno quindi le nuove succursali del carcere. I Ser.T., invece, si troveranno ad avere un ruolo assolutamente marginale, perché non avranno più alcuna prerogativa nel determinare l’idoneità delle terapie rispetto all’individuo che vi è sottoposto. Ciò significa anche togliere qualsiasi verifica scientifica sull’azione terapeutica. In realtà questo disegno di legge è stato ideato senza consultare né la maggioranza delle comunità terapeutiche né i Ser.T. che invece negli anni, pur tra moltissime difficoltà, hanno maturato linee diametralmente opposte a quelle che ora si vogliono imporre, spesso senza alcuna cognizione di causa. C’è solo da sperare che di questo impianto non si faccia niente, è come buttare via anni di lavoro di operatori del settore e spesso di sofferenza dei tossicodipendenti, in nome di un discutibile ed arbitrario “dovere alla salute” che passa come un carro armato sul diritto, quello alla salute innanzitutto.
Limitarsi a punire è inutile e dannoso
Don Andrea Gallo parla della sua avversione per il disegno di legge Fini sulle droghe, e della idea di fondo che “chi si droga non è un pazzo, un malato, un deviato, un debole o un pigro irresponsabile. È, prima di tutto, una persona”
Intervista di Stefano Bentivogli
Quando si parla di tossicodipendenze e di comunità terapeutiche, si fa riferimento sempre a quelle strutture, come San Patrignano e la comunità Incontro di Don Gelmini, che per i loro legami con la politica sono sempre al centro dell’attenzione. Le comunità terapeutiche sono realtà ben più vive e variegate, e non sono appiattite sulle linee di lotta alle tossicodipendenze promosse da questo governo con il disegno di legge Fini. Nel loro differenziarsi concorrono vari elementi che vanno dal rapporto con i servizi socio sanitari ed il privato sociale, alle modalità terapeutiche che spaziano dalla tolleranza zero all’antiproibizionismo. La comunità San Benedetto al Porto, fondata da don Andrea Gallo, rappresenta un esempio di come l’atteggiamento nei confronti di chi usa sostanze stupefacenti non sia così scontato e semplice come spesso ci viene presentato. Quella di don Gallo è un’esperienza che è partita 34 anni fa e che è cresciuta scegliendo il confronto quotidiano con la realtà del territorio dove opera. Il dogma della clausura, per proteggere il tossicodipendente dai suoi problemi, viene smontato dalla pratica quotidiana di incontro, scambio e confronto con il sociale. Non ci sono salvatori e salvati, miracolanti e miracolati, ma un cammino di persone, che hanno in comune la convinzione di poter affrontare insieme un problema non semplice attraverso la crescita personale e l’impegno sociale senza barriere. Abbiamo rivolto alcune domande a don Andrea Gallo proprio in merito al disegno di legge Fini.
La legge vigente sugli stupefacenti viene oggi considerata fallimentare da questo governo. Un nuovo disegno di legge sta procedendo a tappe forzate nel suo iter parlamentare e prevede la categorica punibilità per chi usa stupefacenti. Le comunità terapeutiche vi sono automaticamente coinvolte: come viene vissuto questo momento politico nella comunità di San Benedetto al Porto? La nostra comunità, per dirla con Fabrizio De Andrè, si muove sempre “… in direzione ostinata e contraria”. Questa è una proposta di legge, cinicamente superficiale, tanto da essere ritenuta da molti esperti impraticabile, che finirà per incrementare, ancora una volta, gli enormi proventi delle organizzazioni mafiose internazionali. Dopo 20 anni di proibizionismo, pur tenendo in considerazione le responsabilità personali, l’occidente ha compiuto una strage: 32 milioni di morti (da una statistica recente dell’ONU). Soffia un vento violento e rinasce l’arrogante ideologia della “tolleranza zero”. Il fascismo perenne è in libera uscita. Fare uso di droghe diventerà reato. Si vuole quindi anche ridefinire il significato della parola tossicodipendente? Chi si droga non è un pazzo, un malato, un deviato, un debole o un pigro irresponsabile. È, prima di tutto, una persona. Legare il tossico al momento socioculturale è tentare di comprenderlo nella sua marginalità. Opporlo all’ambiente sociale è, al contrario, escluderlo in nome di una maggioranza parlamentare e, in quest’ottica, non sarà che un “deviante” da raddrizzare: “O ci sei o ti fai” – questo è il loro slogan.
