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Momenti di sconforto ne ho avuti molti, ma non mi sono data mai per vinta. In detenzione domiciliare, con una figlia e alla ricerca di un lavoro per non doversi far mantenere dalla famiglia
di Patrizia
Se fossi tra quelli a cui piace tenere un diario e scrivere giornalmente quello che mi succede, che penso, che progetto, avrei forse anche scritto moltissimo, ma non credo sia importante ciò che succede di giorno in giorno, a parte l’umore che varia regolarmente, perché in realtà i giorni sono tutti uguali, la vita di un detenuto va al rallentatore fino ad arrivare al fine pena, solo lì puoi pensare di recuperare il tempo perduto, da solo però non ce la farai mai, lui sarà sempre più avanti di te ed è per questo che serve un aiuto. Quando sono uscita dal carcere in detenzione domiciliare mi sono liberata di alcune difficoltà, ma ora ne avrò mille altre da superare. Alle volte, esausta, mi dico che non finirà mai, avrei una voglia matta di correre e invece devo rispettare i tempi, fare un passo alla volta e sperare che chi ha "la discrezionalità" su di me mi lasci fare quel passo. Quello che, dalla mia esperienza in carcere e da quella che sto facendo ora, posso dire con certezza è che, se impari già da dentro a darti da fare chiedendo informazioni e ad occuparti del tuo domani, quando esci avrai una marcia in più, per lo meno saprai a chi rivolgerti e come chiedere le cose. Le difficoltà sono molte e nessuno viene a cercarti, dovrai sempre fare tu il primo passo, io mi sono imposta una cosa, non dire mai: "Non ho voglia di fare oggi, faccio domani", sono già troppi i giorni che ho perso in carcere per perderne ancora. Per quanto mi riguarda e parlando del mio reinserimento, devo dire che sono contenta, anche se mi sento, nella mia nuova vita, un po’ "estranea" e non completamente partecipe in alcune situazioni. Per esempio, quando vado alle riunioni scolastiche, gli altri genitori ormai si conoscono da 4 anni, io li conosco solo adesso e poi, se si decide di trovarsi fuori dalle mura della scuola per decidere su alcuni problemi riguardanti i bambini, io non posso dare la mia disponibilità, perché non rientra nel permesso che il Magistrato mi ha concesso. Non essendo libera di decidere da sola, mi sento fuori dal gruppo, sono in una realtà che non è ancora mia, ho sempre in mente gli orari, avvertire la caserma dei carabinieri quando incomincia la riunione e pressappoco l’ora del rientro a casa, però devo dire che mi aiuta molto il fatto che sono precisa e mi piace la puntualità, quindi non ho difficoltà a rispettare le prescrizioni. Adesso sto affrontando un altro problema, quello del lavoro, spero di essere a buon punto ma ho cominciato a darmi da fare un paio di mesi dopo essere arrivata a casa, e se ci ripenso, mi ricordo che ero molto a terra, perché oltre alla situazione già non facilissima di essere in detenzione domiciliare si aggiungeva la difficoltà di trovare uno straccio di lavoro che avesse però le risposte giuste per venire accettato da parte del Magistrato di Sorveglianza. Dalla mia avevo il tempo, perché sapevo di dover fare un percorso prima di poter presentare una richiesta di lavoro, così mentre i miei famigliari si guardavano in giro per trovare un lavoro adatto alla mia situazione, io ho telefonato all’assistente sociale che mi segue chiedendole se lei poteva vedere quali opportunità ci sono sul territorio, e la sua risposta è stata: "Poche, e se avesse qualche famigliare che la aiutasse a cercarne una sarebbe meglio". Bene, ho detto io, e fortuna che ho una famiglia! Ma come fanno quelli che non ne hanno una? Momenti di sconforto ne ho avuti molti, ma non mi sono data mai per vinta, dal mio reinserimento nel mondo del lavoro dipende il mio futuro, l’indipendenza economica, poter provvedere personalmente alle necessità di mia figlia, e forse un’opportunità in più, per il mio compagno, di tornare a casa. Adesso ho due possibilità di lavorare, ne ho presa in considerazione una, quella più vicino a casa, ho messo in contatto l’assistente sociale con il datore di lavoro per eventuali chiarimenti e se risulterà tutto idoneo presenterò la richiesta al Magistrato, la speranza è che mi venga accolta perché con il lavoro posso chiedere anche l’affidamento in prova. Quello che vorrei aggiungere su questo tema, le difficoltà del dopo-carcere, è che, per quanto ho potuto constatare nel mio piccolo, c’è pochissima attenzione per questi problemi e sono in pochi a voler concretamente aiutare chi si trova in una situazione disagiata di questo tipo. Corpi curati... corpi trascurati... corpi annullati...
