Prospettiva: lavoro

 

Ai detenuti serve lavoro, non assistenza

È la convinzione dell’associazione Paideia di Salerno

Che studia progetti per il reinserimento e il recupero sociale

di chi sconta una pena, in una zona ad alto rischio di criminalità organizzata

 

A cura di Marino Occhipinti

 

Tornare a lavorare, dopo aver pagato il proprio debito con la giustizia, è un incentivo a migliorare il proprio stile di vita. A Salerno, il centro polivalente Paideia organizza corsi di orientamento professionale rivolti ai detenuti, in collaborazione con il Progetto Ipotenusa, una realtà formata da associazioni e cooperative sociali che si occupano di accoglienza, socializzazione, formazione, case-famiglia e reinserimento lavorativo. Il progetto curato da Paideia attualmente occupa otto detenuti in esecuzione penale esterna per sei mesi: si chiama Retravailler, ritorno al lavoro. I detenuti sono impegnati in vari ambiti: manutenzione del verde, agricoltura e allevamento, ma anche ambiti più di responsabilità, come la gestione di ristoranti. C’è una prima fase, in cui Paideia dedica un mese all’accoglienza e all’orientamento degli aspiranti lavoratori, sondando le motivazioni. E una seconda fase, curata da Progetto Ipotenusa, più pratica: si mostra il lavoro ai vari candidati e li si affianca nei primi passi. Gli otto borsisti che si sono aggiudicati la possibilità di frequentare i corsi di preparazione al lavoro, frequentano le lezioni con puntualità. In gioco c’è la messa in discussione del loro vecchio stile di vita, del loro passato. Una riflessione non facile ma possibile, secondo Serenella Alois del centro Paideia, che ha risposto alla nostra richiesta di informazioni.

 

Cos’è esattamente il centro Paideia?

L’associazione Paideia è un’agenzia che promuove la ricerca sociale, la formazione e l’aggiornamento dei quadri del volontariato organizzato, del terzo settore, degli amministratori e operatori sociali delle strutture pubbliche. Ci occupiamo anche di consulenza e qualificazione verso politiche sociali innovative. Siamo nati nel 1991 per iniziativa del Movi, il Movimento di volontariato italiano, cui aderiscono molte avanzate esperienze di solidarietà attive nel Paese, e di altri enti e organismi non profit impegnati nel campo dei servizi per persone e famiglie in difficoltà.

 

Quali sono le vostre principali attività?

Dal 1991, Paideia attua progetti e interventi di ricerca sociale, formazione, consulenza e assistenza tecnica su tre aree tematiche: orientamento al lavoro delle fasce deboli, promozione del volontariato e dell’economia sociale e laboratorio culturale sui sistemi di welfare. Presso la sede dell’associazione abbiamo anche uno Sportello di orientamento al lavoro per pianificare e costruire progetti individuali di inserimento socio-lavorativo, attraverso percorsi singoli e di gruppo. Offriamo un sostegno psicosociale e redigiamo un “bilancio delle competenze”, al fine di fare acquisire le necessarie capacità per un’attiva ricerca del lavoro.

 

Come nasce invece il progetto Retravailler?

Da una rete informale di attori pubblici, formata nel 2002: ministero della Giustizia, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Centro di servizio sociale adulti di Salerno e il Centro di formazione professionale della Regione Campania. Oltre a varie componenti del privato sociale. Come associazione Paideia siamo stati i primi, nella provincia di Salerno, a determinare l’area del disagio penale quale area di intervento predominante della nostra azione sociale.

 

Dove si radica il progetto, in quale contesto?

Interveniamo nell’intero territorio della provincia di Salerno, in particolare nell’agro nocerino-sarnese e nella piana del Sele. Si tratta di aree a grave rischio di criminalità organizzata, mentre il territorio metropolitano del capoluogo è toccato in forte misura dal fenomeno della tossicodipendenza e dei reati che ne derivano. Siccome sono quasi nulli gli interventi di prevenzione e riabilitazione messi in campo dagli enti pubblici in questo ambito territoriale, e scarseggiano anche le risorse economiche degli enti locali da destinare a questa tipologia di utenza (arrivano solo sovvenzioni economiche a pioggia), abbiamo ritenuto indispensabile indirizzare le risorse, umane ed economiche, nel campo del reinserimento socio-lavorativo di persone svantaggiate.

