Attenti ai libri

 

Letteratura, scrittura e carcere

La magia di fare tutto quello che le mura, i cancelli e i vetri blindati non permettono

 

di Elton Kalica

 

Sicuramente un’influenza abbastanza pesante sulla mia vita l’ha avuta la letteratura anche quando sono finito in carcere, dieci anni fa. Quando venni arrestato avevo 21 anni e fui messo in una sezione di Alta Sicurezza. In seguito mi fu inflitta una condanna a diciassette anni di reclusione, con in più il fatto che non avevo diritto ad alcun tipo di beneficio, fino alla totale espiazione della pena. Non è facile descrivere lo stato d’animo in cui mi trovavo durante quel periodo, ma per rendere almeno un’idea mi limito a raccontare che ho trascorso tre anni e mezzo senza aprire bocca, se non per chiamare l’agente e dire “doccia!”, oppure “passeggi!”.

Non salutavo e non conversavo con nessuno. Passavo le mattine a fare ginnastica, e i pomeriggi a leggere romanzi presi dalla biblioteca del carcere, di parecchi dei quali non ricordo più né i titoli né gli autori. La consapevolezza di dover passare tutta la gioventù in carcere, il senso d’impotenza mi scavavano l’anima facendola diventare trasparente, svuotandola di ogni sentimento umano. Ogni tanto, preso dalla rabbia per questo brutto destino di cui mi consideravo ingiustamente depositario, sfruttavo qualche gesto ambiguo o parola malcompresa per fare a pugni con qualche compagno, finendo poi dritto in isolamento. Ma le sanzioni disciplinari non mi facevano alcun effetto. Abituato allo spontaneo isolamento della mia cella, non mi sentivo a disagio per i giorni trascorsi in una vera cella di isolamento.

Dopo circa tre anni e mezzo di auto-isolamento, quando avevo il corpo, il collo, le braccia coperti da macchie rosse per il lungo tempo che passavo a letto a leggere, mi capitò tra le mani un libro che si intitola “La vita sommersa di Gould”. La storia era costruita con crudo realismo, attraverso una specie di diario dell’orrore che un falsario inglese, condannato all’ergastolo nella colonia penale di Sarah Island, in Tasmania, aveva scritto di nascosto usando come inchiostro ogni tipo di residuo organico, persino del sangue.

Questo romanzo mi ha colpito molto, è vero, anche per l’abilità e la ricchezza dell’immaginazione di Richard Flanagan nel raccontare le condizioni disumane della detenzione, e come il protagonista le affronta con una forza dirompente, accompagnata da una forte dose di ironia, ma soprattutto questo libro mi ha stimolato a riflettere sulla violenza, su questa irresistibile voglia che l’uomo ha di colpire, di umiliare, di uccidere i propri simili. La violenza l’avevo vista anche in altri libri, in “Guerra e Pace” di Tolstoj oppure, per rimanere in Italia, in “Addio alle armi” di Hemingway. Ma ho vissuto in modo diverso e più sofferto le immagini descritte nel diario di Gould, forse perché sentivo sulla mia pelle tutte le peripezie vissute dal protagonista, o forse perché, a differenza dello sporco delitto che è la guerra, quello che succedeva nelle isole australi era un delitto ancora più orrendo, dato che le umiliazioni e le sevizie erano inflitte nella freddezza della pace, ordinate per puro arbitrio dal Comandante dell’isola che disprezzava la vita delle persone condannate.

Leggendo questo libro dunque, e riflettendo sulla violenza in generale, mi accorsi che la galera mi aveva investito di quella stessa violenza che il Comandante dell’isola infliggeva nel campo di detenzione. In altre parole, quando litigavo con altri, ero anch’io portatore di quella pazza idea di assumere il diritto di decidere della vita o della integrità fisica di un’altra persona, quella voglia di risolvere le questioni facendo giustizia da me, usando la forza. Era chiaro che c’era della contraddizione in tutto questo. Mi sono chiesto: come faccio ad aborrire la condotta di quel comandante, come faccio a disapprovare i suoi metodi, le torture, le sevizie, le uccisioni, se poi anch’io faccio la stessa cosa, causando del male agli altri o a me stesso? Come faccio a sperare che situazioni come quella descritta nel libro non ritornino mai più, se poi al primo sospetto di aver subito un torto decido di aggredire un’altra persona? Ho capito allora che la vita e l’integrità fisica di una persona sono inviolabili, e che nessuno ha il diritto di toccarle, per nessun motivo. E da quella volta io ho detto basta alla violenza. Grazie soprattutto a quel libro.

