Massimo Clerici

 

Massimo Clerici

 

La riflessione sui temi da affrontare oggi mi ha ricordato un convegno dl vent’anni fa, a Ravenna, all’interno del quale si proponevano, come temi di discussione, ruolo ed esperienze di residenzialità terapeutica in ambiti profondamente diversificaTi quali potevano essere, negli anni 80, la macro-comunità di San Patrignano, un progetto milanese (quasi "avveniristico" per i tempi!) sulla comorbilità psichiatrica nelle tossicodipendenze e il lavoro, già trasversale nei più diversi contesti sociali, del Gruppo Abele.

In quel convegno il clima era profondamente differente da quello che viviamo oggi. dove la diversificazione e la moltiplicazione delle esperienze sembra - almeno fino ad ora - patrimonio di tutti e spinta costante al miglioramento delle risorse da mettere a disposizione di chi abbiamo scelto di assistere e di curare.

Ma contrapporsi duramente all’interlocutore e. non di rado fuor di metafora, "tirare i pomodori addosso ai tecnici" era un atteggiamento che purtroppo caratterizzava - all’epoca - sia un privato sociale arroccato ed esclusivista in una dimensione di chiusura nei confronti del servizio pubblico, sia un servizio pubblico "alle prime anni" che (forse questa è la nota più dolente di un lungo periodo attraversato nell’area delle tossicodipendenze in Italia) disattendeva quasi completamente impulsi già molTo forti e di per se stimolanti che venivano dall’ambito internazionale, sempre sui temi del trattamento e delle cure nelle tossicodipendenze.

Come ora appare evidente, molta acqua è passata sotto i ponti: le sperimentazioni sono più accessibili e osservate con un certo interesse da molti. Oggi il Gruppo Abele ci richiama con la parola d’ordine di questo convegno. soprattutto di questa tavola rotonda, alla necessità di riferirci proprio alla possibilità di una stretta collaborazione tra pubblico e privaTo sociale all’inTerno dell’attuale sisTema dei servizi. Evidentemente queste brevi considerazioni non rappresenteranno un vero e proprio intervento, assimilabile a quelli fatti da chi si è riferito - soprattutto questa mattina - ai complessi sistemi delle riforme legislative nel campo delle dipendenze oppure a tutta quella serie di problemi che riguardano le difficoltà che la tossicodipendenza- e il trattamento delle tossicodipendenze sperimentano quotidianamente, schiacciate tra esigenze di controllo sociale ed esigenze di cura.

Credo che la mia sia dunque una testimonianza un po’ più limitata, forse più tecnica (nel senso clinico del termine) e che possa interessare soprattutto dal punto di vista della diversificazione dei contributi presentati oggi. Quello che vorrei dire si sintetizza sostanzialmente in una domanda quasi banale: che cosa ci stanno a fare gli psichiatri nella progettualità rivolta all’area delle tossicodipendenze? Che contributo può portare una società -la Società italiana per lo studio dei comportamenti di abuso e di dipendenza (SICAD) - che si occupa in ambito psichiatrico, come sezione speciale della Società italiana di psichiatria, della salute mentale dei cittadini che presentano questo rilevante problema clinico e sociale?

Penso che una prima nozione debba essere messa subito sul piatto della discussione: quella definibile come "doppia diagnosi" o meglio "comorbilità", termini adottati sempre più frequentemente nel nostro Paese dagli operatori dei più diversi servizi per identificare e riconoscere un problema di non facile soluzione, cioè il trattamento dei casi complessi ad alta recidività.

