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Sequestro di persona viaggiando da Cina a Italia coi mezzi pubblici “Non capivo perché mi si diceva che io quella donna l’avevo sequestrata. Lei mi aveva seguito per migliaia di chilometri e non l’avevo mai toccata nemmeno con un dito”: a parlare è Zhou, un ragazzo cinese in carcere a Padova, ma a porsi il problema di quando in Italia c’era “l’emergenza sequestri” siamo in tanti
Testimonianza raccolta da Mohamed Ali Madouri
Zhou è un ragazzo cinese che ha iniziato a fare il trafficante di clandestini all’età di 18 anni. Ha svolto questa attività illecita per quattro anni, attraversando le frontiere di mezzo mondo, finché lo hanno arrestato, mentre trasportava dei suoi conterranei in Italia, con l’accusa di sequestro di persona a scopo di estorsione. e hanno così interrotto la sua carriera di trafficante.
“Appena ho finito la scuola superiore” racconta Zhou, “un ragazzo, che si era diplomato qualche anno prima nella stessa scuola, mi propose di lavorare per lui. Voleva me perché parlavo bene l’inglese, e mi offrì 15 mila dollari fissi all’anno e in più pagava tutte le spese dei viaggi”. Così Zhou passò direttamente dai banchi di scuola a far parte di una rete di trafficanti, nonostante né lui né la sua famiglia avessero mai avuto a che fare con la delinquenza. Ma sua madre, una dottoressa, guadagnava 150 dollari al mese, e il padre, che era il sindaco del paese, guadagnava 200 dollari al mese. Quindi ignorare la proposta dell’amico che gli offriva 15 mila dollari all’anno non era affatto facile. “Avevo deciso di andare via di casa, ma non lo potevo fare senza dire niente ai miei”, confessa Zhou “quindi ho pensato di raccontare ai miei genitori il mio progetto”. Per questo motivo, insieme al suo amico si è presentato di fronte ai genitori rassicurandoli che in fondo si trattava soltanto di fare l’interprete e che non doveva fare niente di male, e dopo tante insistenze convince i genitori a dare il loro permesso. Per la prima volta nella sua vita, Zhou lascia da solo la sua casa per iniziare a fare il trafficante di clandestini. “Il mio compito era di accompagnare i miei paesani che dovevano entrare clandestinamente in Europa”, continua Zhou. Il suo amico gli ha fatto un corso accelerato di come comunicare con le autorità presenti alle frontiere, mostrando dei documenti falsi, e come passare agli occhi degli occidentali per normali turisti. È il 1994 quando compie il suo primo viaggio. Accompagna 7 persone dalla Cina attraversando i Balcani fino alla Repubblica Ceca, dove trova appoggio per farle entrare in Germania. Va tutto liscio e torna a casa con 10 mila dollari in tasca. Una somma di denaro mai vista prima. “In tutta la mia esistenza non avevo mai toccato così tanti soldi insieme”, si giustifica Zhou. Nel suo secondo viaggio, le persone da accompagnare sono 12, e questa volta passa per la Russia. Prenota 13 posti su un aereo di linea e atterra tranquillamente a Mosca, dove trova già i “tassisti” con i motori accesi diretti verso l’Ucraina. Però, arrivati lì, deve mettere in funzione il suo ingegno e le sue capacita comunicative per lasciare l’Ucraina, e infatti attraversa Romania e Ungheria usando autostop, taxi, treni e mezzi pubblici, fino in Austria dove per entrare passano addirittura attraverso le montagne a piedi. E da lì alla volta dell’Italia viaggiando col treno. “Alcune persone anticipavano in Cina, prima di partire, il pagamento del viaggio”, dichiara Zhou “ma vi erano altri per i quali garantivano di pagare i famigliari già stabiliti in Europa”. Quindi, quella volta, arrivati in Italia dovette attendere anche i parenti che si erano impegnati a saldare la somma concordata per il viaggio del loro caro. Poi ci racconta il terzo viaggio definendolo come una passeggiata. Quella volta le persone da accompagnare erano 15 e, passato per la Tailandia, Zhou si era procurato dei passaporti falsi per tutti e aveva preso un aereo di linea per la Svizzera, da dove era entrato in Italia. Ma poi confessa che non è andato tutto così liscio sempre, e che nella sua modesta carriera di trafficante, diverse volte è finito in carcere. Per ben due volte è stato arrestato in Tailandia nel 1996, ma non è rimasto in carcere per più di due mesi. Poi il terzo arresto succede in Repubblica Ceca, sempre con l’accusa di traffico di clandestini. E anche là sconta due mesi di carcere.