 

La scrittura mi ha fatto uscire da quello stato di brutalità in cui mi ero immerso durante i primi anni di carcere

 

Può capitare che ad un certo punto della nostra vita succeda un evento importante e si cominci a guardare le cose in modo diverso. Ecco, nel mio caso fu un libro a farmi riflettere sulla mia vita, stravolgendola: la galera aveva tirato fuori di me il lato peggiore, la letteratura stava risvegliando quello migliore. A quel punto decisi di uscire dalla cella e cambiare atteggiamento. Cominciai a fare amicizia con altri detenuti e a frequentare la scuola del carcere. Ma soprattutto iniziai a scrivere, una passione che avevo avuto anche durante il liceo, ma che avevo interrotto insieme agli studi.

Scrivevo dei racconti e man mano che avanzavo lungo il cammino della scrittura mi accorgevo di essermi inoltrato in una dimensione parallela, lontana dal carcere, in un mondo ardente che sostituiva la fredda cella e mi rivestiva di un calore magico fatto di curiosità, di fantasia, d’amore per una letteratura che veniva da qualche angolo della mia anima. Ovviamente raccontare storie non è semplice: bisogna descrivere in modo chiaro le scene, si devono spiegare con un certo ingegno i pensieri dei personaggi e inquadrare tutto con intensità e coinvolgimento. E per fare ciò servivano parole, parecchie parole, per me che, straniero, ne avevo poche quando volevo usare la vostra lingua. Quindi, merito di un’enciclopedia Garzanti, ho cominciato a incrociare le mie idee con le interminabili ricerche di aggettivi nuovi e di sostantivi originali: inventando scene e sperimentando frasi che, a dispetto della sintassi, riuscivano incredibilmente ad essere piene di energia espressiva. Forse è stato tutto merito di un trucco che avevo escogitato: sin da piccolo sono stato affascinato dall’architettura, un’arte che si avvale di segmenti e curve per creare opere d’arte, quindi immaginavo quell’enciclopedia come un mucchio di mattonelle, ognuna diversa dalle altre, e il mio compito era quello di costruire dei palazzi fatti di storie, dove il lettore poteva entrare ed interessarsi del mio mondo, emozionarsi ma non solo, doveva sentire anche il calore e la passione che cova nel mio cuore.

Questo desiderio continuava a crescere ogni volta che regalavo un racconto ad un’amica o amico e mi sentivo dire che la storia l’aveva toccato profondamente, o che un personaggio gli aveva fatto provare delle emozioni: la cosa che mi è sempre mancata in galera è il contatto umano, quello di riuscire a parlare liberamente, comunicare dei pensieri, trasmettere delle emozioni, scambiare quel calore che passa attraverso gli occhi, la pelle, le labbra, vale a dire tutto ciò che il carcere proibisce. Quello che mi ha davvero stupito scrivendo è stata la magia di fare tutto quello che le mura, i cancelli e i vetri blindati non permettono, una magia di cui soltanto la scrittura è depositaria.

Il primo racconto lo mandai alla redazione di “Ristretti Orizzonti”, che non soltanto lo pubblicò, ma mi chiamò a collaborare appena il direttore del carcere mi tolse dal regime d’Alta Sicurezza. Vederlo pubblicato fu una grandissima emozione: avrei voluto avere tanti amici, parenti, conoscenti per mandare una copia della rivista a tutti, per dir loro “Ecco, non sono soltanto quel delinquente finito in galera, sono anche uno scrittore, uno che sa e ha qualcosa da scrivere, da raccontare, sono diventato uno scrittore, che vi piaccia o no”.  Alla fine mandai una copia soltanto ai miei genitori, che la incorniciarono, per convincersi anche loro che in fondo non avevano sbagliato tutto con me.

