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Fine pena mai?
Quando le angosce e le paure del "dopo carcere" rischiano di soffocarti
Nel nostro sito c’è uno spazio di dialogo tra detenuti e "liberi cittadini". Ebbene, la cosa più bella è che lo spazio si sta riempiendo sempre più di messaggi di ex detenuti, che ci raccontano le difficoltà del "dopo". Ne riportiamo due, e invitiamo a entrare nel sito e a partecipare a questa discussione sull’ansia, la paura, l’angoscia di chi, a fine pena, deve tentare di ricostruirsi una vita. E inauguriamo una nuova rubrica sul giornale, aperta a testimonianze, suggerimenti, proposte per il "dopo": si chiamerà "I ricomincianti", che poi è una definizione inventata da Susanna, un’altra ex detenuta che partecipa attivamente alla vita del nostro sito. I "ricomincianti" sono gli ex detenuti, coloro che devono faticosamente ripartire da zero.
La Redazione
La testimonianza di Franca: "Avevo bisogno di non sentirmi sola"
Oggi ho una vita diversa e riesco a non ricordare più gli odori. Sul blindo, in una delle tante traduzioni-dirette cerco nella mia memoria l’odore del prossimo carcere per cominciare ad abituarmi e sentirlo poi meno ostile. Ogni carcere ha un suo particolare odore: Le Nuove puzza di vecchio e di muffa, Alessandria di ferro e di polli, Alba letame e lavanda, Novara ferro e cera per pavimenti, Cuneo odora di olio fritto in cui annega una parmigiana. Quando l’ultimo cancello si chiude dopo di noi non ricordo più l’odore che mi era diventato familiare, l’ ho già perso. Così mi difendo dal dolore di sentirmi strappata dalle persone e dalle poche certezze che riesci a costruirti per avere una vita tua anche dentro un carcere dove non puoi mai scegliere… e mi vengono in mente le vittime che anche loro non scelgono di essere vittime. Perché deve essere usato lo stesso metodo che si sta usando con me se per questo io sono stata condannata? Quei viaggi eterni e allo stesso tempo troppo brevi sono nel mio presente solo un ricordo non troppo lontano. Oggi ho una vita diversa, più povera di emozioni rispetto al mio ieri, ma è serena, ora il mio ricordo è concentrato sulle fatiche che ho dovuto affrontare quando quei portoni si sono chiusi per l’ultima volta dietro di me. Da detenuta pensando al "mio fuori" sapevo per esperienza che era proprio questo il momento più difficile, ed ora lo so con certezza. Nella mia città non c’è il carcere femminile, quindi mi sono sempre ritrovata a scontare la pena lontano da casa, ma questo non è l’unico svantaggio, rispetto ai maschili noi donne-detenute abbiamo spesso meno possibilità, sia di studio che di lavoro anche all’interno delle strutture stesse. Questo il motivo per cui mi sono trovata dopo 6 anni, 11 mesi, 20 giorni ad affrontare la vita fuori a Cuneo, che non è la mia città di provenienza. Il mio fine pena è arrivato dopo un lunghissimo anno di semi-libertà che mi è stato concesso grazie all’interessamento e alle pressioni di una psicologa del carcere di Cuneo contro il parere contrario di tutti. Seguivo un corso regionale, poi uno stage presso un museo con un rimborso di lire 4.000 (€ 2,07) all’ora. Ho potuto farlo solo perché avevo una famiglia alle spalle che mi ha sempre aiutata e sostenuta moralmente ed economicamente. Ora so che avevo bisogno di tempo, e soprattutto avevo bisogno di non sentirmi sola, condividere pensieri e problemi con qualcuno che capisse i miei disagi, come il sentirmi estranea e mai a proprio agio, essere in una città che non conoscevo, non avere amici. Ripensando a quel periodo ricordo con lucidità il lungo ponte che dovevo fare a piedi tutti i giorni per andare in città (alle 6.00) e ritornare (alle 20.00) in carcere, che è situato in periferia, il freddo d’inverno nel passeggiare