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Roberto Merlo
Il mio intervento cercherà di portare delle riflessioni su alcuni paradigmi che forse non vengono praticati sufficientemente quando parliamo di vivibilità delle città o di processi di inclusione sociale. È esperienza comune constatare come certi sistemi di premesse e di valori che paiono, ad un esame razionale, certamente "convenienti", siano spesso irrealizzabili nella pratica. Un primo esempio. Noi partiamo dalla presunzione che sia evidente il deficit, l’errore, l’invivibilità nei sistemi sociali in cui operiamo. Ma è davvero così? Non credo che esista una città invivibile. La "invenzione" stessa delle città parte da processi di costruzione di un più alto grado di vivibilità. Per quanto sia possibile individuare "errori" nelle dinamiche delle nostre città, il fenomeno della concentrazione di massa in territori o in megalopoli è comunque irreversibile. Davvero possiamo credere, non possiamo non considerare i processi di gestione della minaccia, con cui un collettivo, una massa ordinata, costituisce la rappresentazione sociale, conforme (di una forma comune e condivisa) della minaccia. Sono processi molto complessi e molto poco studiati, riporto un esempio dei pochi studi disponibili. Nel 1996 a Bologna si è svolta una ricerca. Una delle domande era la seguente: "Un extracomunitario tossicodipendente viene sorpreso a rubare in un negozio ed è reo confesso: quali delle seguenti sanzioni vorreste che gli fosse data?". Le sanzioni in questione erano le seguenti: carcere; immediata espulsione; ricovero in una comunità coatta: due anni di lavoro gratuito nel negozio; l’avvio al servizio pubblico. Nel 1996 circa il 30% degli intervistati indicava il carcere e l’immediata espulsione; un altro 30% indicava la comunità coatta; circa un 5% indicava la pena alternativa; ancora un 30% l’avvio a un servizio pubblico. La stessa ricerca, sullo stesso campione, è stata ripetuta nel 2001. A sei anni di distanza, dopo che a Bologna è cambiata la giunta e aumentata l’immigrazione, circa il 30% degli intervistati indicava il carcere e l’immediata espulsione; un altro 30% indicava la comunità coatta; circa un 5% indicava la pena alternativa; ancora un 30% l’avvio a un servizio pubblico. Praticamente, la rappresentazione sociale non si è modificata di nulla. Le dinamiche con cui si costruiscono collettivamente le rappresentazioni sociali non corrispondono a quello che noi vediamo, che noi cogliamo nelle città a livello di manifestazione di superficie. Esse seguono altre regole, ad esempio quella della persistenza. Apparentemente a Bologna è cambiato tutto, ma le strutture profonde che determinano la rappresentazione sociale di ciò che è minaccia, di ciò che è escluso, non sono cambiate ne dai media ne da interventi protratti per alcuni anni; sono strutture secolari e profonde. Noi non le conosciamo ma lavoriamo per cambiarle... È per questo che dico che se non sappiamo neanche cos’è una città, non possiamo pretendere di definire il suo grado di vivibilità. Proviamo, allora, a dire qualche cosa che possa aiutarci a iniziare un percorso di conoscenza. Una città è un sistema di minoranze estremamente mobile; quelle più dinamiche sono spesso quelle non organizzate e non visibili. Riconsiderare le minoranze come il soggetto di costruzione delle dinamiche sociali forse potrebbe aprirci strade nuove nella progettazione degli interventi di inclusione sociale. Le rappresentazioni sociali non sono ciò che viene scritto sui giornali (esse non corrispondono alle opinioni); sono, invece, elementi estremamente complessi. Se vogliamo davvero cambiare qualcosa o fare in modo che i processi di inclusione e di percezione del pericolo e di gestione della minaccia non siano la violenza verso "gli ultimi della fila", dobbiamo studiare le rappresentazioni sociali e considerare il fenomeno dell’esclusione come una componente strutturale del sistema. Se ci mettiamo in questa prospettiva, potremmo aprirci ad una possibilità di intervento diversa, perché incontreremmo alcuni elementi su cui spesso interveniamo poco. Una città è una concentrazione di massa che regola il contatto tra i soggetti, dal contatto fisico a quello relazionale. Se il contatto è uno degli elementi che decide se il processo di inclusione ha il soprav-vento rispetto a certi processi di esclusione, si dovrebbe iniziare a pensare come nelle nostre città esso venga oggi governato. Dovremmo incominciare a studiare meglio la struttura urbanistica della nostra città, i flussi, i riti di contano e distanza ecc... Ancora una considerazione. Senza una forma comune di costruzione del conformismo sociale, la città non esisterebbe. Senza qualcosa in cui facciamo finta di riconoscerci come categoria "gente", non esisterebbe una concentrazione di massa accennabile. Ora su questa questione, quella del conformismo, noi ci comportiamo troppo spesso in modo non adeguato, pensiamo che la conformità sociale sia un problema, un ostacolo. È l’uniformità apparente (quella della costruzione della realtà tipica dei mass media) un problema, Il on la conformità: essa è un dato ineliminabile, ma anche orientabile, complessizzabile. Avere una forma comune non impedisce di avere anche soggettività, differenza etc. Dobbiamo lavorare sulla costruzione del conformismo che consideri l’altro in quanto altro, indipendentemente dal giudizio che daremo su di lui: ma una forma comune deve esserci. Vi invito, insomma, a provare a rivisitare i nostri paradigmi di lettura e a fare molta più ricerca. In realtà noi non conosciamo i sistemi complessi su cui pretendiamo di intervenire; per questo potrebbe essere utile riprendere il discorso sulle minoranze, quelle che non si vedono. |