Spedii altri racconti in vari concorsi letterari, alcuni più fortunati furono premiati, ad esempio mi è stato assegnato il premio letterario “Extra”, poi il premio letterario “Rotary Club” e quello “Ora d’aria” nel 2006, e altre segnalazioni ancora che non mi dilungo a citare. Insomma, una grande soddisfazione personale perché, oltre al piacere che la scrittura mi regalava, vedevo che vi erano persone alle quali piaceva leggere i miei racconti.

Poi mi appassionai al giornale, Ristretti Orizzonti, della cui redazione ormai faccio parte da cinque anni, e cominciai a lavorarci scrivendo articoli, recensendo libri, e continuando con i miei racconti. A volte mi capita di scrivere anche qualche articolo giornalistico per altri giornali locali, realizzati da associazioni di volontariato o da immigrati che si occupano del sociale. Insomma, dopo la scrittura, scoprii anche questo mondo particolare del giornalismo carcerario, un mondo in cui mi trovai bene da subito, dimenticandomi dei cancelli e delle mura che comunque mi circondavano.

Ho detto poco fa che leggendo “si rimorchia”. Ecco, devo confessare che scrivendo si rimorchia ancora di più. Non sono poche le ragazze che mi scrivono, con il desiderio di conoscermi, e ovviamente ho fatto e mantengo delle amicizie importanti, e ora sono certo di poter trovare l’amore proprio grazie alla scrittura, una donna bella e intelligente che mi amerà senz’altro per ciò che scrivo e non per i miei occhi azzurri.

Ma credo che la cosa più grande, il regalo più importante che la scrittura mi ha dato, sia stata quella di uscire da quello stato di brutalità in cui mi ero immerso durante i primi anni di carcere: una condizione nella quale è facile finire, quando non si hanno più prospettive, quando ti trovi proiettata addosso l’immagine del mostro che non si può rieducare, ma che si deve soltanto tenere legato in gabbia, quando assimili quella malvagità che ti è stata attribuita e finisci per avere la convinzione di essere veramente il cattivo, perdendo così ogni interesse per la vita tua e per quella degli altri.

E allora, posso affermare che la letteratura e la scrittura mi hanno offerto gli strumenti necessari per uscire dall’autodistruzione, e scrivere mi ha fatto capire che sotto quella maschera nera che mi avevano messo si nascondeva un viso umano, fatto forse di sentimenti offuscati e di un cuore inaridito, ma pur sempre umano. È per questi motivi che alla fine ho imparato ad avere un atteggiamento critico, e oggi condanno assolutamente quella cosa così mostruosa che è la violenza contro le persone, sono state dunque la letteratura e la scrittura, e non la galera, che mi hanno indicato la strada da prendere, quella dell’amore per la vita, la mia vita e quella degli altri. O per meglio dire sono state la letteratura e la scrittura, più che la galera, a rieducarmi.

Bisogno di giustizia e verità

Il vuoto e la disperazione che caratterizzano l’esistenza

delle vittime di trent’anni di violenze e di misteri italiani

 

Recensione a cura di Marino Occhipinti

 

Quando è venuta nella nostra redazione Olga D’Antona – il cui marito Massimo, esperto di diritto del lavoro, è stato ucciso il 20 maggio del 1999 dalle nuove Brigate Rosse – ci ha raccontato, tra le altre cose, dell’insopportabilità della cappa di silenzio che, trascorso il clamore iniziale, pian piano scende su chi i reati li ha subiti direttamente o sui loro familiari.

