Andrea Canevaro

 

Andrea Canevaro

 

Esiste uno stretto rapporto tra lo stress e la vulnerabilità. Stress è pressione e la pressione è esercitata, oggi più di un tempo, sempre sugli stessi punti, fisici e culturali, del nostro organismo. È un po’ come una persona che ha delle piaghe da decubito, dovute al fatto che appoggia sempre sullo stesso punto che così si traumatizza e si lacera. Il nostro punto di appoggio, nella corsa verso l’appartenenza all’elite, è l’individualismo sfrenato.

Individuo "un" bisogno. Non mi riferisco a un’analisi di più bisogni, pur sapendo che ce ne sono molti, ma punto soprattutto il riflettore su "un" bisogno, che ritengo insopprimibile. Non credo che ci si possa esprimere in termini assoluti, perché l’assoluto non è la nostra dimensione, ma forse la nostra aspirazione, o la nostra presunzione. Ma il bisogno di appartenenza è in ciascuno di noi. E oggi è piuttosto la promessa di appartenere al "club dell’elite". Non poter appartenere oggi, ma promessa di appartenere, se si seguono condizioni particolari. Appartenenza, bisogno di appartenenza. Propongo un ragionamento schematico, per riuscire a offrire un riferimento di sintesi.

Ritengo, in sintonia con altri interventi e altre riflessioni, che ci sia un cambiamento in atto. È anche un rischio, che leggo come erosione, come riduzione che parte dall’infanzia - dell’apprendimento informale e degli apprendimenti sociali. Ne sono rimasto colpito perché tale riduzione è scivolata dentro i progetti di riforma - ma forse bisognava aspettarselo - ad esempio quella verso una scuola dell’obbligo "da supermarket", cioè la possibilità che ciascuno si scelga quel che gli conviene. "Ciascuno proponga e completi il suo itinerario formativo come gli pare e ci sia - è stata usata questa espressione - un programma individuale". È una logica totale, perché rompe nettamente un patto: quello del percorso individualizzato in un processo unitario. Mi colpisce come rischio che l’erosione sia arrivata al punto di sconvolgere i comportamenti sociali.

Appartenenza significa sentirsi parte di un ambiente sociale, di una comunità. Questo bisogno ci accompagna sempre. Emerge ora - anzi, forse ce ne accorgiamo in ritardo - un modo di far intendere l’appartenenza come la promessa. Quello che viviamo nel presente è svalutato e rende scarsamente importante il contesto in cui si è, i contesti prossimali, gli elementi di raccordo con le persone che ci sono vicine. Ha più forza di attrazione una promessa che esige l’assunzione immediata di elementi che diano potenza individuale.

Da qui la proposta, che è nelle orecchie di tutti, di mettere a disposizione, appena un soggetto entra nel circuito scolastico, l’inglese e l’informatica: risponde molto bene all’idea del "tu apparterrai"; "dato che vuoi appartenere cerchiamo di darti gli elementi che ti permettano di prendere l’ascensore, in modo da salire più in fretta possibile per arrivare al club dell’elite. Cerchiamo di soddisfare il tuo bisogno di appartenenza. Per conquistare la promessa, dovrai essere in grado di arrivarci: datti da fare, compra quello che è necessario, appropriati di quello che ti serve per arrivare al club dell’elite".

Ovviamente questo è un progetto che riguarda pochi. E se ci demoralizziamo e pensiamo di non arrivare all’elite, abbiamo un’alternativa immediata, un’altra promessa, legata questa volta alla "magia della sorte" e che quindi non richiede competenze da conquistare con pazienza, perseveranza, capacità, organizzazioni che creino connessioni. Per "appartenere" bisogna "tentare la sorte", il che significa non solo sperare in una combinazione fortunata, ma anche avere il volto giusto, il vestito giusto, così da trovarsi nel posto giusto quando viene scelta dalla sorte la persona che farà fortuna in un certo ambiente.

Il meccanismo televisivo - che ci illustra molto bene questo modo di vivere - viene inteso come applicabile a tutto l’universo e diventa l’altro modo di illudere, di promettere un’appartenenza. Apparterremo il giorno in cui metteremo in moto delle sorti favorevoli. Evitiamo pure di costruire una memoria, un progetto di futuro, perché tanto si gioca giorno per giorno! Abbiamo la possibilità di cancellare la sconfitta immediatamente, non c’è bisogno di elaborarla domandandosi "Dove ho sbagliato? Devo pensare a perfezionare questo e quest’altro?". Il meccanismo che funziona è: "Abbiamo perso oggi? Vinceremo domani".

Se questi sono gli elementi che condizionano la nostra vita, ce ne sono altri satellitari perché provocati dagli altri due modi di rispondere al bisogno di appartenenza: i gruppi chiusi. Possono precedere, anticipare, venire dopo le promesse di appartenenza, questo è ininfluente rispetto al fatto che culturalmente siano satellitari. Fare parte di un gruppo chiuso (ad esempio i punkabbestia o la razza padana) dà senso di appartenenza ad una elite, seppur in qualche modo creata ad hoc, artificiale. Un’operazione del genere è un grande rischio, e credo che ci siano molte analogie con la struttura societaria violenta. Violenta nel senso che non ama il vicino, lo considera sempre un intruso da combattere e per difendersi deve violentare la storia e le storie, la realtà degli incontri sovrapponendo gli stereotipi.

Non c’è la possibilità di cambiare immediatamente scena, ma di far nascere un’alternativa e di scoprirla già presente in noi. È la possibilità di fermare l’erosione e di sostituirla con un ripristino dei legami sociali, una capacità di memoria. Quest’ultima è un elemento importante perché la labilità della memoria, oltre ad essere un indotto del consumo di massa, è provocata dalla possibilità di rendere del tutto opinabile la ricerca delle verità, operazione che può stabilirsi a vantaggio del migliore offerente, e non è legata alla conoscenza dei contesti. La stessa organizzazione delle regole diventa opinabile e dipende da come funziona la "manovra a vantaggio". Non è tanto necessario che vi siano regole uguali per tutti: piuttosto quelle che servono a trasportarci rapidamente nell’elite del potere.

Ritornare a considerare elementi di appartenenza come legati a dei contesti sociali, a dei contesti di prossimità esige un lavoro sulla memoria, una comprensione d’insieme: se un rischio è per tutti, per tutti c’è la necessità di uscirne fuori, e deve essere più forte il desiderio di uscirne fuori insieme che di starci dentro isolati. Esiste uno stretto rapporto tra lo stress e la vulnerabilità. Stress è pressione e la pressione è esercitata, oggi più di un tempo, sempre sugli stessi punti, fisici e culturali, del nostro organismo. È un po’ come una persona che ha delle piaghe da decubito, dovute al fatto che appoggia sempre sullo stesso punto che così si traumatizza e si lacera.

Il nostro punto di appoggio, nella corsa verso l’appartenenza all’elite, è l’individualismo sfrenato. Siamo tutti esposti al trauma, e quindi - e questo è un filo di speranza - siamo tutti molto più bisognosi e forse disponibili a cercare le strade per uscirne fuori, perché è una sofferenza allargata e diffusa; non è più di un piccolo gruppo che soffre e paga per tutti.

Concludiamo con una espressione forse un po’ retorica, rubata al titolo di un testo di un autore canadese: L’urlo della sofferenza e il bisbiglio della speranza. Il bisogno di appartenenza all’elite del potere deve necessariamente urlare per catturare l’attenzione e diventare protagonista. Dobbiamo convincerci che c’è bisogno di ascoltare il sussurro della speranza: è questo l’impegno che vorremmo vivere.

 

 

 

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