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L’orda, quando gli albanesi eravamo noi
Un pugliese trapiantato a Torino e un "albanese vero" commentano, dal carcere, il libro di Gian Antonio Stella sulla nostra storia di migranti
di Nicola Sansonna
Macarrone, black dago, ding, green horns, mafia-mann, napoletano, polentone, wop, sono solo alcuni dei molti nomignoli offensivi che sono stati usati nei nostri confronti in giro per il mondo. Wop, ad esempio, nei paesi anglosassoni era molto in voga e sottolineava che eravamo senza documenti, senza passaporto, (ma la pronuncia uap, dice Stella, si richiama a "guappo") "L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi", è un viaggio nella nostra coscienza e nelle nostre radici, a ritroso nel tempo perché Gian Antonio Stella, giornalista del Corriere della Sera, ci riporta agli inizi del secolo, tra la nebbia inglese, nella prateria americana, nelle pampas argentine. Ovunque ci fosse una speranza di lavoro, di migliorare la propria vita, noi italiani eravamo lì. Uomini che lasciavano le povere campagne del Nord, del Friuli, del Veneto, dove imperversava la pellagra, del Piemonte e del Sud d’Italia, e solcavano l’oceano in cabine di terza classe, stipati come bestie tra fetori, malattie e tanti sogni. I sogni, quelli che sopravvivono a tutto, quelli che ti sorreggono, quelli che ti danno la forza di continuare anche quando ti sputano addosso, ti perseguitano, ti diffamano dovunque tu vada, dall’Australia all’America, alla Francia, alla civilissima Inghilterra. È passato tanto tempo e questo ora non accade più… nei nostri confronti. Quei sogni che molti dei nostri nonni hanno perseguito e realizzato, spesso con lacrime e sangue, ora non sono più nostri, nel senso che adesso è "l’orda", che bussa alle nostre porte, che coltiva quei sogni, che è mossa da quegli stessi bisogni. Stella ci ricorda che l’immagine dell’italiano diffusa in tutto il mondo in pratica ruotava attorno alle quattro M: mafia, mamma, maccheroni, e naturalmente non poteva mancare il mandolino. C’è qualche italiano che oggi si riconosce in questi stereotipi? Quanti allora ci si riconoscevano? I luoghi comuni, i preconcetti, i pregiudizi, sono la culla dei razzismi di tutti i tempi, dell’intolleranza etnica, razziale e culturale. Qui in carcere, crogiolo di razze popoli e culture, forse perché alla fine ci si conosce come uomini, e come tali si sta male, è più semplice superare molti stereotipi. Anche se i problemi di comprensione e di convivenza esistono qui dentro come fuori. Ricordo che uno dei primi articoli che ho scritto sulla nostra rivista lo intitolammo: "Quando gli extracomunitari eravamo noi". Sono figlio di emigranti che negli anni sessanta lasciarono la Puglia e si recarono in cerca di un futuro migliore a Torino, dove mio padre iniziò a lavorare nelle fabbriche del grande indotto della Fiat. Torino e Milano erano il polo d’attrazione di gran parte delle masse migratorie, che aspiravano a diventare operai generici Fiat, Pirelli, Brera, Alfa Romeo. Come altre decine di migliaia di italiani del sud andammo ad ingrossare le grosse periferie urbane, abitando in quelle vecchie case che erano le uniche accessibili alle nostre disponibilità. Personalmente, più che un trauma integrativo, ricordo alcuni episodi isolati che mi hanno lasciato uno sgradevole ricordo. Odiavo la generalizzazione, il fatto che ci chiamavano tutti Napuli mi dava fastidio. La diffidenza era forte, le case non venivano affittate volentieri a noi meridionali: troppi figli, troppo rumorosi. Quei cartelli con su scritto "Non si affitta a meridionali ed a famiglie numerose" sono tra le cose che mi facevano male. Qualche madre che richiamava il figlio perché giocava con i Napuli c’è stata, ma questo riguarda i primi anni in piccoli centri agricoli della cintura torinese, dove abbiamo abitato. C’era diffidenza, ma naturalmente abbiamo trovato anche molta solidarietà. Con gli anni gli atteggiamenti di rifiuto sono scomparsi quasi del tutto e con moltissimi piemontesi sono diventato amico, mi è