Ci ha allora consigliato, Olga D’Antona, di leggere il libro recentemente scritto da Giovanni Fasanella e da Antonella Grippo, I silenzi degli innocenti, un libro in cui viene data voce ad alcune delle vittime di trent’anni di violenza e di misteri italiani, da piazza Fontana ad oggi. Il giorno in cui Ornella Favero, la responsabile di Ristretti Orizzonti, quella raccolta di testimonianze l’ha portata in redazione, come si usa fare ogni volta che capita di tenere un libro in mano, ho aperto una pagina a caso. Il primo titoletto mi ha fatto letteralmente trasalire: “Dovrebbero guardarci con gli occhi bassi, e sperare che Dio non esista”.

A pronunciare quella frase è Lia Serravalli, che nella strage della stazione di Bologna del 1980 ha perso Patrizia e Sonia, le due figlie adolescenti, la sorella ed il bimbo che quest’ultima portava in grembo. Ma mentre la tragica storia di Lia Serravalli l’ho letta soltanto nei giorni successivi, il suo concetto mi ha molto colpito lì per lì, nell’immediato. Mi ha fatto tornare in mente l’espressione che era solita ripetermi insistentemente, e lo ha fatto per parecchio tempo, la “mia” educatrice – la prima persona con la quale nel 2000 sono riuscito a “confidarmi per intero” – nei primi anni in cui sono arrivato in questo carcere.

La devi smettere di abbassare sempre lo sguardo ogni volta che incontri qualcuno, chiunque esso sia”, mi disse un giorno quell’educatrice, che di questa mia reazione si era evidentemente resa conto. Dopo essermi “messo a nudo”, infatti, e dopo averle spiegato che sì, ero realmente responsabile dei gravissimi reati per i quali ero stato condannato (ma che per tutta una serie di circostanze avevo per sei lunghi anni e fino ad allora negato), non riuscivo più a reggere lo sguardo di chicchessia, si trattasse dei miei familiari o di qualsiasi altra persona.

I silenzi degli innocenti racconta – attraverso le persone che in piazza Fontana, in piazza della Loggia, sul treno Italicus o alla stazione di Bologna c’erano e che solo per miracolo o per una fortuita coincidenza si sono salvate – il vuoto e la disperazione che improvvisamente irrompono nell’esistenza di persone che fino ad allora avevano avuto una vita normale. L’intenzione degli autori è stata anche quella di dare voce a chi invece, generalmente, viene dimenticato. E per chi ha perso una persona cara, o per chi, come narrano le testimonianze di questo libro, è stato ferito nelle stragi e ne porta i segni indelebili nel corpo e nell’anima, il timore che si perda la memoria di un pezzo della storia italiana è intollerabile.

Allo stesso modo è inaccettabile, per chi è stato duramente colpito in quei decenni dalle stragi o dal terrorismo in generale, che nonostante il tanto tempo trascorso, il segreto di Stato impedisca di fare piena luce e di conoscere quindi la verità dei fatti (dopo 26 anni di indagini e di processi, è di questi giorni l’assoluzione definitiva per la strage di Ustica che nel 1980 causò 81 morti). E, come lamentano i protagonisti del libro, il fatto di non avere giustizia e verità, impedisce loro di uscire da quel passato, li tiene costantemente ancorati ad esso; ed inevitabilmente li priva anche di un’altra possibilità, quella del perdono, che probabilmente alleggerirebbe il loro animo, perché “non è possibile perdonare dei fantasmi, ho bisogno almeno di vedere i volti di chi mi ha fatto del male, magari di incontrarli”, raccontano alcuni dei protagonisti del libro.

Non a caso, difatti, sono proprio le persone che hanno avuto prima il desiderio e poi la possibilità, e soprattutto il coraggio e la forza di conoscere ed incontrare i responsabili delle loro sofferenze, ad uscirne sollevate e a spiegare che è stato un “arricchimento reciproco”.

Sarà forse perché anch’io sono artefice della sofferenza e del dolore di altre persone, ma i due giorni di immersione nella lettura di I silenzi degli innocenti mi hanno provocato un forte disagio e risvegliato, se mai ce ne fosse stato bisogno, una buona dose di angoscia. Un libro che dovrebbe essere letto dai cittadini liberi, ma soprattutto da coloro che si trovano in carcere.

 

 

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