Pietro Buffa

 

Pietro Buffa

 

Occorre indirizzare i nostri sforzi agli strati più bassi della popolazione penitenziaria. A quella che vede nell’autolesionismo l’unico modo per poter attirare a se attenzione e risorse. Sembra banale, ma posso garantirvi che non è facile convincere fino in fondo gli stessi operatori di questa necessità. Non è facile cambiare l’atteggiamento e la percezione di fondo, ovvero che è molto più gratificante lavorare con chi ti capisce perfettamente e che contribuisce a darti soddisfazione per il lavoro che fai. Così è molto meglio occuparsi di quelli che abitano i "piani alti" del carcere, che danno meno fastidio e che ti consentono una fatica minore.

Si sentono spesso molte critiche al nostro sistema penitenziario. Non voglio qui entrare in polemica con quelle affermazioni. Sono un operatore e come tale, quotidianamente, devo far quadrare il cerchio, quindi non posso essere né pessimista né entusiasta. In termini generali, quello che a parer mio manca, e tale sentore lo riscontro anche nelle persone che lavorano al mio fianco, è l’obiettivo verso il quale far confluire gli sforzi. È per questo motivo che, nell’istituto che dirigo, ho cercato di colmare questa carenza, tentando di coinvolgere quanti più operatori possibili su uno scopo comune, un obiettivo apparentemente semplice e minimo: fare in modo che la gente rinchiusa in carcere non si faccia male, dove male significa suicidio, autolesionismo, sciopero della fame, disperazione. Comportamenti che si riflettono anche sul personale e sugli operatori, visto l’impatto emotivo e di timore che questi comportano.

È fissata nella mia memoria l’esperienza personale vissuta nell’istituto di Alessandria, aperto cinque anni fa una domenica di dicembre senza molti uomini e risorse ma con 270 detenuti, raccolti in tutti gli istituti del Piemonte, tra cui molti tossicodipendenti, alcolisti, stranieri. Nei mesi successivi si registrarono decine di autolesionismi al mese, in genere per reazione agli inevitabili disservizi legati all’assestamento organizzativo. Nel frattempo si palpava un generale e vicendevole clima di sfiducia, rabbia, timore, abbrutimento: in altri termini un clima deteriorato, ove era difficile da un lato lavorare e dall’altro vivere la pena.

Arrivando a Torino ho trovato una situazione già consolidata, seppur problematica. Di fronte a questa problematicità si è cercato di costruire una serie di iniziative che voglio descrivervi sommariamente attraverso alcuni dati utili anche per comprendere la dinamica penitenziaria. Ultimamente abbiamo analizzato gli atti autolesivi registrati in un quadrimestre. Si tratta di tagli, ingestioni di corpi estranei, tentativi di impiccagione. Complessivamente, nel periodo considerato, si sono registrati 107 casi. Ciò che ha colpito la nostra attenzione è che solo 22 su 45 sezioni sono state interessate da eventi di questo tipo, non le altre 23.

Ci si è interrogati su questa distribuzione cercando una variabile indipendente che la spiegasse. Abbiamo così creato un indice di vivibilità con il quale analizzare le sezioni detentive. L’indice, che abbiamo denominato "grado trattamentale" o di "vivibilità", considera alcune variabili, quali il numero di ore di cella aperta, il numero di operatori operanti in sezione, le opportunità trattamentali destinate alla sezione, la stanzialità del detenuto, la definitività della condanna, ecc. Laddove queste variabili tendono a valori elevati avremo un grado alto e viceversa. Aggregati i dati dell’autolesionismo sulla base dell’indice descritto abbiamo scoperto che l’85% dei gesti autolesivi si concentrano nelle sezioni a basso livello di vivibilità.

Non contenti di questa prima approssimazione, si è pensato di analizzare il fenomeno incrociandolo con la povertà. Anche in questo caso si è creato un "indice di povertà" partendo dalla considerazione che 15 euro fosse la cifra minima di sussistenza al di sotto della quale un detenuto può considerarsi assolutamente povero e non in grado di garantirsi le sigarette e quel minimo di integrazione al vitto dell’amministrazione. Dal punto di vista collettivo si è stabilito che una sezione che vedesse almeno il 25% di individui in quella condizione di povertà dovesse essere considerata a sua volta "povera", tenuto conto che la dinamica penitenziaria impone tacitamente un reciproco aiuto, ed è chiaro che questo determina un impoverimento generale.