Cosa cambia invece nell’approccio chiesto alle comunità dalla nuova proposta di legge? Cambia che sono attivate le prefetture, le questure, la magistratura, la galera e le comunità compiacenti, e questo si traduce in due tipi di discorso che, a dispetto delle apparenze, non sono contraddittori: quello che si riferisce alla genetica e quello che si riferisce al comportamentismo. I due approcci infatti, nonostante le divergenze iniziali, con l’accento uno sull’innato, l’altro sull’acquisito, manifestano una stessa volontà: manomettere scientificamente le scienze sociali. Questa logica giustifica la “clausura” dei “devianti”. Cosa si nasconde dietro a questa nuova legge se non il potere dominante politico e, più ancora, sociale? Vige la dicotomia: o inclusi, o esclusi e perseguitati.
E le comunità come reagiscono? Innanzitutto il disegno di legge è approdato alla commissione del Senato senza consultare il 90 per cento delle strutture pubbliche e private. Da oltre dieci anni le comunità hanno lanciato un cartello: “Educare e non punire”. No alla punibilità, sì alla solidarietà. Questa nuova legge tende sempre più a privatizzare il servizio pubblico e chiama a raccolta quelle comunità che erigono a loro metodologia il comportamentismo, morto in campo scientifico da oltre 50 anni. Questo comportamentismo porta un pericoloso messaggio: essere tossici vuol dire non essere “nella norma” e i terapeuti, i medici, gli operatori, lontani da una terapia calda e umana e di profonda psicologia ed autentica pedagogia, ritrovano lo spirito di crociata. Tutto il campo degli emarginati, devianti, disadattati è sotto la loro giurisdizione. Sanno benissimo che aumenterà il mondo del sommerso, della clandestinità, con tristi conseguenze. L’attuale posizione governativa viene in loro aiuto ed afferma: “È vero, bisogna assolutamente punire gli spacciatori ed in modo particolare tutti i consumatori”. Le sostanze della tabella degli stupefacenti sono equiparate: “Fanno male, punto e basta!”. Eroina, cocaina, derivati della cannabis, ecstasy… una vera demonizzazione di tutte queste sostanze. Sono previste numerose sanzioni amministrative – restrizioni, ritiro patente, ritiro passaporto… – e pene coercitive pesanti in carcere. L’alternativa? Comunità di recupero, che accettino “in toto” l’impianto della nuova legge e di conseguenza, dal carcere a piccoli carceri, camuffati da aggettivi pseudo terapeutici. Lo sforzo decennale compiuto da tanti operatori pubblici e da numerose comunità va in fumo. 1993: Conferenza nazionale sulle droghe a Palermo (si accetta la riduzione del danno). 1998: Conferenza nazionale sulle droghe a Napoli (un cammino sofferto ma costruttivo, l’articolazione dei servizi fino alla bassa soglia). 2000: Conferenza nazionale sulle droghe a Genova, col sigillo del prof. Umberto Veronesi, Ministro della sanità. Si lancia un messaggio: “Il proibizionismo non porta da nessuna parte”. Ora si vuol bruciare un patrimonio di ricerca e di ricche esperienze. Si torna indietro di 30 anni. Chi non si accorge che il fallimento delle politiche repressive è ormai un dato acquisito? Punire e basta non è solo un modo di educare sbagliato, ma è soprattutto inutile e dannoso. Il disegno di legge è talmente sconcertante da risultare in controtendenza europea. La strategia europea, da anni, è articolata su quattro pilastri: lotta al traffico (ancora molto carente), prevenzione, cura e riabilitazione, riduzione del danno. Sono convinto che lo sforzo compiuto da tutti coloro che con gli abusi, i consumi problematici e le dipendenze deve fare i conti, passando attraverso verifiche e confronti, anche laceranti, ma necessari, questa fatica seria, impegnativa, senza deliri di onnipotenza, potrà aiutare per costruire percorsi diversificati di maggior benessere. È indispensabile l’umiltà, la costanza e nessuno può pretendere di avere la ricetta definitiva. Si dovrà avere il coraggio di affermare che in questa società la droga non è un fenomeno eliminabile, è da gestire nel migliore dei modi e sempre a dimensione umana. “Nessuno si libera da solo. Nessuno libera un altro. Ci si libera tutti insieme” (P. Freire). L’obiettivo rimane una Verità superiore: il binomio vita-salute, senza nessuna ombra di permissivismo.