 

Ma c’è un preambolo teorico, istituzionale e di politica culturale dal quale scaturisce la vostra iniziativa?

L’applicazione del nuovo Codice penale, ancora ai lavori presso la commissione di studio ministeriale (Commissione Nordio), prevede per alcune forme di reato di convertire la pena detentiva in altre forme di reinserimento sociale: partecipazione ad attività lavorative o iniziative legate in qualche modo al benessere della comunità, che permettano alle persone detenute per pene più lievi di strutturare un vero percorso di riabilitazione sociale. Noi ci stiamo già indirizzando in quel senso.

 

Come centro Paideia partecipate ad altri progetti?

Collegato a Paideia c’è il progetto Ipotenusa, una composita realtà formata da diverse associazioni e cooperative sociali che da anni si occupano di accoglienza, socializzazione, formazione e reinserimento socio-lavorativo di persone con svantaggio sociale attraverso una serie di interventi e servizi. Il progetto Ipotenusa nasce infatti dall’omonima associazione di volontariato, che è anche socio fondatore di Paideia. Attualmente siamo impegnati nella gestione di varie strutture: sette case famiglia, di cui quattro per minori a rischio, una per disabili, due per persone con disturbo mentale. Abbiamo poi un centro socio-educativo per disabili, servizi di assistenza materiale nelle scuole, a Salerno, e di educazione domiciliare a Pontecagnano. Le cooperative sociali di tipo B, invece, quelle che tra gli associati comprendono le stesse persone svantaggiate, incentrano ultimamente il proprio intervento su attività di giardinaggio e manutenzione del verde, gestione di una piccola fattoria con servizi nel campo dell’allevamento, dell’agricoltura e della ristorazione, nonché servizi di grafica ed editoria elettronica.

 

E gli obiettivi primari dell’iniziativa, quali sono?

Creare le condizioni per un reale inserimento lavorativo di persone quasi sempre con bassa scolarità di base e scarse competenze professionali. Tra queste rientrano purtroppo i detenuti, la cui richiesta di accompagnamento passa attraverso la messa in discussione del proprio percorso di vita e la rielaborazione dei propri bisogni ed esigenze. Il mondo lavorativo non si dispone all’accoglienza: è diffidente e pieno di pregiudizi che di fatto escludono nuovamente certe risorse umane che invece sarebbero valorizzabili. Questo ci spinge ancora di più a incoraggiare le realtà territoriali che, in veste di promotrici del volontariato e della cooperazione sociale, hanno da tempo strutturato e sperimentato concrete forme di reinserimento sociale e lavorativo di persone svantaggiate.

 

E con tutto questo lavoro di base quali sono gli esiti ottenuti fin qui?

L’esperienza formativa ha mostrato la validità dello scambio mirato all’apprendimento e alla costruzione di nuovi stili di vita sani e positivi. Tra le persone con le quali siamo venuti in contatto durante il percorso formativo, è emerso il bisogno, dopo la fase di ri-orientamento, di sperimentarsi in attività lavorative, legate non solo al soddisfacimento dei bisogni personali, ma in cui risultasse preminente la relazione e la comunicazione con l’altro. Se l’obiettivo principale di questi percorsi punta a promuovere un cambiamento di vita, fondamentale per un percorso di integrazione socio-lavorativa, è evidente che gli esiti non sono facili da raccogliere se non in tempi medio-lunghi. I progetti dimostrano però che tali percorsi riescono a smuovere e ad attivare una carica motivazionale ed emotiva, un desiderio di cambiamento per il 50 per cento dei destinatari coinvolti. Il resto è tutto affidato da una parte agli stessi destinatari chiamati a interrompere il circuito vizioso dell’assistenza, dall’altra agli stessi interlocutori, istituzionali e non, che hanno messo in moto il processò dell’autovalorizzàzione e non possono interromperlo improvvisamente con la chiusura delle attività progettuali. Nel complesso il grado di soddisfazione dei corsisti è stato alto: hanno gradito la scelta delle aziende cui sono stati assegnati, hanno subito percepito il vantaggio dell’inserimento in ambienti lavorativi disposti all’accoglienza e con personale la cui modalità di relazione prescinde da diffidenze e pregiudizi. Bisogna comunque coniugare i percorsi di reinserimento in società con l’ancora, purtroppo, lontana attenzione del mondo produttivo alle problematiche sociali di reinserimento di persone sfavorite. Le quali, sono convinta, sono sempre portatrici di un valore aggiunto sia in termini di produttività che di relazioni umane.