Il termine di "doppia diagnosi" o di "comorbilità", come generalmente noi psichiatri preferiamo dire, sintetizza un insieme di osservazioni cliniche e sociali emergenti dalla presa in carico di pazienti "difficili", che i servizi trattano con grande fatica, la cui problematicità e cronicizzazione è spesso fonte di frustrazioni per chi cura e, quasi sempre, di costi rilevanti per un insieme di problemi concomitanti che, in evidenza nella vita di tutti i giorni, esprimono le grandi difficoltà - nell’esistere e nel sopravvivere sociale - di persone portatrici di un livello importante e molto drammatico di sofferenza. Ora questo aspetto, al di là dell’etichetta e del ruolo svolto dalla società cui appartengo e che immodestamente rappresento quale presidente, mi sembra comunque un compito importante da richiamare agli occhi degli operatori di oggi, sia quelli del privato sia del pubblico: è un qualcosa da richiamare fortemente perché sempre di più la dimensione dell’assistenza e della cura si centrano e si dovranno accentrare su aspetti necessariamente specialistici e molto complessi, in considerazione della sempre più ampia articolazione organizzativa della tutela di fasce di soggetti che vivono già ai margini o che tenderanno - per evidenti motivi di riorganizzazione politico-economica e di progressivo riassestamento sociale - a spostarsi verso nicchie di marginalizzazione estremamente depauperate.

È chiaro a tutti che il portare una sofferenza psichica sulle spalle e, nel contempo, l’essere gravati da un problema di dipendenza è un qualcosa in grado di generare grande sofferenza sul piano personale ma anche di assimilare chi la patisce ad una popolazione di persone soggette a processi di percorsi di stigmatizzazione estremamente rapidi. La "doppia problematica" è un fattore di riverbero e di rilancio costante, all’interno della società, delle contraddizioni che costoro introducono a partire dalle loro famiglie e poi anche all’interno dei sistemi di cura. Tutto ciò dovrebbe diventare, allora, un punto di snodo per un discorso sulla parziale riorganizzazione dei programmi e, nel contempo, sulla necessaria rivisitazione di modelli - nuovi o meno nuovi - per l’intervento all’interno della rete dei servizi per le tossicodipendenze.

Credo che questo discorso vada fatto oggi con molta onestà, chiarezza e coraggio, alla luce di una necessità (fino ad ora trascurata) di specializzazione e di un bisogno - a parole condiviso, ma nei fatti ancora trascurato - di miglioramento costante delle prestazioni erogabili soprattutto a favore di quegli utenti che si rivelano in carico stabile e costante ai servizi.

Ciò può avvenire soltanto attraverso il recepimento di sperimentazioni e di tecniche che in molti altri Paesi sono in campo da anni e che vengono valutate nel tempo con le finalità di mettere a regime ciò che vale e di ridimensionare ciò che risulta poco utile a pazienti e società.

Mi ha un po’ incuriosito il riferimento a tutta una serie di indicazioni e di elementi estremamente importanti della buona pratica clinica che vengono riproposti oggi - nella prassi del trattamento dell’alcolismo e delle altre sostanze - quali fossero una panacea per i "nuovi utenti" che afferiscono ai servizi: l’importanza dei gruppi di auto-mutuo-aiuto, le tecniche di psico educazione familiare, la più generale dimensione clinica delle problematiche che questi pazienti vivono, sono realtà della pratica e della valutazione di efficacia da almeno venti anni!

Viene da chiedersi, quindi, come mai - ad oltre dieci anni dalla costituzione di un sistema dei servizi nel nostro Paese - noi stiamo ancora a discutere su questi aspetti come di fronte ad un manifesto programmatico, un quaderno delle necessità imprescindibili per tracciare la rete ottimale delle cose che dovrebbero essere realizzate o che dovrebbero essere (sempre e comunque) a disposizione dei pazienti e delle loro famiglie.

La riflessione critica che ci sentiamo assolutamente di sottolineare anche in questa sede e della quale, come operatori dei più diversi servizi, dobbiamo essere consapevoli in rapporto alla realtà del nostro Paese è la mancanza - a differenza di altre nazioni europee o, comunque, del mondo anglosassone - di un progetto clinico forte, flessibile e diversificato.

Come mai sono già passati più di dieci anni? Come mai stiamo ad ipotizzare - nel nostro cahier des doleances, nel quaderno delle cose possibili o delle cose necessarie - i perché della mancanza di aspetti fondamentali dell’intervento che sono invece presenti altrove? Da questi interrogativi dobbiamo, con grande onestà, individuare anche delle responsabilità e assumerne le conseguenze. In questi limiti della realtà italiana, credo, esiste appunto anche un problema di "doppia" responsabilità: il tema, oggi, è quello di una collaborazione pubblico - privato ma il tema dovrebbe essere anche quello di una rivisitazione del perché in tanti anni non siamo riusciti a registrare un modello-base di lavoro e un sistema accorto dei servizi nel quale la collaborazione, che io ridefinirei nei termini di intersezione, sia efficace, efficiente e coerentemente guidata da un valido rapporto costi-benefici.