La difficoltà di sentirsi donne in carcere
Alla Giudecca c’è un laboratorio di cosmetici, che le donne detenute producono utilizzando le erbe coltivate nell’orto. Si direbbe che, paradossalmente, la bellezza sia di casa in questo carcere. Ed è di casa anche quando arrivano le troupes di qualche televisione per girare un servizio, e sono in tante allora a truccarsi, vestirsi con eleganza, farsi acconciare da chi, lì dentro, riveste il ruolo di parrucchiera, con pochi mezzi ma grande fantasia, a giudicare almeno dai colori di capelli che girano ogni tanto per il carcere. Gli stessi preparativi delle "grandi occasioni" avvengono anche per i colloqui, e riguardano le donne che, per lo meno, hanno qualche famigliare che va a trovarle. Ma poi la misera quotidianità, le giornate grigie e ripetitive travolgono tutto e tutte, ed è difficile allora non lasciarsi andare, non farsi travolgere dalla "bruttezza" del carcere. Di bellezza e di bruttezza abbiamo discusso a lungo nella redazione della Giudecca, concedendoci, per una volta, il lusso di affrontare un tema "frivolo", anche se in realtà in galera di frivolo, leggero e delicato non rimane quasi niente.
La discussione è partita da una considerazione: che nelle carceri femminili si vedono spesso due tendenze assolutamente opposte, da una parte donne che si lasciano andare del tutto, mangiano senza controllo, abbandonano qualsiasi cura di sé, dall’altra donne addirittura maniacali nell’attenzione verso il proprio corpo.
Marta: La cosa non mi interessa più di tanto, l’argomento non mi tocca, non guardo molto a queste cose. Ma onestamente non vedo neppure nelle altre tutta questa maniacale cura di sé. Chiara: Io invece vedo proprio questo… sono parecchie le persone che hanno molta più cura di sé all’interno del carcere. Ci si concentra molto di più sul proprio corpo. Personalmente invece ritengo che da quando sono entrata, ma questo riguarda me, sono diventata "un cesso", la mia reazione è sempre quella d rimandare tutto a quando sarò uscita. Però invidio molto quelle donne che hanno costanza e attenzione verso di sé. Questo aiuta non solo il fisico ma anche la mente. Donata (volontaria): Ma perché tu non lo fai? Chiara: Non lo so, tante volte mi fisso sulla ginnastica piuttosto che sulle creme e poi interrompo.. Forse il fatto di vedermi così cambiata, in un posto abbandonato come questo non mi crea stimoli, e così sposto tutto in avanti, a quando sarò fuori. Anche perché qui non mi riconosco, io fuori mi curavo, mi truccavo, insomma avevo attenzione per me stessa. Ornella (volontaria): Ma si può dire che ci sono due atteggiamenti distinti? Mi sembra che ci siano persone che quando arrivano in carcere ingrassano moltissimo, si trascurano, altre invece al contrario si curano anche all’eccesso secondo me. Quello che mi chiedo è se si riesca a trovare un equilibrio. Mi chiedo se una persona che deve passare mesi o anni in carcere riesca in qualche modo ad avere un buon rapporto con se stessa e con il proprio corpo. Chiara: Io posso dire che ho quasi sempre riscontrato i due eccessi e di equilibrio ne ho visto gran poco. Antonietta (insegnante): Al di là della bellezza, mi sembra che ci siano stati episodi anche estremi come bulimia o anoressia qui dentro. Slavica: A me capita di mangiare moltissimo, soprattutto dolci, ma più che altro per un fattore nervoso. Sono ingrassata più di 15 Kg in un anno e mezzo, da quando sono entrata in carcere. So che devo dimagrire, però so anche che quando mangio ho una sensazione di contentezza. Per il resto, non mi interessa niente, fuori per esempio non avrei neanche