 

Paideia Onlus, formazione ricerca e consulenza per le politiche sociali

Via V. Graziadei, 3 - 84135 Salerno - Telefono/fax 089482439

paideia@paideiacentroservizi.it

www.paideiacentroservizi.it

La terra prigioniera di Bollate dà buoni frutti

Nel carcere dell’hinterland milanese, la cooperativa Cento Venti

trasforma i detenuti in agricoltori rispettosi dell’ambiente.

E, per piazzare i prodotti su un mercato alternativo e attento al sociale,

lancia un appello ai Gas, i Gruppi di acquisto solidale

 

A cura di Marino Occhipinti

 

Cento Venti è una giovanissima cooperativa sociale, costituita nel 2003 da soci esterni, quindi liberi, ma anche da persone detenute. Proprio dentro le mura del carcere di Bollate, periferia nord-ovest di Milano, sono state impiantate una serie di colture. Ma la novità sta nel fatto che i prodotti della terra “reclusa” presto potrebbero finire sulle tavole di chiunque grazie a un canale di vendita molto particolare e improntato alla solidarietà: i Gruppi di acquisto solidale, in gergo Gas. Sono famiglie, molto diffuse in tutta Italia e a Milano, che si uniscono nella spesa per disertare i supermercati e andare a scovare piccoli agricoltori e cooperative che offrono prodotti biologici e ad alto “contenuto etico e ambientale”. L’acquisto in gruppo, oltre a essere divertente, permette di ottenere prezzi più convenienti. Uno degli scopi dei Gas è incoraggiare le piccole cooperative agricole, in particolare quelle che danno lavoro a persone svantaggiate. Ecco perché Cento Venti è a loro che ha lanciato subito un appello. Ed ecco come è iniziata l’attività della cooperativa: ce lo racconta Michele Segreto, biologo e suo presidente.

 

Ci parla della cooperativa Cento Venti, come e quando è nata?

La nostra cooperativa è nata nel maggio 2003 sulla spinta di un progetto che prevedeva l’intervento dell’Amministrazione penitenziaria, della Regione Lombardia e del ministero della Giustizia. Sia chiaro però che siamo del tutto autonomi dagli enti pubblici: loro hanno solo avviato il progetto finanziando le attività iniziali e mettendo in comunicazione tra loro i diversi soggetti interessati.

 

Quanti detenuti coinvolgete nella vostra attività?

Cento Venti ha attualmente sette soci esterni e cinque interni, i detenuti appunto, che dovrebbero diventare quattordici se andranno a buon fine i nostri propositi di ampliamento. Prevediamo infatti, entro breve, di realizzare nuove serre. I detenuti sono regolarmente assunti con uno stipendio di circa 530 euro al mese, l’equivalente della mercede carceraria, ovvero la paga che percepiscono gli altri reclusi addetti ai lavori interni. Abbiamo scelto insieme questa cifra per non creare disparità tra chi lavora in cooperativa e chi per l’Amministrazione penitenziaria, che generalmente prevede paghe più basse.

 

Ma di cosa vi occupate esattamente? E ci sono possibilità, in futuro, che i soci detenuti riescano a lavorare anche fuori dal carcere?