Io non ho fatto un estorsione, ho richiesto i soldi del viaggio
Nel 1998 intraprende il viaggio più lungo e doloroso della sua vita. Dopo essere passato per la Russia con 15 clandestini, attraversata come tante volte una parte dell’Europa dell’Est ed entrato in Austria, arriva in Italia. Fino a Brescia. Il capolinea è un appartamento dove ad aspettare c’è un altro connazionale. Ma le cose non vanno come al solito. Mentre in meno di tre giorni riesce a consegnare tutte le persone ai loro famigliari, per una donna le cose si complicano. Suo marito, che vive e lavora in Italia, chiede alcuni giorni di tempo perché non ha tutto il denaro pattuito. Quindi Zhou non può ritornare in Cina dal suo datore di lavoro senza avere l’incasso completo, ma deve attendere una intera settimana finché il marito della signora, che è rimasta sempre nell’appartamento, telefona dicendo di avere i soldi che deve pagare, e gli dà appuntamento vicino alla stazione ferroviaria di Brescia. “Sono uscito di casa insieme a sua moglie” dice Zhou, “non avevo motivo per non farlo, fino ad allora era andato sempre bene, però il marito non mi aspettava da solo”. Insomma si tratta di una trappola delle forze dell’ordine. Insieme al marito ci sono decine di carabinieri che lo circondano, lo bloccano e lo portano in caserma. L’accusa è di sequestro di persona a scopo di estorsione. Quindi l’immediato trasferimento in un carcere di Alta Sicurezza. “Quando il magistrato mi ha interrogato dicendomi che ero accusato di sequestro di persona a scopo di estorsione, non mi rendevo conto della gravità della situazione in cui mi ero cacciato perché pensavo di non aver fatto del male a nessuno”, tira su le spalle Zhou abbassando gli occhi. “Non capivo perché mi si diceva che io quella donna l’avevo sequestrata. Lei mi aveva seguito per migliaia di chilometri e non l’avevo mai toccata nemmeno con un dito, insomma mi si voleva far credere di aver sequestrato una persona in Cina e averla portata in Italia con i mezzi pubblici. Ma poi, io avevo chiesto il denaro del viaggio che suo marito ci aveva promesso per portare sua moglie in Italia, mica avevo fatto una estorsione. Inizialmente pensavo, anzi ero convinto, di fare due o tre mesi di carcere come era successo prima in Repubblica Ceca, e che poi sarei uscito, ma invece mi hanno condannato a 12 anni di reclusione. E poi ho saputo che c’è una legge che vieta ai condannati per sequestro di persona di accedere ai benefici penitenziari. Per me questa è una punizione non solo eccessiva ma anche assurda, perché in un paese civile come l’Italia, dove tutti i condannati hanno diritto alla parità di trattamento, io che ho sequestrato una donna senza torcerle un capello mi trovo a giocare a carte con una persona che una donna invece l’ha uccisa a coltellate, e questa persona oltre ad avere preso la mia stessa condanna, lo scorso Natale ha trascorso quindici giorni di permesso premio a casa, mentre io devo scontare la pena fino all’ultimo giorno. Io so di aver fatto un’attività che andava contro la legge e in qualche modo me ne pento, ma mi sarei pentito ancora di più se avessi scoperto che anche la Giustizia rispetta le leggi, quelle che vietano le discriminazioni. Tuttavia, in questi otto anni trascorsi in carcere, ho avuto modo di riflettere sul mio passato e sulla vita che facevo, e capisco di aver fatto un errore a scegliere quella strada, ma soprattutto mi rimane il forte rimorso di non aver continuato a studiare per diventare un medico come mia madre. Il mio desiderio è quello di uscire di qui al più presto possibile e accorgermi che è stato tutto un brutto sogno. Ma so che non è possibile e allora non mi rimane che attendere il fine pena e cercare di rifarmi una vita, lavorando come tutte le persone oneste e sperando tanto che questo precedente non pesi sul mio futuro. Meglio dormire con la rabbia, che dormire con il rimorso Oggi la vita mi ha fatto capire che la violenza è sempre sbagliata
di Mohamed Ali Madouri