fatto due passi vestita così e credo che nemmeno la mia famiglia mi riconoscerebbe se mi vedesse, me ne rendo conto ma è più forte di me. Me ne importa meno forse anche perché non faccio colloqui, non ho nessuno da incontrare. A questo proposito ricordo che quando è venuto mio figlio, dopo un anno che non lo vedevo, mi sono tirata a pennello, però solo quel giorno… per il resto mi adagio un po’ sullo stretto indispensabile: una pettinata ed un filo di trucco e basta. Ornella: Ma pensi ci sia una ragione nel tuo mangiare continuamente, legata al troppo tempo a disposizione senza fare nulla e al fatto che così finisce che il cibo diventa un riempitivo? Slavica: No, non è questione di tempo. Credo che sia un discorso di pura "insoddisfazione". Se sei nervoso e cominci a mangiare, ti metti addosso una sensazione di soddisfazione, di piacere. Io mangio una quantità di Nutella impressionante, anche un barattolo ogni due giorni, non posso stare se non so che ne ho una riserva, che non mi capiterà mai di rimanere senza. Giulia: Effettivamente mangiare può essere visto come una forma di "coccole" nei propri confronti. Anche se a livello fisico sei trasandato, a livello psicologico risulti in qualche modo appagato. Massimo (insegnante): Se questo piacere, come dice Slavica, è comunque collegato alla coscienza di non sentirsi bene, molto probabilmente c’è anche un tentativo "sotto" di calcare sulla propria condizione: "Sono in una brutta situazione, sto male, sono cosciente di star male, voglio stare ancora più male". Donata: La realtà è che devi già rinunciare a tante cose, non vedo perché dovresti rinunciare anche al piacere della gola. Io però ho notato più che altro molti cambiamenti nella stessa persona nell’arco di periodi diversi, alternati tra il fatto di curarsi e poi improvvisamente di trascurarsi completamente. Ornella: I colloqui con i famigliari hanno in qualche modo un’influenza sulla cura che uno ha di sé? Se uno non ha colloqui, ha meno stimoli a prendersi cura della propria persona? Chiara: Il colloquio ha senz’altro un effetto, ma il discorso fondamentale per me è che tutti i giorni qui dentro ci si confronta con le stesse persone e alla fine non si hanno stimoli di nessun tipo. Gena: È vero, perché alla fine non hai molto interesse a vestirti bene, finisce che metti i jeans per due giorni ma poi torni alla tuta. E poi con la tuta ci stai più comoda, non c’è niente da fare. Chiara: Il problema è che questo è un luogo anonimo. Questa non è casa mia, non c’è niente di mio e non voglio neanche lasciare niente di mio. Antonietta: In effetti il problema è capire che luogo è questo. La casa è l’ambiente dell’intimità, il carcere è difficile da definire. Chiara: Il fatto è che qui non c’è divisione tra pubblico e privato. Ci si sposta da un posto all’altro, dalla cella alla scuola per esempio, considerando il tutto come un unico ambiente. C’è gente che si alza, si lava e si rimette in pigiama. Antonietta: È vero, mi è capitato di vedere alcune persone che vengono a scuola in pigiama. Gabriella (volontaria): Il vestire bene secondo me serve anche a scandire le giornate. Faccio un esempio: in ospedale si è tutto il giorno in pigiama e non ti interessa più di tanto prenderti cura dell’aspetto. Stando qui il discorso dovrebbe essere diverso, anche per dare una differenziazione tra il giorno, la sera e la notte. Marta: Ma quella ce l’abbiamo già con l’apertura e chiusura del blindo, apre alle 8 e chiude alle 20. Massimo: Può essere che comunque all’istituzione vada bene che siate "omologate" anche nella divisa? Quindi in ospedale in pigiama, in