Virgilio Colmegna

 

Virginio Colmegna

 

Pongo qui alcuni nodi parlando di vivibilità e inclusione sociale. Abbiamo costruito in questi anni un patrimonio immenso di esperienze. Mi chiedo: abbiamo aumentato il livello di appartenenza delle nostre città? Siamo dei soggetti che abitano il territorio o veniamo visti in termini marginali o di divisione o di separazione?

Credo che dovremmo rivedere la nostra attrezzatura concettuale di fronte a una tendenza di esclusione sociale molto forte, sulla quale c’è una debolezza di pensiero. Ci troviamo infatti ancora di fronte ad una mentalità sostanzialmente assistenziale, contro la quale in questi anni abbiamo fatto molte battaglie, anche di natura culturale, apparentemente vincenti.

Ora, e il convegno di quest’oggi 10 testimonia, diventa sempre più urgente attivare un percorso di riflessione ed essere capaci di rivedere anche concettualmente alcuni nostri percorsi. Credo che ci sia ancora troppo poca riflessione attorno al processo di privatizzazione che è in atto. C’è il rischio che la cultura del no-profit assorba la mentalità del contenimento chiudendosi ad una gestione di tipo privatistico.

Ho la sensazione che le riflessioni sul nostro livello di gestione delle risposte stiano diventando sempre di più episodiche, separate le une dalle altre, e che spesso non producano concetti di cittadinanza, di appartenenza, ma producano il bisogno altre di risposte. In questi anni siamo stati capaci di parlare di Iso 2000, 4000, 9000, di pedagogia, legislazione; siamo in grado di attrezzarci (più o meno) ai parametri strutturali e gestionali che sempre di più ci vengono richiesti, partecipiamo ai tavoli regionali, comunali e nazionali per fare progetti e spartirci le poche risorse sapendo che spesso è l’elemento quantitativo e non qualitativo a definire i progetti stessi. Siamo diventati esperti delle leggi fino all’ultimo particolare, spesso siamo chiamati dagli assessori ad insegnare loro come si fanno le politiche istituzionali e sociali: ci delegano, poi ci dicono che ci sono poche risorse.

In questi anni ci siamo messi tutti a ricercare le varie fondazioni che danno le risorse... poi facciamo la battaglia sulla banca etica, sulla finanza ecc: sto esasperando per cogliere la contraddizione che sta dietro al nostro agire. A me sembra sia necessario ripartire dai bisogni per liberare la vera domanda, fare sperimentazione, ma soprattutto ritengo fondamentale attivare dei seri percorsi di verifica affinché i nostri interventi non siano separati e lontani dai concetti di quotidianità, territorialità e normalità.

Oggi ci troviamo sempre più separati e il senso di frustrazione e pesantezza è quello che sta accompagnando il cosiddetto bum-out diffuso delle nostre esperienze. Abbiamo questa grande sfida che è il livello di comunicazione tra noi e delle nostre esperienze. C’è bisogno di coordinamenti, di partecipazione forte, perché oggi la nostra debolezza sta nelle politiche sociali e culturali che stiamo vivendo, dove l’immaginario è sostanzialmente legato alla mera sopravvivenza (livelli, parametri, costi). La vera politica sociale diventa sostanzialmente di carattere assistenziale ed emergenziale. Il nostro sociale è ricco di relazioni perché noi siamo capaci di costruire e vivere esperienze significative (andare a fare la spesa a domicilio agli anziani, per esempio).

Il nostro sociale sa essere produttore di senso e non deve essere soltanto produttore di cultura gestionale: questo vale anche per le grandi questioni e noi abbiamo una responsabilità e una debolezza sotto questo punto di vista. Credo che si debba assolutamente liberare quella che noi chiamiamo la politica dei diritti, dei percorsi di cittadinanza: è evidente che un certo tipo di politica di cittadinanza è indebolito alle radici da questa cultura. lo credo che una cultura possibile sia partire dall’esperienza, per liberarne i significati, per difendere la cultura della vita, della solidarietà, riempita anche dalla morte. Noi non aggregheremo la gente facendo vedere il futuro che incombe, la distruzione, ma solo creando una vera cultura di partecipazione dove bisogna affrontare la lotta, la difficoltà, la contraddizione. Le esperienze che facciamo sono belle e piene di significato, hanno costruito la nostra vita in relazione con gli altri: questo va comunicato non solo come esperienza.

Oggi le sfide che abbiamo davanti sono molteplici e trasversali. Parliamo di dipendenze, psichiatria, immigrati: tutto questo va affrontato anche dal punto della riforma legislativa. Credo che la grande questione sia quella della politica, del rapporto tra società civile e società politica.

Credo che sia necessario utilizzare tutte le forme di trattativa promuovendo il tema dei diritti, delle tutele e del volontariato. Quest’ultimo è stato assorbito prevalentemente dall’area gestionale, ma noi dovremmo pensare a rilanciare certe formule che sono meno implicate nella gestione diretta ma molto più libere, che colgono si tutta l’esperienza della gestione ma sanno tradurla in senso, in cultura. Dopo l’emanazione della legge 328/2000 siamo andati tutti a discutere su come fare i piani di zona, in fretta, di corsa. Tutti hanno discusso, ci si è interrogati sulla quantità di soldi messi a disposizione badando a salvaguardare la propria esperienza. La nostra scelta non può essere di consegnare al territorio solo esperienze gestionali (come le unità di strada) ma dobbiamo sentirci anche responsabili di valutare i nostri risultati, non solo in modo quantitativo, ma soprattutto qualitativo. Dobbiamo saper chiedere e dare alle amministrazioni locali una ampia capacità di ragionamento. Inoltre credo che il rapporto tra politica e cultura, di serietà e di riconoscimento. debba essere discusso in un coordinamento diverso, partendo dalla rilettura dell’esperienza per rilanciarla anche idealmente come siamo chiamati a fare qui oggi.

 

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