Infatti il discorso dell’integrazione/collaborazione/intersezione tra servizi è necessariamente guidato da problemi di ordine epidemiologico, organizzativo, economico in senso lato e budgetario in senso stretto, facendo riferimento ora ai sistemi di finanziamento dei circuiti sanitario e assistenziale, ora all’epidemiologia di certe patologie/popolazioni o ai carichi di lavoro di certi servizi o di certi ruoli professionali all’interno di uno specifico servizio. L’assenza di un’attenzione precisa e costante a tali livelli mi sembra possa spiegare, almeno parzialmente, perché in questi anni non siamo riusciti a costruire neppure dei sistemi validi d’intersezione tra servizi appartenenti ad aree limitrofe od oggi tra dipartimenti. Forse qualche suggerimento, o una qualche idea. potrebbe derivare dall’osservazione che il servizio pubblico non ha ancora saputo ridurre quella che è stata - fin dall’inizio - la sua tendenza a posizionarsi.

come impianto/modello di lavoro. in una dimensione generalista, di primo livello, non specialistica, non diversificata, non flessibile, troppo esposta alle richieste di controllo sociale e poco a quelle di responsabilità clinica. Ne è conseguita l’assenza, pressoché totale fino ad oggi, di una professionalizzazione (ormai imprescindibile) e di un’eccellenza sempre più richiesta dalla società ad operatori e servizi: corollario inevitabile diveniva poi il timore della sperimentazione, della valutazione e della ricerca finalizzata nel settore.

Da questo punto di vista, fortunatamente, abbiamo alle spalle un’Europa unita che ci spinge, che ci chiederà presto di adottare dei modelli affidabili e possibilmente condivisi o che, comunque, ci costringerà ad entrare in un circuito decisionale ed operativo inevitabilmente condizionato da criteri e linee-guida condivise a livello centrale. È necessario il passaggio da questa funzione generalista dei servizi ad un embrione di centri di eccellenza, di centri specialistici in grado di garantire al cittadino, e soprattutto al cittadino che soffre di molteplici problematiche (da sempre il più emarginato), la possibilità di accedere non a sistemi trattamentali articolati sulla legittimazione dei bisogni di controllo sociale, ma piuttosto a veri e propri modelli di intervento clinico in grado di offrire anche al soggetto più disagiato - meno consapevole e più problematico - le tecniche più aggiornate, le possibilità di assistenza e di cura più valide e proiettate in una dimensione avanzata.

Solo da quel momento sarà utile discutere, in termini economici, su quanto i sistemi attuali di finanziamento dei servizi siano coerenti o meno in relazione alla sopravvivenza del pubblico, all’incentivazione del privato sociale o all’inserimento del privato profit assicurativo, realtà sulle quali si va avanti un po’ in tutto il mondo, con modalità e tempi sicuramente differenti, ma anche con interesse verso la sperimentazione. Questi aspetti sono ancora un tabù esplicito del nostro sistema, ma credo non si possa più a lungo comportarsi come Don Chisciotte e far finta che tali opzioni non esistano o siano da ostacolare esclusivamente sulla base di pregiudiziali ideologiche.

È tempo di pensare, dunque, a un sistema che garantisca quello che è veramente necessario, ad un livello di alta professionalizzazione, lasciando inevitabilmente a circuiti/sistemi profit la copertura di nicchie secondarie più o meno articolate in funzione della possibilità che il cittadino avrà di darsi sistemi di tutela assicurativa rispetto a spese sanitarie o assistenziali non fondamentali. Se non esiste un’attenzione particolare a questi sviluppi, se guardiamo troppo indietro atte standoci su parole d’ordine ormai invecchiate che - lo ripeto sia come ex operatore delle tossicodipendenze, sia come psichiatra che lavora all’interno di un dipartimento di salute mentale - spesso amplificano o riverberano esclusivamente la tutela dei programmi di riduzione del rischio, la questione del metadone o la lotta al proibizionismo, io credo si rischi veramente di immiserire il nostro compito prioritario, quello della cura delle persone. Questa è fatta certamente di molteplici aspetti, ma la cura delle dipendenze, tanto più della "doppia diagnosi", non può ridursi esclusivamente ad alcune parole d’ordine.