Ci occupiamo prevalentemente della manutenzione del verde del carcere (circa 60 mila metri quadri), produciamo verdure da vendere all’interno della struttura, per lo più al personale, e piante per la realizzazione di spazi verdi esterni. Pensi che lo scorso anno abbiamo prodotto 26mila viole e quest’anno saranno il doppio. Ma per ora, purtroppo, le attività sono solo interne al carcere, vista la carenza di soci che accedono all’articolo 21 (il lavoro all’esterno). Nel corso di quest’anno, comunque, due ex soci sono usciti e, grazie all’esperienza acquisita con noi, uno già lavora presso un vivaista e l’altro ha ripreso l’occupazione che aveva. Tra i nostri obiettivi futuri c’è sicuramente quello di creare una struttura-volano all’esterno, con gestione di aree verdi, in modo da facilitare il reinserimento in ambito lavorativo dei nostri soci una volta tornati liberi o ammessi alle misure alternative.

 

E l’attività di orticoltura, invece, come si svolge?

Abbiamo un pezzo di terra interno al carcere lasciato a nostra disposizione, circa 1.500 metri quadrati, in cui coltiviamo vari tipi di verdure: patate, pomodori, finocchi, insalate, cavoli, carote, melanzane, cetrioli, zucchine… Quest’anno abbiamo cambiato i rapporti quantitativi per rispondere adeguatamente alle richieste, che sono aumentate. Utilizziamo esclusivamente metodi biologici, ossia niente fertilizzanti chimici né antiparassitari. A volte questo produce un certo scoraggiamento nei soci lavoratori, perché vedono crescere le verdure al rallentatore. Le melanzane non diventano gonfie come mongolfiere e le patate hanno una resa bassissima ancora al secondo anno. Come se non bastasse, non possiamo neppure avere una certificazione di produttori biologici a causa della nostra locazione e delle condizioni del terreno: durante la costruzione del carcere, terminata pochi anni fa, è stato massacrato nella sua struttura agricola dal passaggio dei mezzi del cantiere.

 

Eppure riuscite a commercializzate i vostri prodotti. Come fate?

Questa è la parte più complicata. Vendiamo per lo più al personale interno al penitenziario, con grossi limiti posti dal fatto che nella struttura non possono girare soldi tra i detenuti, per cui per ora chi vuole acquistare qualcosa viene segnato su un quaderno e paga a fine mese. Qualche cosa viene venduta anche all’esterno ad alcuni ristoranti da noi contattati, ma vista la produzione ridotta e non ancora stabilizzata, non possiamo pensare di partecipare ad appalti per le forniture di mense, neppure per quella del carcere di Bollate. Però non ci arrendiamo: proprio in questi giorni abbiamo lanciato un appello ai Gruppi di acquisto solidale affinché comprino i nostri prodotti, e abbiamo già ricevuto risposte promettenti.

 

Da parte delle persone detenute avete trovato sufficiente impegno?

Sì, una grande disponibilità. Alcuni sono molto motivati e dimostrano un notevole impegno. Altri per ora tendono ad andare un po’ a rimorchio ma è un comportamento normale: ho notato che servono alcuni mesi per prendere i ritmi giusti.

 

Quali difficoltà avete incontrato, nel corso di questo vostro primo anno di vita?

Le vere difficoltà sono legate ai tempi della struttura carceraria. Nonostante il grande impegno e l’interessamento del direttore del carcere, la dottoressa Lucia Castellano, che su questo progetto ha riversato grandi energie, siamo in ritardo di un anno nella realizzazione delle serre, che permetterebbero l’assunzione di un’altra decina di soci-lavoratori. Poi, ovviamente, anche la semplice entrata in carcere con l’auto per il trasporto di piantine, sementi, terriccio e quant’altro, sottoposta a tutti i controlli di rito, può diventare un momento di una lunghezza esasperante. Ci abbiamo fatto il callo, ma tutto questo, al termine di un lavoro annuale, non può non avere un suo costo in termini di tempo e di risorse.

 

 

Precedente Home Su Successiva