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Cassa delle Ammende 80 milioni di euro per il reinserimento dei detenuti e il sostegno alle famiglie Controlliamo il bilancio, vigiliamo su come verranno spesi di Jolanda Casigliani, Comitato Nazionale di Radicali Italiani
Il
Decreto attuativo dell’Ordinamento Penitenziario (D.P.R. del 30 giugno 2000
n.230 artt. 121 - 130) ha disciplinato l’istituto della Cassa delle Ammende/CdA,
attribuendo ad esso nuove e più specifiche funzioni, per consentire
all’amministrazione penitenziaria di ampliare
le forme di intervento in materia di formazione e lavoro, nonché di
finanziare progetti di sostegno ai detenuti e alle loro famiglie. Il
Ministro della Giustizia Roberto Castelli, in risposta all’interrogazione
parlamentare n. 4-04560 del maggio 2003 a firma del Senatore. Del Pennino, in
cui si chiedeva conto delle attività della CdA, aveva dichiarato che questi tre
anni sono stati necessari per dare un nuovo assetto al bilancio della CdA e per
predisporre il Regolamento per la disciplina delle modalità di presentazione
dei progetti e delle relative attività istruttorie; il Ministro ha comunque
ammesso che, sino ad oggi, la CdA
non ha finanziato alcun progetto. Il
Direttore Generale dell’Esecuzione Penale Esterna (Dipartimento
Amministrazione Penitenziaria/DAP),
Dottor Riccardo Turrini, in occasione di un convegno pubblico tenuto a novembre
2003 nella sede del Consiglio Regionale del Piemonte, ci aveva però informato
che il Regolamento, senza il quale non si può dare il via ai finanziamenti, non
era stato ancora emanato, in quanto ancora da emendare ed approvare da parte del
Consiglio di Amministrazione della CdA. Il Dottor Turrini ci aveva inoltre
confermato che le risorse
disponibili della CdA ammontano a circa 80 milioni di euro. Una
cifra ragguardevole, tanti soldi, con cui migliaia di persone potrebbero essere
concretamente aiutate ad uscire dal circuito dell’illegalità (ricordiamo che
l’indice di recidiva in Italia si attesta intorno al 79%), le famiglie dei
detenuti sostenute da aiuti “veri”. Avendo il Dottor Turrini confermato che tale Regolamento avrebbe dovuto essere pronto per la fine di febbraio 2004, avevamo predisposto un Appello in cui chiedevamo al Consiglio di Amministrazione della CdA, al Direttore Generale del DAP ed agli organi di riscontro contabile di:
Abbiamo
rivolto un pressante invito ad adoperarsi, per il raggiungimento dei suddetti
obiettivi, al Ministro della Giustizia ed a tutti quei parlamentari cui preme,
come a noi, contribuire all’effettiva realizzazione della funzione
costituzionalmente assegnata alla pena, che non è meramente repressiva e punitiva, ma soprattutto finalizzata
al recupero e reinserimento del detenuto (Art. 27 Costituzione). In
questi mesi hanno appoggiato le nostre richieste, con interrogazioni ed altre
iniziative parlamentari: il Senatore Antonio
Del Pennino (FI), i deputati Enrico Buemi (SDI), Giovanni Russo Spena (RC),
Vincenzo Siniscalchi (DS), Francesco Carboni (DS), Luca Volontè (UDC), Erminia
Mazzoni (UDC), il Presidente della Commissione Giustizia Gaetano Pecorella (FI). Dalle
dichiarazioni, rilasciate dal Ministro Castelli al Sole 24 ore in data 5
febbraio, si evince però che sono all’esame del Consiglio di Amministrazione
della CdA due progetti in tema di sanità penitenziaria: telemedicina e
assistenza ai tossicodipendenti detenuti (destinazione ben diversa da quella
prevista dal D.P.R. 230/00, che all’art. 129, comma 3, specifica: “I fondi
patrimoniali della Cassa sono altresì erogati, previa delibera del consiglio di
amministrazione, per il finanziamento di programmi che attuano interventi di
assistenza economica in favore delle famiglie di detenuti ed internati, nonché
di programmi che tendono a favorire il reinserimento sociale di detenuti ed
internati anche nella fase di esecuzione di misure alternative alla
detenzione”. E al comma successivo afferma: “I programmi di cui al comma 3,
previa indicazione della persona responsabile della loro attuazione, possono
essere presentati da enti pubblici, da enti privati, fondazioni o altri
organismi impegnati in attività di volontariato e di solidarietà sociale,
dagli istituti penitenziari e dai centri di servizio sociale
dell’Amministrazione penitenziaria”). Ora il Regolamento è stato approvato. Informiamo il Ministro che vigileremo su come verranno spesi i soldi e chiederemo di vedere il bilancio: la legge prevede delle precise finalità per l’utilizzo di quei fondi, che non sono quelle di provvedere a finanziare l’ordinaria amministrazione del sistema penitenziario, compreso l’aspetto sanitario.
