Franco Corleone

 

Franco Corleone

 

Il tema della vivibilità delle città e dell’inclusione sociale fa riemergere dai ricordi di antiche letture quella suggestiva immagine della città come luogo della libertà. Un centro, cioè, di possibili relazioni umane in contrapposizione al clima di chiusura e di controllo sociale che dominava le campagne. "L’aria della città rende liberi" era la nuova frontiera contro la cappa che impediva la piena espressione degli individui, sudditi di fronte all’autorità, non cittadini.

Enrico Fontana sicuramente potrà dimostrare dal punto di vista ambientale come quel sogno si è dissolto e denunciare l’invivibilità delle nostre città oggi, a partire dai tanti inquinamenti, dell’aria, dell’acqua, del rumore. Io cercherò di affrontare la dimensione che definirei complessivamente ecologica della crisi delle nostre città e di come esse possano essere in grado di affrontare le contraddizioni laceranti che evochiamo. Innanzitutto il nodo della crescita delle città, delle sue modalità e delle dimensioni non più controllabili, non più a misura dell’individuo.

Un’altra realtà che è diventata molto pesante è quella delle periferie, la cui presenza non è un dato caratteristico delle sole metropoli, ma è una costruzione diffusa anche in centri piccolissimi. Ci troviamo di fronte così a una costruzione concettuale della separatezza tra le classi e i diversi strati sociali. Un’altra caratteristica di questi decenni è stata quella di togliere dal centro delle città tutte le istituzioni totali che potevano dare fastidio, a cominciare dalle carceri (per farle più grandi) per finire ai manicomi e agli istituti per minori, per nascondere le ferite sociali e impedire un confronto con la devianza e le difficoltà della convivenza. Le periferie diventano così il concentrato dell’emarginazione e della marginalità sociale.

Se a questo si aggiunge la presenza dei nuovi arrivati, degli immigrati, la miscela diventa esplosiva. Il peggior razzismo, non mediato da costruzioni culturali, è quello provocato dallo scontro dei poveri inclusi contro i poveri esclusi. Una variante è quella offerta da quelle città in cui i nuovi arrivati hanno occupato il centro storico, lasciato degradare e abbandonato dai ricchi e in cui resistono sacche di poveri inclusi. La dinamica è ancora più lacerante di quella descritta prima, per il più forte carattere di identità del cuore della città. Io penso che la questione della sicurezza sia stata posta a partire anche da questo conflitto che si è verificato senza capacità di alcuna gestione della politica e della amministrazione e invece strumentalizzato, enfatizzato, drammatizzato.

Duccio Scatolero ha largamente argomentato che la sicurezza non è un diritto; non ho difficoltà ad accettare questo punto di vista. Resta il fatto. che rende la questione ancora più aggrovigliata, che non possiamo negare la presenza di un diffuso sentimento di insicurezza; una condizione umana dominata dall’incertezza che colpisce in particolare i soggetti più deboli, richiederebbe una capacità della classe politica non solo di snocciolare dati statistici ma di governare i sentimenti, condividendoli. Insomma, occorre altro che la buona amministrazione, ammesso che ci sia. Altrimenti il rischio che questa contraddizione diventi esplosiva è notevolissimo. Ma veniamo al nodo politico che voglio porre e che è rappresentato dall’intreccio del problema droga e del fenomeno dell’immigrazione.

È stato ricordato da molti che nelle carceri la componente di immigrati comincia a sovrapporsi con la presenza mediamente del 30% di tossicodipendenti. Negli istituti penitenziari del Centro-Nord si riscontra un livello delle due componenti oltre il 70%. Dobbiamo essere consapevoli che l’immigrato tossicodipendente, divenuto tale successivamente perché in precedenza era magari spacciatore, determinerà nell’immaginario collettivo lo stereotipo del diverso, immigrato, tossicodipendente, spacciatore, verso cui indirizzare tutte le pulsioni razziste e determinando lacerazioni molto forti sulla base di uno stigma fortemente negativo. Questa riflessione può avere un senso se ci costringe a mettere in discussione uno stereotipo che abbiamo utilizzato per molti, troppi anni. Quello della difesa e della solidarietà con il consumatore considerato una vittima e, dall’altro lato, la persecuzione dello spacciatore come uno dei momenti della lotta al narcotraffico.

Mi rendo ben conto che non è facile rivedere categorie concettuali normalizzanti e tranquillizzanti e che in qualche modo definiscono la vittima e il carnefice, pretendendo di separare lo spacciato dalla spacciatore.

