Voci da lontano

 

Carcere d’esportazione

 

Va bene mandarci a casa a scontare la pena, ma non si deve dimenticare che le condizioni in cui si trovano la carceri in Albania aggiungono sofferenza a sofferenza

 

di Gentian Allaj

 

È da un paio d’anni che si parla della possibilità che l’Italia costruisca un carcere in Albania per accogliere tutti i cittadini albanesi detenuti in Italia. Ne ha parlato anche il Ministro della Giustizia Roberto Castelli in visita a Tirana. Sembra però che questa opportunità sollevi alcune difficoltà da parte delle autorità albanesi. Personalmente, come albanese, mi trovo d’accordo ed anche molti miei paesani la pensano come me. Tornare a casa mia, vicino ai miei famigliari, e finalmente poterli riabbracciare dopo molti anni non può che farmi piacere.

Ma il problema primario è rappresentato dalla povertà che tuttora affligge il mio paese, quindi non si esaurisce tutto rimandandoci a casa a scontare la condanna.

Quello che noi vorremmo è che le autorità italiane e quelle albanesi si sedessero intorno ad un tavolo e, oltre che parlare del problema della sicurezza, certamente importante, iniziassero anche a parlare di lavoro, e di come portare in Albania dei corsi di formazione professionale. L’Albania, se aiutata, certamente saprà nel giro di qualche decennio entrare a pieno titolo in Europa, e questo lo desideriamo veramente.

Quindi, se per parecchi di noi va bene la soluzione di tornare a casa a scontare la propria pena, non si deve dimenticare che il motivo che ci ha spinti a lasciare la nostra terra è la miseria, il desiderio di una vita dignitosa. Se riusciremo ad avere un’opportunità a casa nostra, noi saremo i primi ad esserne felici e a non ritentare la strada dell’emigrazione.

Attualmente però, a fronte di parecchi albanesi che chiedono di poter scontare la pena in patria, la procedura oltre ad essere complicata è molto lunga, e raramente tale richiesta viene accolta.

 

Non ci volete ritrovare di nuovo in Italia come clandestini? Cercate di fare qualcosa

 

Secondo me è una cosa molto importante, quando si è in carcere, trovarsi in un luogo dove si parla la nostra stessa lingua, dove ci sono le stesse abitudini e tradizioni. Potrebbe aiutarci a soffrire di meno, anche perché essere vicino ai tuoi famigliari ti porta a sentire di meno il peso della situazione in cui ti trovi. Bisogna però tener presenti alcune cose:

Le condizioni di vita nelle carceri albanesi sono pessime

Mancano del tutto le attività trattamentali

Non esiste alcun percorso di rieducazione

Le condizioni in cui si trovano le carceri in Albania aggiungono sofferenze alle sofferenze. Ti sembra di trovarti in gabbie di animali: sporche e senza servizi igienici.

Per quando riguarda la rieducazione, non se ne parla proprio: non c’è dialogo tra agenti e detenuti, gli assistenti sociali e gli educatori non esistono, e non si riceve nessun aiuto, anche semplicemente morale, che ti conduca a riflettere sul reato che hai commesso.

Ma se non sussistono questi presupposti minimi di "decenza" nelle carceri, la soluzione di scontare la pena in patria potrebbe essere inutile. Non si sarebbe raggiunto altro risultato che quello di portare temporaneamente fuori dal territorio italiano persone che si sono mosse sulla spinta di un disagio o per non aver avuto possibilità di scelta, e che difficilmente accetterebbero di restare a vita nel disagio dal quale sono fuggite.

Il carcere può essere un male necessario, ma per lo meno deve servire a qualcosa e non essere solo tempo passato "in branda". Per esempio a Padova, dove sono ora, sono stati istituiti corsi scolastici di alfabetizzazione, scuole elementari, medie inferiori e superiori, corsi professionali che dovrebbero servire come "trampolino di lancio" per il reinserimento nel mondo del lavoro. Sono stati aperti anche dei capannoni, dove alcuni detenuti svolgono delle attività di assemblaggio, saldature, piccole costruzioni meccaniche. Tutto questo non esiste nelle carceri albanesi. Per questo io penso che sia necessario lavorare per coinvolgere la società esterna, sia italiana che albanese, a farsi carico del fatto che bisogna reintegrare nella collettività anche chi esce dal carcere in Albania.

Tutto quello che abbiamo imparato qui altrimenti sarebbe inutile, perché nelle carceri in Albania in quelle condizioni non avremmo certo l’opportunità di imparare un lavoro o di mettere a frutto quello che abbiamo imparato in Italia. Si tornerebbe come negli anni passati, la storia riprenderebbe dal principio e voi italiani ci ritrovereste di nuovo in Italia come clandestini senza lavoro, quindi con pochissime alternative al delinquere.