Si sono quindi nuovamente riaggregati i dati sull’autolesionismo in ragione della classificazione delle sezioni secondo l’ordine di povertà, scoprendo che oltre l’80% dei protagonisti di gesti autolesivi vivono in sezioni povere. Ma elemento di maggiore interesse è che i poveri non occupano trasversalmente tutte le sezioni dell’istituto. Il 90% di questi vive esattamente in quelle sezioni connotate da un basso livello di opportunità trattamentali e di vivibilità.

Come può essere possibile che all’interno di un carcere la povertà si collochi in modo non casuale? Il fenomeno se ci pensiamo è esattamente speculare a quello che avviene all’esterno, nelle città, dove esistono quartieri degradati che attirano soggetti deboli e che si degradano sempre di più in una spirale infinita. D’altra parte, se ci pensiamo, queste cose non sono nuove. Sono state scritte da vari autori (Goffman, Berzano, ecc.). In carcere nulla è casuale. Ai più deboli è destinato il fondo della galera; ai non poveri, ai più capaci, la parte più alta e le sue opportunità.

Quindi, occorre partire da queste considerazioni. A maggior ragione se consideriamo anche la penuria di risorse umane e materiali. Se queste fossero infinite allora il problema non si porrebbe. Ognuno avrebbe attenzione e sostegno, ma così non è. Occorre quindi fare delle scelte e farlo scientemente, con tutto il buon senso possibile, consci delle conseguenze. Occorre indirizzare i nostri sforzi agli strati più bassi della popolazione penitenziaria. A quella che vede nell’autolesionismo l’unico modo per poter attirare a se attenzione e risorse.

Sembra banale, ma posso garantirvi che non è facile convincere fino in fondo gli stessi operatori di questa necessità. Non è facile cambiare l’atteggiamento e la percezione di fondo, ovvero che è molto più gratificante lavorare con chi ti capisce perfettamente e che contribuisce a darti soddisfazione per il lavoro che fai. Così è molto meglio occuparsi di quelli che abitano i “piani alti” del carcere, che danno meno fastidio e che ti consentono una fatica minore.

Ricordo ancora quando, giovanissimo direttore alle prime esperienze, aprii in istituto una sezione per detenuti studenti, organizzandola secondo quello che ritenevo essere le esigenze di una persona che cerca di studiare in un carcere. Ovvero la necessità di silenzio, tranquillità, scambio interpersonale ecc. Tra le varie cose previste, vi era anche il fatto che le celle rimanevano aperte per una certa parte della giornata. Inizialmente le critiche e i timori furono alti. Poi, dopo qualche giorno, affacciandomi alla porta dell’ufficio servizi dell’istituto, vidi una fila di agenti. Chiesi del perché e mi fu risposto che tutti volevano andare a montare in quella sezione, fino a pochi giorni prima considerata ingestibile e pericolosa per la sconsiderata apertura, perché più tranquilla e per il fatto che “i detenuti non ti chiamano più”. Questo lo si fa, ovviamente, in modo inconsapevole.

Non ho mai visto malafede nel faticoso fare di tutti i giorni degli operatori, solo istinto di sopravvivenza. D’altra parte rispetto ai “non poveri” non intendo dire che questi debbano essere lasciati a se stessi. Più semplicemente voglio ricordare che chi è dotato di risorse economiche, intellettuali, famigliari e di una rete sociale, ha più possibilità di modificare la sua pena e che, quindi, l’intervento nei suoi confronti debba essere tarato tenendo conto di queste potenzialità. Questo “libererebbe” alcune risorse istituzionali che potrebbero essere indirizzate laddove i limiti e le incapacità impediscono percorsi autonomi di reinserimento sociale.

Nella terminologia tecnica e nel gergo penitenziario esistono ancora definizioni che evocano percorsi teorici ormai desueti come “trattamento”, “osservazione scientifica della personalità”, “rieducazione”: termini legati alla visione positivistica della devianza come “patologia sociale”, curabile per il tramite della pena detentiva.

Non mi sembra si debba continuare a pensare alla rieducazione, se nel frattempo il carcere esprime i disagi e la disperazione della povertà che implode nella rabbia. Immaginatevi che in occasione delle proteste per l’indulto tra gli stessi detenuti si è dovuto affrontare la questione se l’astensione dal vitto dell’amministrazione era una forma di protesta sostenibile, alla luce del fatto che una buona fetta di loro non ha mezzi di sostentamento alternativi.

Se vogliamo un carcere civile facciamo in modo che la gente non si debba prostituire con 15 euro al mese e facciamo che la gente che ci lavora non si debba difendere dalla disperazione e dall’abbandono che tutti i giorni li assale entrando dentro le sezioni detentive più povere. Portiamo il lavoro in carcere e facciamo che questo restituisca la dignità a tutti quei detenuti che, per richiederla, arrivano a farsi del male.

 

 

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