Meglio dormire con la rabbia, che dormire con il rimorso. Questo è un detto arabo che conosco sin da bambino. Me lo diceva mia madre ogni volta che litigavo con qualcuno, ma lo sentivo anche dai più anziani del quartiere quando mi vedevano litigare con i miei coetanei. Però erano altri tempi, eravamo bambini e le risse erano di routine. Si era capaci di prendersi a pugni per una partita di pallone e, il giorno dopo, di ritornare amici come prima, niente rancore. Adesso che mi ricordo di queste liti provo quasi imbarazzo e mi viene da ridere per come ero quando ero ragazzino. Oggi invece è tutto diverso e io non sono più il ragazzino di una volta, anche perché poi sono cresciuto nel quartiere più malfamato della mia città dove i detti e i consigli dei vecchi saggi sono trascurati e buttati via in mezzo alla spazzatura, da dove si tirano fuori però i suggerimenti degli stupidi che dicono “occhio per occhio, dente per dente”. Quando sono diventato maggiorenne, ho lasciato il mio paese per immigrare in Europa, per costruire il mio futuro e aiutare la mia famiglia, però le cose non sono andate bene perché dopo pochi giorni dal mio arrivo in Italia mi sono trasformato in un’altra persona. Sono entrato nella strada della criminalità, ritrovando anche qui quella stupida regola del “chi sbaglia, paga”, inteso però come regola dove a far pagare è direttamente chi ha subito il danno e pensa di farsi sempre “auto-giustizia”. Mi sono inoltrato in un mondo in cui le liti non erano più quelle di una volta, quella dei coetanei che litigano per un pallone, per poche ore e poi si riconciliano. E soprattutto qui in Italia non si litiga a pugni, ma, in certe zone almeno, con coltelli, pistole e fucili. Per questo, uno dovrebbe pensare che è meglio non litigare con nessuno per stare alla larga dai guai ed evitare i problemi, ma nella malavita questo atteggiamento non funziona, perché poi devi fare i conti con chi pensa che sei un vigliacco, e basta anche che lo sospettino per metterti sotto a dover lavorare per loro. Perciò, per “lavorare” e vivere alla pari con queste persone vi sono due strade: la prima è entrare a far parte di una banda organizzata, la seconda è mettersi a spacciare da solo, ma con la consapevolezza di rispondere violentemente ad ogni occasione in modo che stiano alla larga. Così io ho scelto la seconda strada e mi sono messo a spacciare da solo. Ma in quella zona vi erano parecchi che facevano lo stesso lavoro, e la mia presenza cominciò a disturbarli finché una notte, senza alcun preavviso, mi hanno fatto un agguato, ho preso due coltellate e sono caduto a terra. Allora uno di loro si è chinato sopra di me e mi ha sfregiato il viso, ordinandomi di lasciare il posto. Il taglio era profondo e deturpava irrimediabilmente il mio viso. Da quel giorno la mia vita, che già stava andando su un binario sbagliato, è cambiata ancora in peggio: non ero più io, mi sono lasciato andare al bere, ho passato notti e notti sniffando cocaina, per non pensare e per cercare di trovare un modo per uscire da quel tunnel di sofferenza e da quel vulcano di rancore che voleva esplodere dentro di me, rabbia e odio accumulati giorno dopo giorno verso l’uomo che mi aveva sfregiato la faccia. Quel che mi faceva più rabbia era l’umiliazione che continuavo a subire tutti i giorni mentre guardavo le stesse persone atteggiarsi da duri, senza pensare nemmeno per un attimo al male che mi avevano fatto. Così alla fine tutta quella rabbia mi portò a uccidere quello che mi aveva causato più danni degli altri, quello che mi aveva lasciato il segno in faccia, quello che mi ritorna in mente ogni giorno che mi guardo allo specchio. I primi tempi, dopo aver commesso questo crimine, non mi sono pentito per niente, anzi ero convinto di aver fatto la cosa giusta, anche se, fino ad allora, non avevo mai pensato di uccidere una persona. E anche quando mi capitava di parlare con altri detenuti o con qualche agente e raccontavo il motivo del mio reato, senza tanti pensieri dicevo che la vittima aveva trovato quel che cercava. E loro mi davano ragione e, dandomi pacche sulle spalle, mi dicevano “Hai fatto bene”.