stato sempre simpatico il dialetto piemontese, armonico melodioso, e alla fine ho anche imparato a parlarlo. Molte di quelle amicizie veramente sincere, nate nell’età dell’adolescenza, sopravvivono tutt’oggi. Leggere il libro di Gian Antonio Stella mi ha confortato e mi ha anche fatto sorgere una buona dose di quella sana indignazione, che per reazione deve portare alla comprensione degli altri, ricordandoci com’erano trattati i nostri nonni, i nostri padri, in quelle che erano le nazioni più ricche, in quelle che per noi allora erano le terre della speranza. Dice Stella: "L’unica vera e sostanziale differenza tra "noi" allora e gli immigrati in Italia oggi è quasi sempre lo stacco temporale. Noi abbiamo vissuto l’esperienza prima, loro dopo. Punto." Noi come italiani abbiamo vissuto ciò che gli stranieri stanno ora vivendo da noi. E questa è la semplice verità, che ci piaccia o meno. La ricetta è la stessa: permessi di soggiorno difficili da ottenere, lontananza dalla famiglia, disagi, disadattamento sociale e, spesso, il disprezzo della gente. È vero. In mezzo agli stranieri c’è anche chi delinque. E chi sbaglia paga sulla propria pelle, con generose dosi di galera e l’espulsione. Ma sono in tanti a subire il disprezzo, a venire puntati a dito solo perché connazionali di chi ha commesso un reato, o semplicemente perché si vestono e pregano in maniera diversa da noi, oppure perché la loro pelle è un po’ troppo "abbronzata". La nostra memoria, ci ricorda Stella, è spesso labile, e ci dimentichiamo che c’è stato un tempo in cui gli extracomunitari in ogni angolo del mondo eravamo noi. Un albanese in galera legge "L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi" E si consola del suo presente scoprendo il nostro duro passato di emigranti
di Elton Kalica
Un coraggioso viaggio nel passato, ma proiettato anche verso il futuro. Dalla prima pagina sino all’ultima mi sono sentito preso per mano e guidato in questo percorso di sofferenza e di dolore, di rabbia e di vergogna e di sporcizia. Un viaggio nel passato, perché l’autore va, indietro nel tempo, a visitare le baracche degli emigranti italiani in America, dove, odiati da tanti, vivono ogni giorno la paura insieme alle preoccupazioni e alle ansie della vita quotidiana, e dove succede anche di essere linciati. Poi va a visitare le miniere del nord Europa e trova altre baracche sudicie, dove altri emigranti dormono a turno nello stesso vecchio letto; poi va ad assistere ad altri linciaggi di emigranti in Australia, dove altri emigranti si sono già dimenticati del loro ancora vicino e sofferto passato; ma non si dimentica neppure dei vetrai francesi, che impiegano in tutte le mansioni più dure i bambini per la loro agilità e il basso costo del lavoro, quindi va a visitare anche loro e a vederli morire. E il viaggio continua poi sulle navi cariche di ragazze napoletane, pugliesi e venete, trasportate in Egitto dai loro compaesani, amici o semplicemente trafficanti per fare la più vecchia delle professioni; e poi va "in visita" da serial killer, da assassini, da terroristi e da anarchici, tutti italiani emigrati, e il suo non è più un viaggio ma un vero pellegrinaggio pieno di soste nei posti della sofferenza, della vergogna o, semplicemente, dove questo vostro paese ha scritto tante pagine della sua storia. Inutile commentare le mie sensazioni da albanese in galera: sarebbe un infierire. Ho fatto leggere il libro ad uno skin-head che sta qui in galera e finalmente l’ho visto… soffrire, ho visto per un secondo passare nei suoi occhi l’illuminazione e, forse, qualcosa è cambiato. Comunque una cosa è certa, finito di leggere, ti guardi intorno e realizzi che sono pochi quelli che ricordano o che vogliono ricordare, quelli che capiscono o che vogliono capire, sono in pochi a voler ricordare questo passato tra i ragazzi, i padri, le madri italiani, ma soprattutto nei tribunali che giudicano noi migranti. Allora ti senti di offrire questo scritto come l’ultima speranza di cambiare qualcosa nelle tante menti confuse e anche in quelle lucide.