Eppure è proprio questa lettura rassicurante a non farci comprendere compiutamente la crudezza della guerra alla droga condotta in Bolivia o in Colombia da parte degli Stati Uniti a un prezzo incalcolabile di vittime umane e di distruzione dell’ambiente. La lotta al traffico si rivela così un tragico alibi per operazioni di dominio. Allo stesso modo, nelle nostre città, la lotta al traffico colpisce i più deboli; si rivela cioè uno strumento di repressione e di pulizia etnica. Sempre sul filo di questo ragionamento mi sento di affermare che tutte le sperimentazioni di riduzione del danno che vengono effettuate in diversi Paesi d’Europa, e non solo, hanno un senso non solo per quanto riguarda la difesa della salute dei consumatori e prioritariamente della conserv-azione della vita, ma si pongono in una logica di inclusione nella città e non di esclusione sociale.

Il modello delle injecting rooms può essere visto riduttivamente come un luogo per farsi il buco pulito, oppure come un luogo per dare cittadinanza a chi è senza diritti e senza voce. Sotto questa chiave dobbiamo insistere perché Torino sia la prima città italiana a realizzare questa ipotesi, senza che questa proposta venga all’infinito vagliata da una commissione che pretende di riflettere su quello che tutti sanno.

E se proprio ci fossero dei dubbi basterebbe andare in una città della Svizzera, della Germania, della Spagna per confrontarsi con gli operatori. con i medici, con i consumatori e con gli amministratori per capire questa esperienza e come può essere riprodotta. Tutto il resto è boicottaggio mascherato. Un’ultima osservazione a partire dall’invito che ha rivolto a tutti noi all’inizio dei lavori Luigi Ciotti, cioè sulla necessità di una riflessione sugli errori fatti. Sono anch’io convinto che un punto sulle omissioni, sulle prudenze e sugli errori compiuti sia utile e funzionale.

Proprio perché poniamo in campo la necessità di cambiare gli occhiali con cui vengono viste tali questioni peculiari del conflitto sociale, abbiamo il diritto di ricordare le insufficienze del centro - sinistra, ma abbiamo del pari il dovere di denunciare i veri e propri crimini che sono stati compiuti, sono minacciati e saranno perseguiti con determinazione dal governo di centro-destra. Insomma una forte critica degli errori del passato per far risaltare le nefandezze attuali sul terreno dei diritti umani, civili. Sul tema delle droghe la destra mette in atto un’offensiva culturale fortissima per acquistare un’egemonia che non ha, non è intenzionata a vincere solo sul terreno dei fatti (ad esempio azzerando i servizi pubblici), ma soprattutto sul terreno simbolico, dei valori, del senso comune.

Per questo non è tempo di compromessi. Dobbiamo porre con decisione la necessità di cominciare a sperimentare politiche diverse in tutte le città, in tutte le province, in tutte le regioni dove governa chi non è agli ordini di Fini, della Moratti, di Sirchia e di Bossi. Occorre mettere in atto pratiche radicalmente alternative alla politica centralista utilizzando le possibilità offerte dall’opzione federalista confermata con referendum dai cittadini affrontando anche uno scontro istituzionale, oltre che politico e culturale.

In questo modo noi potremo praticare un’idea di città diversa. non solo dal punto di vista urbanistico, sociologico o di un’idea generica di vivibilità, ma nel fuoco delle contraddizioni, feconde e vitali. Si tratta di una grande questione politica. Da un convegno così ricco di contenuti, di passione civile e soprattutto umana, deve uscire una sfida a chi governa a tutti i livelli. Ma la sfida più grande va lanciata a chi governa città e regioni e ha avuto il mandato popolare di rappresentare una alternativa alla sedicente Casa delle libertà.

Occorre colmare la differenza tra quello che proclamiamo e quello che realizziamo.

Una particolare attenzione va riservata agli appuntamenti internazionali in cui dovrà essere presente un movimento forte e consapevole, perché l’Italia ufficiale rappresenterà il braccio armato degli Stati Uniti contro le politiche di riduzione del danno, per l’equiparazione tra tutte le sostanze, per la criminalizzazione della cannabis con il risultato o l’obiettivo di più detenuti, più morti, più malati. Le ragioni dell’umanità e della scienza non possono essere sostenute solo dalle associazioni o dal volontariato, La buona politica ha un bisogno estremo di soggetti politici coraggiosi e non subalterni. La questione delle droghe non è sovrastrutturale, ma è l’essenza di una concezione del welfare e dello stato sociale per la nostra società e ha una stretta relazione con la giustizia e il diritto, Dall’altra parte c’è demagogia moralistica e un’ideologia salvifica che produce morte e deserto sociale.

 

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