Sono consapevole che il male che ho causato è molto più elevato di quello che sto vivendo io
Dopo tanti anni di carcerazione, ho trovato però delle persone diverse, che non credono affatto nella vendetta. E non si tratta dei soliti Ministri di culto, ma di detenuti come me e volontari, che hanno l’abitudine di sedersi intorno ad un tavolo e discutere, ragionare, confrontarsi. Ecco, parlando con loro ho visto che mi si aprivano altri orizzonti, ma soprattutto che crescevo, che maturavo. Adesso lavoriamo tutti i giorni per fare un giornale e la redazione si è trasformata in un centro di dibattito dove svisceriamo tanti problemi legati ad esempio alla criminalità, alla tossicodipendenza o alla giustizia, e tutti i giorni mi accorgo di quanto sono stato stupido ad avere la convinzione di sapere tutto. In redazione parliamo spesso anche delle vittime dei reati, cerchiamo di vedere le cose dal loro punto di vista, per essere sempre obiettivi nei nostri ragionamenti, e io mi ricordo di mia madre e della mia famiglia quando sono tornato in Tunisia. Mi ricordo quando sono arrivato a casa, ho salutato mia madre e mia sorella che sono scoppiate a piangere, hanno iniziato a guardarmi e a tastare la ferita che mi ero portato dall’Italia, ed erano addolorati tantissimo per come ero ridotto a causa dello sfregio al viso. E nello stesso tempo mi rendo conto della sofferenza e del dolore che ho causato ai genitori del ragazzo che ho ucciso. E questo mi fa capire che la violenza è sempre sbagliata. Sia per chi la inizia e sia per chi la porta avanti con la vendetta, convinto di essere nel giusto. Spesso ricordo i pianti e la sofferenza della mia famiglia, e in quel momento non posso fare a meno di pensare anche al dolore della madre di quel ragazzo. Mi chiedo se vorrà vedermi. Se avrà voglia di guardarmi in faccia e chiedermi qualcosa. Non so che cosa, ma per me qualsiasi cosa dirà mi andrà bene. Sicuramente ci sono tante domande per le quali vuole avere risposte da me ed io avrei voglia di rispondere e vorrei un giorno farle capire il male e la sofferenza che ho passato io, quando suo figlio mi ha rovinato la faccia e poi la vita, vorrei spiegarle che anche io sono stato una vittima prima di commettere il reato, vorrei raccontarle il dolore e la malinconia che ha vissuto la mia famiglia quando sono tornato a casa con quel grosso sfregio causatomi da suo figlio, e a tutt’oggi loro soffrono ancora per me e per la mia lontananza. Però sono consapevole che il male che ho causato a lei e al resto della famiglia è molto più elevato di quello che ho vissuto e sto vivendo io. Io non ho figli, però ho dei genitori e so quanto soffrono per colpa mia, e ho tanti amici che sono padri di famiglia e so quanto si preoccupano per i loro figli e quanto bene vogliono loro, e tramite loro ho imparato tante cose molto importanti che fanno di me un uomo cosciente e consapevole del male che ho causato. Tuttavia ho un desiderio nascosto di sedermi di fronte alla madre della persona che ho ucciso, per mettermi in ginocchio e piangere, per farle vedere che non sono un mostro e che sto soffrendo anch’io. Questo non le riporterà sicuramente il figlio in vita, ma dopo aver visto come sta male l’assassino di suo figlio, forse si sentirà un po’ meglio. Mi viene spesso in mente lo storico incontro di papa Giovanni Paolo II con il suo attentatore turco Ali Agça, e ricordo il suo viso sereno, e spero che un giorno anch’io possa vedere la serenità sul viso di quella mamma che forse ne regalerà un po’ anche a mia madre.
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