galera in tuta? Chiara: Non si tratta però di un fattore che viene dall’esterno, siamo noi che scegliamo in questa direzione, e questa forse è la cosa più grave. E comunque se a casa ti vesti in modo consono all’ambiente in cui devi stare, qui non è possibile fare la stessa cosa perché sei sempre nello stesso ambiente. Antonietta: Qui manca la divisione fra la tua sfera pubblica e quella privata. Qui non c’è un dentro e un fuori. Anche se, comunque, mi pare di aver visto che quando c’è qualche spettacolo vi mettete tutte in "ghingheri". Chiara: In quel momento viene percepito l’esterno, la presenza di persone che vengono da fuori. Quando invece anche le persone "esterne" entrano a far parte di un discorso di consuetudine, vengono inglobate con l’interno e quindi anche con il pigiama va bene lo stesso. Non c’è differenza fra una compagna e un volontario o un insegnante che vedi tutti i giorni. Marta: C’è poi una cosa da dire, che qui a Venezia le celle sono sempre aperte e quindi non vivi la differenza di ambiente. A Udine, a Rovigo, che sono carceri con le celle chiuse anche di giorno, il fatto di uscire per fare la doccia aveva come conseguenza che ti dovevi vestire, così come fare socialità in un’altra cella poteva rappresentare una specie di "uscita", e allora ci si metteva un po’ "in tiro". Donata: Comunque, al di là della tuta, ci sono persone che si vede che sono più curate rispetto ad altre, che ci tengono di più. Del resto qui mi pare che la maggior parte della spesa al sopravvitto sia fatta di creme e prodotti per la bellezza. Ornella: Ma allora è vero che spendete un sacco di soldi per i prodotti di bellezza? Non è forse una contraddizione rispetto a quello che avete detto sul fatto di lasciarsi andare? Svetlana: No, usare le creme non vuol dire truccarsi. Gena: Diciamo che magari c’è più attenzione per quanto riguarda i capelli, si cambia colore… ma per il resto si tende ad essere comunque molto ordinari nell’abbigliamento. Svetlana: D’altro canto i capelli sono molto importanti per una donna anche in carcere, è un simbolo importante della femminilità e anche della creatività. L’uomo detenuto invece spesso predilige lo sviluppo del tono muscolare, si allena anche in cella, si inventa tutti i modi possibili per curare la muscolatura, quasi cercasse una conferma della sua mascolinità.
In ogni caso, la conclusione della discussione è che è difficile pensare alla cura del corpo in carcere, in condizioni nelle quali è la salute stessa che si deteriora progressivamente, come ha spiegato magistralmente Daniel Gonin, medico penitenziario di Lione, nel libro Il corpo incarcerato, che ormai è diventato "un classico" in materia, e la cui traduzione italiana è preceduta da un’introduzione del giurista Massimo Pavarini che così riassume il "martirio del corpo imprigionato" nel primo periodo di carcerazione: "Circa un quarto degli entrati in prigione soffre già dai primi giorni di vertigini; l’olfatto viene prima sconvolto, poi annientato nel 31% dei detenuti; entro i primi quattro mesi un terzo degli entrati dallo stato di libertà soffre di un peggioramento della vista fino a diventare con il tempo "un’ombra dalla vista corta" perché lo sguardo perde progressivamente la funzione di sostegno della parola, l’occhio non si articola più alla bocca; il 60% dei reclusi soffre entro i primi otto mesi di disturbi all’udito per stati morbosi di iperacutezza; il 60%, fin dai primi giorni, soffre la sensazione di "carenza di energia"; il 28% patisce sensazioni di freddo anche nei mesi estivi".
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