|
“Ho
svegliato il diavolo” Stranieri detenuti, la nostalgia per i familiari lontani e la rassegnazione all’impossibilità di vederli. Perché chiedere un visto d’ingresso per loro è, ormai, uno straziante calvario
di Elton Kalica
Se
qualcuno dovesse mettersi ad ascoltare le conversazioni tra stranieri seduti su
una panchina di un parco, troverebbe probabilmente gli argomenti di cui parlano
uniformi e, forse, patetici. I soliti problemi, le costanti preoccupazioni, le
parole ripetute all’infinito, riguardano sempre lo stesso unico argomento: la
casa natale lontana e, quindi, i familiari. Oggi, in una situazione sociale dove
l’immigrato personifica il male da sradicare, poter incontrare i propri cari
è sempre più difficile. Le pratiche infinite, i canali da seguire zigzagando
nei cupi labirinti degli uffici, i visi dei funzionari nascosti dietro
spiegazioni misteriose e talvolta indecifrabili, ricordano sempre di più la
burocrazia di qualche secolo fa: i permessi e i visti si differenziano dagli
antichi lasciapassare soltanto per la sostituzione dell’inchiostro con la
stampante. Ai
sacrifici, alle fatiche del lavoro e della vita, alle prepotenze e alle
umiliazioni imposte dai cechoviani funzionari statali, l’emigrato deve
aggiungere anche la nostalgia per i propri familiari e la rassegnazione
all’impossibilità di vederli. Chiedere un visto d’ingresso per loro è,
ormai, uno straziante calvario, un’incognita costante, una specie di lotteria
alla quale giochi per un’effimera speranza di vincere, cosicché tanti
finiscono per scegliere altri canali: visti sotto banco, gommoni e motoscafi,
camion. Ma meglio non parlare dei modi d’ingresso dei clandestini: una vecchia
credenza popolare afferma che non devi parlare del diavolo se non vuoi
svegliarlo (e quello, in questi giorni, è molto suscettibile). Se
quel qualcuno dovesse mettersi ad ascoltare le conversazioni tra stranieri -
questa volta, detenuti in carcere - troverebbe gli stessi argomenti di prima,
commentati con le stesse paure e preoccupazioni. Tutto sembrerebbe uguale; gli
stessi personaggi che pensano alla stessa cosa nella stessa maniera, ma cambia
il luogo della riflessione: non siamo sulla panchina di un parco verdeggiante,
bensì nel corridoio freddo di un carcere. Come
ci stanchiamo tenendo a lungo una pesante borsa da viaggio in mano, così ci
stanchiamo di tenere nella mente un pensiero martellante; quando le dita
diventano viola e fredde mettiamo giù la borsa, permettendo alla mano di
riprendere vita, e alla stessa maniera traduciamo i pensieri in parole e le
liberiamo nell’orecchio di qualcuno per alleggerire la nostra testa dolorante.
Gli stranieri in generale, e quelli detenuti in particolare, scaricano, sfogano
e confessano continuamente tra loro gli incubi e le nostalgie della vita nomade. Qualche
settimana fa parlavo con il mio avvocato proprio del problema della lontananza
dei familiari. In realtà le attuali norme in materia di concessione di visti
d’ingresso non tengono conto della particolare situazione in cui si trovano i
parenti dei detenuti, che in Italia chiedono di venire non certo per
“turismo”, e neppure per lavoro. I visti concessi dal Consolato italiano
sono perciò molto rigidi, in quanto non è prevista la visita al familiare
detenuto come motivo d’ingresso. Poi
si continuava, parlando della fortuna dei pochi detenuti che hanno la famiglia
residente in Italia, e del pericolo, invece, che corrono i familiari solitari,
che intraprendono coraggiosamente viaggi pericolosi - sui gommoni, oppure
soffocati dentro camion stracarichi - soltanto per poter abbracciare il proprio
caro. L’avvocato a quel punto cominciò a rilevare, dal suo punto di vista
giuridico, la contraddizione che questa lacuna comporta nel trattamento
penitenziario, se si tien conto che il mantenimento del rapporto familiare è
uno degli aspetti fondamentali della rieducazione. Non so se, in quel momento, la sua mente abbia spiccato un
volo indagatore nelle pagine della giurisprudenza, oppure se stesse già
pensando ad un nuovo progetto di legge (assolutamente improbabile, ora che ci
ripenso); ma a me venne in mente la storia del padre di un detenuto - ragazzo
come me, proveniente dalla mia stessa città, cresciuto ascoltando “The Wind
of Change” e sognando l’Italia - che non vedendo da anni suo figlio, salpò
su un gommone e gli fece la sorpresa di presentarsi al colloquio. L’immagine
di quella visita è rimasta viva nella mia mente, giacché vi ho assistito