sotto i portici di Cuneo con i soldi giusti per un caffè al giorno. Ho preso in affitto un monolocale, ma non è stata una buona idea, non ero ancora pronta, mi sono appoggiata presso un istituto di suore laiche che è risultata una esperienza negativa per me. Verso la fine della mia condanna sono riuscita a farmi affittare da una associazione umanitaria un monolocale, pagavo un affitto mensile, luce e gas, la mia famiglia mi ha aiutato ovviamente nelle spese perché io non sarei mai riuscita a farlo con lire 4000/ora. … e io sono stata fortunata. Il mio fine pena è finalmente arrivato l’8 gennaio 1999. Il giorno dopo dovevo andare a lavorare in una cooperativa sociale, in un paese fuori Cuneo. E ricominciare da capo. Non era dimenticare il carcere, semplicemente non volevo più tornarci. Ho scelto di percorrere una strada diversa da quella che mi aveva sempre riportato dentro, ed è stata dura. Sono caduta e mi sono rialzata molte volte, ancora cadrò e mi rialzerò, ma oggi mi sento forte abbastanza per trovare gli appigli dentro di me. Stare lontano da una realtà sociale per lungo tempo è un trauma non indifferente, riprendersi i ricordi, gli affetti, gli amici non è così semplice come appare. Hai bisogno di tempo per riprendere fiato, avere un lavoro è importante ma non è l’unico bisogno da soddisfare, per poter scegliere in autonomia che strada percorrere. Cosa fare, come riempire il materassino per attutire l’impatto? Da poco tempo ho potuto attivare Internet a casa mia e girovagando tra i siti ho trovato il vostro, non potete immaginare la mia gioia, finalmente uno spiraglio di luce in un mondo tanto "ristretto", quest’apertura va al di là di ogni mia passata aspettativa. Il mio pensiero è con le donne che mi sono state compagne e a tutte le detenute.
Franca
Il racconto di Truciolo: "Volevo vedere spazi, volevo vedere tutto"
Che succede quando si esce? La prima volta sei euforico, se ci sono familiari li cerchi tutti, vuoi dire agli amici che sei libero, vuoi quasi ripeterlo a te stesso continuamente, come per spezzare un sogno, un incubo maledetto. Quando hai scontato una lunga pena e comunque un periodo di almeno 5 anni, ti accorgi che fuori è tutto diverso; io ero infastidito dalle insegne che si accendevano e spegnevano, le intensità diverse delle luci mi davano irritazione, tendevo a dormire facilmente, ammiravo, come in apnea, l’incrociarsi di donne e bambini e vecchi sui marciapiedi. Ero libero, ma avevo bisogno di tempo, per questo stavo rigido e mai a mio agio, volevo soltanto che mi portassero in macchina a vedere tanti posti, volevo vedere spazi, non volevo mangiare, volevo vedere tutto. Il piccolo involucro che avevo con me era la preziosità di ricordi, dove per anni ho riversato affetti, quei ricordi ai quali ho sperato un giorno, oltre la detenzione, di fare un altare, quando avrei avuto una casa, o anche uno spazio per farci un altare… adesso tutto ciò mi dava un senso di miseria, e sentivo che dovevo ripartire da zero, ancora una volta. Dovevo essere informato sulle modalità d’uso del telefono pubblico, le macchine erano diventate per metà computer ed i miei remoti studi in meccanica non erano più applicabili, ogni pattuglia di polizia mi chiamava, ero riconoscibile dall’ odore di adrenalina che si respira soltanto nelle carceri. È duro reiniziare, è duro dover imparare e dover competere nell’immediato, mentre si perde bisogna mangiare e socializzare. Sono poi finito a fare il Pony-Express a Milano, con un motorino, portavo lettere nella città per 300 km al dì, ma il seguito lo racconto un’altra volta. I primi tempi è necessario un supporto psicologico concreto, una persona amica per noi, "noi" intendiamo noi sulla strada!
Truciolo
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