Quando vedremo che si sta cercando di porre rimedio alla drammatica situazione del reinserimento sociale e del lavoro nelle carceri dell’Albania, allora si sarà compiuto il primo passo nella direzione giusta. Non basta costruire carceri per risolvere problemi sociali.

 

Un delinquente fuori dal comune

Storia di Muhamed, ex insegnante della ex Jugoslavia ladro per caso

 

di Danko Vukomanovic

 

Durante numerosi trasferimenti per giustizia ho conosciuto moltissimi miei paesani provenienti da tutte le parti della "ex Jugoslavia". Il volto che non dimenticherò mai è di un uomo di nome Muhamed. Veniva da Mostar, città tristemente nota per la distruzione del ponte, dichiarato dall’Unesco patrimonio dell’umanità, che aveva dato il nome alla città stessa, perché in lingua slava la parola "mostar" significa guardiano del ponte.

Passeggiava da solo, era magrissimo, aveva lo sguardo perduto ed impaurito, diffidente. Gli altri ogni tanto gli rivolgevano qualche parola ironizzando, prendendolo in giro. Aveva una cinquantina di anni, ma le rughe e la barba bianca erano di un settantenne. Qualcosa mi diceva che dovevo avvicinarlo e cercare di sfondare la sua fortezza, costruita per difendersi dagli altri, ma che contemporaneamente era la sua personale prigione. Appena mi accostai sentii che aveva un altro sistema difensivo, era l’odore insopportabile di un uomo che non si lavava da settimane. Il primo scambio di parole mi fece capire che non era un delinquente, aveva un linguaggio di una persona colta e non amava vantare imprese malavitose di soldi fatti in fretta, di macchine e gioielli e donne.

Mi disse che era insegnante in un istituto tecnico superiore a Mostar, e che all’inizio della guerra aveva portato in un posto sicuro sua moglie e i due figli. Lui era rimasto ancora un paio di mesi a Mostar, poi chissà come e perché si era ritrovato a Trieste senza una lira in tasca, senza conoscere una parola di italiano. Disse che aveva girovagato per giorni, sporco, affamato, sbandato, finché era stato avvicinato da un paesano che gli aveva fatto la proposta di andare con lui a prendere lo stereo della macchina parcheggiata lì vicino alla stazione e venderlo per aver "soldi da mangiare". Lui, nella sua ingenuità, era convinto che la macchina e lo stereo fossero del suo "nuovo amico" che voleva aiutarlo. "L’amico" di Muhamed era invece convinto di aver trovato uno che gli facesse "da palo" mentre lui rubava. Il doppio errore di valutazione ebbe conseguenze catastrofiche per Muhamed. Durante la prima azione scattò l’antifurto, e il suo "amico" si mise a correre via e sparì in gran fretta. Muhamed, non capendo nulla, rimase fermo, ma, quando il guardiano del parcheggio l’afferrò cercando di trattenerlo, nel tentativo di svincolarsi gli diede una spinta e il guardiano, scivolando sull’asfalto bagnato, si procurò una distorsione della caviglia. Nel frattempo arrivò la Polizia e Muhamed, ex insegnante dalla ex Jugoslavia, finì in carcere. Con il solito "avvocato" d’ufficio, non avendo nessuna esperienza giuridica, con l’interprete che traduceva solo le domande rivoltegli dal giudice, fu condannato alla pena di "anni quattro mesi sei di reclusione per concorso in rapina, lesioni personali e resistenza a pubblico ufficiale". Se avesse saputo e potuto raccontare ai giudici tutta la storia, probabilmente sarebbe stato rilasciato con sospensione condizionale.

Dopo aver sentito che la sua fortezza si era aperta ho deciso di rivolgergli la domanda che riguardava il suo odore. La risposta è stata forse più imbarazzante della sua vicenda giuridica. Mi disse di non aver fatto la doccia da quando era entrato in carcere (un paio di mesi prima) poiché temeva di essere sodomizzato, cioè gli altri vedendo un uomo perduto l’avevano convinto, per scherzo (bello scherzo), che il "sesso di gruppo" rappresentasse una specie di "battesimo carcerario". E lui, richiamando alla memoria le scene viste nei film americani girati ad Alcatraz, si era convinto della storia. Il giorno dopo io partii per Milano e lui rimase a Trieste. Quando sono ritornato ho saputo che l’hanno trasferito a Torino: non ho potuto verificare se sono riuscito a convincerlo a farsi la doccia.

 

 

 

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