“Occorrerebbe
un intervento legislativo più incisivo per incentivare l’assunzione delle
persone in espiazione di pena in ambito esterno” Un’intervista a Susanna Napolitano, Magistrato di Sorveglianza di Forlì
di Laura Caputo Casa Circondariale di Forlì
Quando
arriva lei, si percepisce un netto cambiamento nell’atmosfera della Casa
Circondariale di Forlì: le voci si abbassano, i passi si fanno più affrettati,
tutti cercano di darsi un aspetto più curato e la tensione dell’attesa si fa
palpabile. Susanna Napolitano è il Magistrato di Sorveglianza che ha
giurisdizione su questo carcere. Anche se durante gli incontri non comunica
nessuna decisione e, in generale, si limita ad ascoltare per capire, questi
momenti sono molto attesi e lungamente commentati. Ci è sembrato di grande interesse conoscere meglio sia lei, sia i criteri che guidano la sua azione.
Chi è Susanna Napolitano? Sono una persona che è entrata in magistratura nel 1983 e che, dopo una laurea in procedura civile e una prima funzione in materia civile, ha scoperto di essere in realtà interessata non a questioni privatistiche, ma a procedimenti di rilevanza generale e riguardanti vicende umane come quelli penali. Ho quindi lavorato cinque anni come giudice civile e poi penale in collegio.
Come è arrivata al Tribunale di Sorveglianza? Sono arrivata al Tribunale di Sorveglianza nel settembre del 1989 come per una naturale continuazione e completamento del mio percorso professionale. Questa funzione ha dato un respiro diverso al mio intervento, non limitandolo alla sola applicazione della sanzione, ma aprendolo a prospettive di reinserimento sociale della persona condannata e al possibile superamento del carattere esclusivamente punitivo e custodialistico della pena.
Le è mai accaduto di ritrovare, in questa veste, un soggetto che aveva condannato o indagato? Non ho mai incontrato persone che avevo condannato in precedenza, forse anche perché sono stata giudice penale in un’altra regione.
Le è mai accaduto di aver preso decisioni di cui poi si è pentita? E in che modo questo ha influenzato il suo comportamento successivo? Cerco il più possibile di sviscerare i dubbi prima della decisione per non pentirmene dopo. L’alea umana è sempre legata al singolo individuo e io tendo a non generalizzare, anche se l’esperienza degli innumerevoli casi seguiti in questi anni mi ha dato delle linee guida.
Se la discriminante per l’ammissione alle misure alternative è la certezza che il soggetto non delinquerà più, da che cosa la ricava? Bastano l’osservazione dell’équipe del carcere e la condotta inframuraria? Per ammettere un soggetto alla misura alternativa non occorre la certezza, ma la probabilità della non recidiva e dell’utilità del percorso risocializzativo definito. Il giudizio prognostico si fonda su numerosi elementi – valutati congiuntamente – quali per esempio la natura del reato di cui alla condanna in espiazione e dei delitti in precedenza eventualmente commessi, l’osservazione socio-personologica dell’equipe penitenziaria (integrata dalle note dello psicologo e dell’assistente sociale sul contesto familiare-abitativo esterno) e l’informativa di Polizia. La regolarità della condotta intramuraria è solo un requisito minimo necessario, ma non sufficiente.
Non le sembra che la relazione delle Forze dell’Ordine, riferendosi al periodo in cui il reato è stato commesso, non può che essere negativa? Non sempre le informative di Polizia sono negative, a volte danno atto di condotte recenti immuni da rilievi o forniscono elementi specifici di valutazione. Rilevano poco se contengono frasi generiche o l’elenco dei precedenti penali.
È d’accordo con l’affermazione che c’è un momento in cui il carcere finisce di essere rieducativo e diventa vessatorio, e che dev’essere allora che il detenuto deve essere rimesso in libertà con il massimo profitto per sé e per la società? Il carcere non è sicuramente il luogo più adatto, se è accertato che la personalità del condannato si è evoluta in senso positivo e se sussistono all’esterno condizioni favorevoli per un percorso alternativo proficuo.
L’accesso al lavoro – interno e poi esterno – dovrebbe concorrere a preparare il detenuto a questo momento: che cosa si fa realmente in questo senso? L’ammissione al lavoro esterno ex art. 21 O.P. – che presuppone una effettiva attivazione delle risorse del territorio – potrebbe essere uno strumento utilizzato più ampiamente, seguendo il modello di alcune realtà penitenziarie che hanno già sperimentato in forma più incisiva l’attuazione di tale beneficio. In generale occorrerebbe un intervento legislativo più incisivo per incentivare l’assunzione delle persone in espiazione di pena in ambito esterno.
La pena dovrebbe avere anche una connotazione di risarcimento del danno sociale: ritiene che esso possa/debba realizzarsi attraverso il volontariato? Se sì, come si realizza? Penso che il volontariato da parte del condannato possa sicuramente contribuire a rafforzare la positiva attuazione del progetto alternativo, ma è opportuno valutare caso per caso per evitare strumentalità e calibrare l’intervento a seconda della personalità del reo e delle possibilità di impegno esistenti (da concordare con l’équipe e da reperire mediante operatori esterni quali l’assistente sociale comunale, l’assistente del CSSA, enti morali etc.).
Per concludere, quali sono gli elementi che concorrono ad evitare la recidiva? Per evitare la recidiva credo che, in primo luogo, occorra un cambiamento radicale, una scelta netta diversa che sia la risultante di una intervenuta presa di coscienza profonda rispetto ai vissuti sottostanti la commissione dei reati. Oltre a ciò è necessario che sia favorito il miglioramento della condizione socio-ambientale di inserimento, onde evitare qualsiasi tipo di esclusione sociale.
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