anch’io, seduto a due tavoli di distanza, colloquiando con mio fratello
arrivato in Italia per lavoro. Era difficile però proseguire il nostro
colloquio senza dedicare più di qualche pensiero al mio amico, immerso in
parole nostalgiche (e spesso in silenzi): non so chi fosse più sorpreso tra
lui, che vedeva, toccava, abbracciava e baciava suo padre, ed io che osservavo
in lontananza quell’uomo invecchiato, una volta insignificante e quasi
invisibile per il mio occhio infantile. “Sarebbe
meglio che qualcuno prendesse l’iniziativa ed esponesse il problema a qualche
deputato, per trovare una soluzione”, dissi all’avvocato, senza stringere i
pugni dal risentimento, ma pregando, suppongo per l’effetto del ricordo di
quel colloquio: diventiamo sempre cedevoli quando vediamo una scena toccante di
un film sentimentale. “Non
ti preoccupare che qualcuno, alla fine, si accorgerà del problema”, rispose
l’avvocato cambiando discorso e portando così la mia attenzione su altre cose
più personali. Mi
sono ricordato di questa parte del colloquio con il mio avvocato, che nulla
aveva di diverso da quelli fatti in precedenza, soltanto perché in seguito
successe qualcosa di particolare. Non passò neanche un mese e mi fu riferito
che, all’ufficio colloqui del carcere, era pervenuta una circolare del
Ministero che invitava gli agenti a fare entrare in carcere soltanto quei
familiari che avevano il permesso di soggiorno, oppure un visto valido
rilasciato dal Consolato italiano. In realtà questa notizia, oltre a suscitare
le inevitabili perplessità, risvegliò in me anche qualche timore, riflesso di
antiche superstizioni. Così non pensai più al padre del mio amico, che non
sarebbe più potuto venire da clandestino per vedere suo figlio, e non pensai
nemmeno al mio avvocato, intento a elencare la serie delle
discriminazioni-morali, e delle disparità-di-trattamento-rieducativo-in-materia-di-rapporti-familiari.
Meditai, invece (come sto facendo anche adesso), che forse erano stati proprio
quella mia conversazione con l’avvocato, quei miei commenti sui genitori che
rischiano la vita, e lo stesso ricordo del padre del mio vicino (una volta
invisibile per noi bambini e ora stimato per la sua determinazione) ad aver
svegliato qualcuno in alto, e forse ad averlo offeso, al punto da spingerlo a
impartire quest’inaspettato ordine. Presi subito carta e penna, e spedii al
mio avvocato una missiva che in parte trascrivo: “Caro Avvocato… nel nostro
ultimo colloquio, forse ricorderai, abbiamo parlato anche dell’assenza di una
legge che dia la possibilità ai familiari dei detenuti stranieri di entrare
regolarmente in Italia per visitare i loro cari. Qualche forza misteriosa…
forse, un’onda vagante di una vecchia radio, ha trasportato questa nostra
preoccupazione all’orecchio di chi maneggia l’eterno destino dei condannati.
Certamente lo spirito pragmatico, post-moderno, non gli è venuto a mancare
nemmeno in questo caso: non ti fare illusioni, caro avvocato, nessuno ha
liberalizzato i visti d’ingresso in Italia. Al contrario, hanno dato
disposizioni di negare l’accesso anche a quei familiari coraggiosi che, prima,
erano disposti perfino ad attraversare l’Adriatico in gommone, pur di rivedere
i propri cari.” Non
gli ho parlato oltre, della bizzarria che vedevo in questa remota coincidenza,
ma ho cambiato anch’io argomento, allontanandomi da questa preoccupazione
contingente. Non credevo alle onde radio o telepatiche, e la strana coincidenza
suscitava più confusione che chiarimento. Può darsi che quello che impartì
l’avverso ordine avesse aspettato che io parlassi al mio avvocato per farlo;
ma allora, se quella conversazione non avesse mai avuto luogo, forse nessuno
sarebbe stato scosso dal letargo e le cose non sarebbero cambiate così, in
peggio: “Non parlare del diavolo, se non vuoi svegliarlo”. Se qualcuno dovesse mettersi ad ascoltare le conversazioni tra stranieri, detenuti o non, troverebbe probabilmente gli argomenti di cui parlano uniformi, e forse anche patetici; ma se dovesse ascoltare i miei dialoghi (oppure monologhi), non ascolterebbe più neanche una parola su lacune giuridiche, nuove leggi da proporre, oppure su sacrifici di familiari mossi solo dall’amore (che evidentemente tanti ignorano). Le antiche credenze popolari si sono materializzate già una volta, presentando il loro volto in modo distruttivamente silenzioso, e… non voglio più rischiare.
|