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Vivibilità delle città e inclusione sociale
Franco Chittolina
Questa è una nota di sintesi ad integrazione del documento preparatorio che non sembra sia stato contestato nei suoi elementi fondamentali. La città nasce come luogo di relazioni e di processi di inclusione ed ha come obiettivo quello di favorire la vivibilità. la derive deteriori l’hanno distolta - seppure non interamente - da questa sua vocazione originaria al punto che ha senso oggi chiedersi se le città siano ancora compatibili con la dimensione umana. Se questa soglia di compatibilità dovesse arrivare ad un punto di rottura l’alternativa è chiara: o fermare il processo di deterioramento o affidarsi ad una selezione naturale che crudelmente farà sopravvivere i forti e abbandonerà alloro destino i deboli. Per noi che vogliamo salvaguardare la vocazione originaria della città in favore di processi di inclusione e restituire loro una dimensione di vivibilità, è importante individuare le cause del loro malessere. Sono cause molteplici e insufficientemente percepite siano esse ambientali o sociali. Ancor meno è percepito l’intreccio tra queste due dimensioni che provoca un degrado sociale di non facile lettura. Il degrado del legame sociale, che sta al cuore del malessere complesso delle città, è il banco di prova del nostro impegno e misura la nostra capacità di promuovere processi di inclusione non solo per rispondere alla solitudine degli esclusi ma anche per frenare la deriva di esclusione che vivono gli inclusi. Le dinamiche di inclusione per esclusi e inclusi - che sono elementari processi di democrazia e di costruzione della cittadinanza - debbono innervare l’intera società, ispirare la ricostruzione della città presente e l’invenzione della futura. Per fare questo si impone un approccio globale nel governo del territorio, dentro una visione complessiva delle sue debolezze, ma anche dei suoi punti di forza. Punto di partenza saranno i luoghi di più densa sofferenza e i progetti sperimentali messi in cantiere per fornire una prima risposta. Obiettivo, in particolare degli amministratori, quello di dare un quadro di razionalità strutturata alla molteplicità degli interventi puntuali, senza necessariamente fare ricorso ai buoni sentimenti. Questo approccio globale, razionale e strutturato del governo del territorio troverà permanente sulla sua strada l’esclusione, la devianza, la minaccia, il conflitto. Obiettivo praticabile non è la loro eliminazione ma la loro gestione nel rispetto delle alterità. Questa alterità da rispettare è anche una alterità da costruire con processi che diano maggiore autonomia - se non addirittura capacità di autodeterminazione - ai gruppi deboli. Si pone così il problema del potere essere più che dell’avere nelle dinamiche di inclusione. Chi ha il potere di includere, gli inclusi o gli esclusi? Chi ha il potere di liberare senza colonizzare? La storia e l’esperienza di costruzione di autonomie delle donne potrebbe essere un utile punto di riferimento. Come pure le molte azioni per il risanamento della città che hanno visto le donne protagoniste creative. Ma tutto questo è chiamato a realizzarsi in una società in mutazione percepita come una minaccia che genera incertezza, precarietà, insicurezza. Molteplici e complesse (l’economia, il lavoro, la salute, l’ambiente) sono le situazioni in cui l’insicurezza si manifesta, ma sempre più spesso è l’altro, il diverso, il bersaglio delle nostre paure. E allora, ad esempio, si spara a vista sull’immigrato con una legge incivile, strumento di esclusione, che mira a rifiutarlo, a precarizzarlo, ad espellerlo o incarcerarlo. Che fare perché le città ritrovino la loro originaria - e non del tutto perduta - vocazione all’inclusione? Rimettere al centro il sociale e la persona, sottraendola al suo ripiegarsi nello spazio domestico. facendone luogo di incontro tra inclusi ed esclusi e soprattutto produttore di senso e fondamento del diritto di cittadinanza, non un suo corollario? Rivedere la nostra attrezzatura concettuale ancora troppo ispirata a logiche assistenziali – emergenziali, con risposte episodiche che non producono cittadinanza, ma confermano sudditanza? Ricostruire un rapporto con la politica a partire da luoghi critici di riflessione in seno alla società civile, con più spazio alla ricerca perché non conosciamo sufficientemente i processi complessi su cui interveniamo, legando maggiormente ricerca ed intervento. Investire maggiormente sul coordinamento tra i molti interventi puntuali e fare chiarezza sul mondo talvolta opaco del no-profit? Sperimentare nuovi interventi nello spazio offerto dal federalismo, a cominciare dalle città e dalle Regioni, senza escludere le opportunità di possibili conflitti istituzionali? Promuovere una corretta informazione contro logiche di speculazione e in favore di una differenziazione dei punti di vista.
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