Quali sono quindi gli strumenti con i quali si dovrebbe operare per gestire il fenomeno tossicodipendenze? Occorre creare un sistema di servizi articolati, in grado di fornire l’insieme degli strumenti farmacologici e terapeutici. È di massima importanza la prossimità e l’accompagnamento necessari per aiutare chi fa fatica a crescere o sta male profondamente. Poi bisogna sempre mettere al primo posto la persona in difficoltà per conseguire un’autentica “coscientizzazione”, il tossicodipendente deve diventare protagonista. È un’impresa ardua e difficile. Vogliamo metterci in testa che non esiste una risposta che vada bene per tutti ed in ogni tempo? Soprattutto ribadisco: la comunità terapeutica, con tutti i suoi meriti, non è l’unica risposta. È indispensabile la centralità dei servizi pubblici, il privato-sociale, il volontariato, le comunità, tutti attori a pari titolo, con competenze e funzioni differenti, uniti in un unico e fondamentale obiettivo: “garantire i diritti alla cura ed alla salute di tutti coloro che si trovano in grande difficoltà” (è una norma costituzionale). Occorre non dimenticare mai di collaborare con tutte le forze sociali ed esigere il coinvolgimento dell’ente locale e delle altre agenzie educative (famiglia, scuola, chiesa, sport…). Con una partecipazione democratica, sviluppare politiche giovanili e promuovere spazi di socializzazione per i ragazzi delle periferie, dei centri storici, delle città. Scoprire le risorse dei centri sociali autogestiti. Si potranno così aprire strade nuove, intelligenti creative e progettuali.
Che fare quindi nei confronti del disegno di legge Fini? Sarà ancora possibile una vasta mobilitazione per frenare questa deriva istituzionale? Il mio vuol essere proprio un invito per continuare a lottare per i principi forti di una democrazia.
Ammazzarsi a vent’anni
Saber, il suo compagno di cella, racconta qualcosa della vita e qualcosa della morte di Mestiri Bayrem, il ragazzo tunisino morto suicida a vent’anni in una cella della Casa di reclusione di Padova
Testimonianza raccolta da Mohamed Alì Madori
La sera del 9 gennaio 2005, a Padova, in carcere, un ragazzo si è ucciso. Anche in considerazione delle nostre comuni origini tunisine, e del fatto che con quel ragazzo eravamo amici, ho cercato di capire le cause che possono scatenare un gesto talmente estremo in un giovane di poco più di vent’anni. Ho così deciso di invitare in “socialità”, nella mia cella il compagno di cella di Bayrem, pure lui tunisino. Appena Saber entra noto il suo pallore, il disagio che prova. Ho l’impressione che sia ancora spaventato. Mi racconta che davanti ai suoi occhi ci sono le tremende immagini vissute poche notti prima. Dice che ora gli hanno assegnato, come nuovo compagno di cella, il cugino di Bayrem, il suicida. Che, ironia della sorte, anche se in una sezione diversa, pochi giorni fa ha tentato a sua volta di uccidersi. Mentre mangiamo colgo lo smarrimento del mio ospite, dispiaciuto tento di rincuorarlo ed inizia così il nostro dialogo. Mi confida che la notte piange come un bambino. Informazione superflua: gli occhi gonfi ed arrossati lo avevano già tradito. Dopo essersi acceso una sigaretta inizia a parlare a ruota libera, guardandomi diritto negli occhi quasi a voler anche lui scrutarmi l’anima.
Saber, parlaci di “quella” giornata, com’era l’umore di Bayrem? Innanzitutto voglio dire che Bayrem era in carcere da circa quattro anni e gliene restavano ancora nove da scontare. Nulla lasciava presagire un suo disagio particolarmente grave: andava d’accordo con tutti, nessuno screzio. Sabato ci siamo svegliati come al solito, era di buon umore, perché il giorno prima aveva ricevuto quattro lettere dai famigliari, in particolare dai due nipotini che non vedeva da molti anni. Di solito quando riceve lettere dai famigliari non lo disturbo e lo lascio un po’ in pace, perciò mi sono messo a scrivere. Lui improvvisamente si è fatto cupo, mi ha guardato e mi ha confidato che era da un pezzo che non scriveva a casa. L’ho incoraggiato a scrivere, a fare avere loro le novità, insomma a farsi sentire anche solo per tranquillizzarli. Ha preso carta e penna e, contento perché aveva saputo che il lunedì successivo avrebbe iniziato a frequentare l’attività di rassegna stampa, e cioè qualcosa che almeno qui in carcere avrebbe potuto impegnarlo e rendere meno pesante la sua vita, ha iniziato a scrivere ai suoi cari.