Un ultima puntualizzazione: cosa dire oggi in relazione al problema delle risorse: Integrazione, collaborazione o intersezione tra servizi. come detto in precedenza, vuol dire - in primo luogo - avere delle risorse a disposizione. on illudiamoci, lamentandoci che il sistema delle dipendenze sia più penalizzato rispetto ad altri: all’interno del dipartimento di salute mentale la psichiatria sta vivendo le stesse difficoltà: i trattamenti per cene fasce di pazienti problematici sono stati ridimensionati e il servizio si deve comunque arroccare oggi su alcune scelte prioritarie in relazione a quelle che, anche li, sono le nicchie problematiche che richiedono maggiori risorse tra quelle a disposizione, lasciando inevitabilmente al no profit - o forse anche, per certi aspetti, al profit - la copertura di altre risposte.

Anche in questo contesto non è possibile mantenere più a lungo un sistema generalista che ceno dà risposte a tutti ma rischia di darle sempre più dequalificate finendo per portare via, proprio ai più deboli, ai più in difficoltà, la quota maggiore (in senso qualitativo) delle opzioni. Come collaborare, quindi, perché il discorso pubblico - privato all’interno delle tossicodipendenze, se parliamo di "doppia diagnosi", si articoli inevitabilmente sul discorso della collaborazione tra dipartimento Ser.T. e dipartimento salute mentale"? Qui le documentazioni ad opera delle società scientifiche. le aree di sperimentazione locale, i tavoli regionali o nazionali. tutte le situazioni di collaborazione concreta che sono state via via create in questi anni e che già rappresentano esempi di riferimento possono offrire, indubbiamente. almeno alcune linee guida. protocolli che funzionino come cornici di lavoro comune e che permettano agli operatori che stanno all’interno di dipartimenti diversi, che hanno fonti di finanziamento diverse o che hanno budget a loro volta molto diversi. di trovare in qualche modo una dimensione non solo di coesistenza, ma anche di progettazione comune.

Non credo ci siano le condizioni per moltiplicare le risorse per le singole patologie, all’interno dei singoli dipartimenti. Sarebbe già un buon risultato se l’opzione, per i prossimi anni, fosse quella di ridimensionare il più possibile la dispersione delle risorse, una dispersione prevedibile in un sistema di cura come il nostro, dove proprio le persone con multiproblematicità (o questa complessità diagnostica più volte citata) si trovano inevitabilmente a gravitare su baricentri diversi: quando questi baricentri diversi appartengono a sistemi di cura diversi, con reperimento di risorse diverse, il rischio maggiore che corriamo è proprio quello della duplicazione. della moltiplicazione delle risorse e della perdita delle risorse stesse.

Quindi. un secondo obiettivo da aggiungere al primo - cioè il passaggio da una dimensione generalista a una dimensione di specializzazione del nostro agire professionale - è proprio quello del controllo della dispersione delle risorse e della possibilità (in questo il ruolo propulsivo del privato sociale può essere assolutamente formidabile) di elaborare, sperimentare e, possibilmente, mettere a regime strategie di collaborazione tra servizi diversi. Pubblico e privato, pubblico - pubblico o privato-privato potrebbero essere in grado, dunque. di drenare quote molto rilevanti di risorse attualmente disperse, quelle risorse che negli ultimi anni. per i motivi che tutti noi conosciamo. hanno impedito le intersezioni fortemente, necessariamente ed economicamente produttive tra sistemi di cura - in questo caso specialistici e di alto livello- che il settore esige e che ormai è indubbiamente in grado di mettere in campo con le capacità manageriali che competono ad una moderna cultura della cura e dell’assistenza.

 

 

 

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