Non è uno scritto comune, non è un romanzo del quale tra due mesi non ti ricordi più neanche il protagonista. Questo non è il solito libro commerciale di successo che spera di trasformarsi in grande film e invadere i cinema. Non è nulla di spettacolare, se non un libro di storia e d’attualità, di cultura e di formazione, di politica e di sociologia. Un libro che tutti i genitori dovrebbero regalare ai loro figli, che tutti gli insegnanti dovrebbero imporre ai propri studenti e che i mass media dovrebbe pubblicizzare. Un libro da leggere soprattutto oggi che l’Italia vive con sorpresa e preoccupazione il fenomeno dell’emigrazione, oggi che, ad un tratto, si è dimenticata del vicino passato. Questo libro ricorda le pagine più oscure della storia dell’emigrazione italiana, pagine fondamentali per imparare che il nonno o lo zio si è spezzato la schiena da emigrante in una atmosfera miserabile, circondato dall’odio dei padroni e a volte dalle faccende criminali di alcuni compaesani. Queste pagine illustrano una realtà che spesso non è chiara e lineare come i calli sulle mani degli operai, e che comunque ha sempre dei colori tragici. Significativi gli episodi d’intolleranza e xenofobia subiti dagli italiani in paesi quali l’Australia, l’America del Nord come quella del Sud. In Australia è successo che una intera comunità linciava e costringeva gli italiani ad andarsene, in America epiteti come mafioso, anarchico, bombarolo e sovversivo hanno etichettato una intera generazione di emigranti.
"L’orda" è un libro per conoscere, e ancora di più per non dimenticare che l’emigrazione è soprattutto questo: e non si può dimenticarsi infatti degli italiani linciati, ammazzati, impiccati o incarcerati solo perché emigranti; non si deve dimenticarsi dei bambini italiani venduti e sfruttati, nelle vetrerie francesi, fino alla morte; non si deve dimenticarsi delle centinaia di donne italiane che si prostituivano per le strade del Cairo. Ma non si deve soprattutto dimenticare che le facce della povertà sono tantissime e che i ragazzi d’oggi, le ragazze, i comuni, le regioni, il governo e anche i giudici stessi, figli e nipoti della povertà, dovrebbero assumere atteggiamenti comprensivi e diversi dalla xenofobia e dal razzismo subiti dai loro genitori. Il titolo: "Quando gli albanesi eravamo noi" non vuole solo spingere il lettore indietro a guardare il passato, ma anche invitarlo a girarsi a guardare avanti e ad assumere un giusto atteggiamento verso il futuro.
Rottami da riciclare o esseri umani che possono avere dei propri obiettivi da raggiungere. Una persona condannata, anche per reati molto gravi, ha ancora il diritto di ricercare la felicità?
di Francesco Morelli
Un’amica mi ha dato le bozze di un suo libro, autobiografico, che non verrà mai pubblicato. L’ho trovato "così – così", però ha un titolo interessante: ACCONTI. Sono gli anticipi, dilazionati negli anni, di una felicità impossibile da raggiungere pienamente. Il "saldo" non arriva mai: quando riscuoti l’ultima rata sei già alla ricerca di altri traguardi, di altre soddisfazioni. Questo vale per tutti, perfino per noi che siamo in carcere. Finché c’era la pena di morte il tuo "debito" lo saldavi a una scadenza precisa, poi (fortunatamente) la cultura giuridica si è affinata e anche le pene hanno una forma più "elastica", sono state diluite nel tempo. Il problema è che il "tempo della pena" continua a essere "tempo di vita", puoi sentirti in colpa finché vuoi ma alla fine devi porti un obiettivo al di fuori della pena, altrimenti ti suicidi. Quando le misure alternative non c’erano l’obiettivo era uno solo: l’evasione. Ma, ancora oggi, ci sono detenuti che non possono avere nessun beneficio, né i permessi, né la semilibertà: sono i condannati per reati di mafia, per sequestro di persona, per traffico di droga in associazione (e le nuove norme sull’articolo "41 bis" aggiungono i condannati per terrorismo). Per queste persone (circa 4.000, in tutta Italia) l’alternativa è solo quella di collaborare con la giustizia oppure di scontare tutta la pena in carcere, che per un ergastolano significa non uscire più. Spesso mi chiedo quale "obiettivo di vita" riesce a darsi una persona che sa di non potere più uscire. Mi viene in mente cosa successe quando in Russia abolirono la pena di morte (nel 1999, se non sbaglio) e nelle prigioni c’erano alcune centinaia di condannati già in attesa dell’esecuzione. Metà di loro, davanti alla prospettiva di un ergastolo, chiesero di essere uccisi. Poi in realtà succede che un motivo per vivere viene trovato dalla maggior parte dei condannati: nelle carceri italiane sono molto rari i casi di suicidio tra gli ergastolani. Le ragioni per vivere qualcuno le trova nel sostegno dei propri familiari, qualcun