Hai notato qualcosa che facesse presagire il suo gesto? Assolutamente no. La sera verso le diciassette abbiamo cenato ed abbiamo bevuto i nostri due “quartini” di vino. Eravamo allegri, abbiamo ascoltato musica fino alle nove e mezza circa. Successivamente Bayrem, che in passato ha avuto problemi di tossicodipendenza, ha preso la sua terapia e se n’è andato a letto, così anch’io ho pensato di coricarmi ed ho spento le luci. Dopo mezz’oretta ho sentito un forte rumore provenire dal bagno. Mi sono istintivamente girato verso la branda del mio amico: era vuota! Ho immediatamente aperto la porta del bagno e l’ho trovato con la corda al collo, appeso alle sbarre della finestra e con lo sgabello ribaltato a terra.
Secondo te, quanto hanno impiegato i soccorsi ad arrivare? A quel punto non ho capito più niente: ho suonato il campanello (il campanello installato in ogni cella che ha la funzione di chiamare l’agente) ed ho iniziato ad urlare, e anche gli altri detenuti del braccio - percepita la gravità del fatto - si sono messi a gridare ed a battere violentemente ognuno sul proprio blindo. Quelli sono minuti interminabili, dove si perde l’esatta percezione del tempo, io so che l’agente è arrivato dopo alcuni minuti, che a me sono sembrati troppi. Gli ho spiegato l’accaduto, lui ha avvisato la “sorveglianza” che dopo un po’ (10 minuti?) è arrivata assieme al medico. Sono entrati nella mia cella, hanno tagliato la corda e il medico ha controllato il polso, che fortunatamente batteva ancora. Hanno adagiato Bayrem sul letto e poco dopo, una volta che si sono convinti che “stava bene”, se ne sono andati.
E tu cos’hai fatto, a quel punto? Io, per niente tranquillo, ho chiesto che venisse almeno ricoverato in infermeria, ma, forse sottovalutando il fatto, mi hanno risposto di non preoccuparmi che era tutto a posto. Passati alcuni minuti, sinceratomi delle condizioni del mio compagno che dormiva, mi sono nuovamente coricato anch’io. Non passa nemmeno una mezz’ora che mi sveglio di soprassalto, “disturbato” da un forte odore di gas. Trovo Bayrem “incappucciato” con uno di quei sacchetti neri dell’immondizia e la bombola di gas al suo interno. Preso dal panico, dalla paura e dalla rabbia, comincio a tremare, a piangere disperatamente: urlo aiuto e mentre aspetto l’agente scopro il volto del ragazzo. Aspetto alcuni minuti, arrivano la squadra di agenti e il medico. Iniziano un massaggio cardiaco, ma non c’è più niente da fare, lo stendono su una barella, è morto, e lo portano via… E mi hanno abbandonato a me stesso. Il giorno dopo mi hanno chiamato all’ufficio comando dove mi hanno interrogato in qualità di persona informata dei fatti.
Cosa si prova a veder morire davanti ai propri occhi un ragazzo così giovane? Da quel giorno sono sotto choc e quando mi chiedono di lui inizio a tremare… È un’esperienza drammatica, che non dimenticherò mai. C’è più di una domanda che ci è rimasta nella testa e nel cuore, dopo questo fatto: com’è possibile che a fronte di un fenomeno tanto grave, e purtroppo in continuo aumento nelle carceri italiane, il tentativo di suicidio venga troppo spesso considerato una simulazione, sottovalutato, poco preso in considerazione, e se viene preso in considerazione il rimedio più diffuso è “spogliare” la persona di tutto e metterla in isolamento? E davvero non è possibile intervenire più spesso con un sostegno psicologico, con delle forme di “attenzione” al disagio e alla sofferenza che siano un po’ più efficaci?
|