altro nella difesa acerrima dei principi in cui crede, altri ancora nella cura scrupolosa della propria dignità umana e sociale. Ricordo sempre l’orgogliosa testardaggine con la quale V. G., condannato all’ergastolo per reati di terrorismo, rifiutava i "colloqui interni" con la sua compagna, pure lei ergastolana. Non accettava che lo Stato decidesse il modo e il tempo nel quale poteva vivere la sua relazione. Sono trascorsi dieci anni, V. e la sua donna sono ancora detenuti, perché considerati "irriducibili". L’avevo perso di vista, ma recentemente ho letto che sta trascrivendo dei libri per i ciechi. Anche questo può essere un buon motivo per continuare a vivere: il rendersi utile a qualcuno, il riscatto sociale, è una gratificazione notevole per chi viene da esperienze di conflitto con il mondo intero… Ma ci siamo anche noi, un po’ privilegiati a dire il vero, che possiamo avere i permessi, il lavoro esterno, la semilibertà. Per noi la via del reinserimento è effettiva, il fatto di tornare a vivere nel mondo dei liberi un diritto – dovere. Lo dice la Costituzione, non ci si scappa … Quello che invece mi chiedo è se il nostro "recupero" debba essere funzionale soltanto alla sicurezza della società, quindi al fatto che non commettiamo più reati e contribuiamo, con il nostro impegno, al benessere comune. Se è così, mi pare di essere un po’ come un rottame riciclato… da indesiderabile, fastidioso, superfluo, in fondo. Però questa è anche una condizione che nega la possibilità di tornare ad avere dei tuoi obiettivi, sentiti, desiderati. Alla base c’è un problema etico di notevole portata: una persona condannata, anche per reati molto gravi, ha ancora il diritto di ricercare la felicità? Può perseguire questo obiettivo anche durante l’espiazione della pena, che naturalmente significa sofferenza, non felicità? Il dilemma è di carattere morale ed ha anche una ricaduta concreta nel momento in cui la misura alternativa viene disposta (da parte della magistratura) e viene vissuta (dalla persona condannata). La regola da seguire, i divieti, gli orari, sono fatti nell’ottica di ridurre al minimo l’afflittività della pena o di mantenerla più elevata possibile? C’è molta discrezionalità nella predisposizione dei "programmi di trattamento" per le misure alternative, questo per poterli adeguare ad ogni persona, alla probabilità che usi male gli spazi concessi, alle sue esigenze di lavoro e di relazione. Tutto ciò risponde alla logica della individualizzazione della pena, nulla da eccepire al riguardo. Piuttosto noto alcune lacune e rigidità nella concreta applicazione dei "programmi", situazioni che generano sfiducia nei confronti degli operatori e quindi finiscono per mettere a rischio il percorso avviato all’esterno. Mi spiego meglio con un paio di esempi. S. va in permesso da circa due anni, ogni due mesi trascorre una settimana con la propria famiglia. In un colloquio con l’educatore dice che non ha molto dialogo con i familiari, che li sente piuttosto indifferenti nei riguardi dei suoi problemi. Risultato: non le vengono concessi 7 giorni di permesso ogni due mesi, ma soltanto 2 giorni. Nessuno va a trovare la famiglia per farsi un’idea della situazione, nessuno le propone di fare i permessi in un altro luogo. L. è al lavoro esterno ed ha qualche problema di salute. Si guarda bene dal dichiararlo agli operatori, perché il risultato che otterrebbe è di rimanere chiusa in cella, almeno finché i medici non abbiano accertato che cosa ha e la magistratura abbia deciso se può essere curata in carcere o vada ricoverata in qualche ospedale (passerebbero settimane? o mesi?). Per chi dà lavoro ai detenuti questo rappresenta un vantaggio: ha dipendenti che non si ammalano mai, che non fanno mai sciopero, che non possono avanzare rivendicazioni sullo stipendio, che se vengono licenziati tornano in carcere "a tempo pieno". Dal punto di vista della produttività può darsi che funzioni, da quello del reale recupero sociale delle persone mi pare che questo sistema faccia parecchia acqua. I risultati si misurano in termini di revoche delle misure alternative ma, soprattutto, dovrebbero essere misurati sui tassi di recidiva tra coloro che hanno "positivamente" concluso il periodo in semilibertà, o in affidamento. Sul tema delle ricerche si fa tanta confusione, perché nella statistica rientri anche se hai una piccola condanna vecchia di vent’anni, e sarebbe molto utile, invece, un’indagine seria sul periodo successivo all’espiazione di una pena, distinguendo tra chi ha usufruito di misure alternative e chi ha scontato l’intera condanna in carcere. Aiuterebbe a capire meglio se davvero le alternative funzionano come ponte tra la detenzione e la libertà.
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