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Giornata di Studi su Casa di Reclusione di Padova - 16 febbraio 2001
I detenuti stranieri e il diritto alla salute in carcere Il ritorno a uno stato di abbandono all’uscita dal carcere di
Donatella Zoia, medico penitenziario a San Vittore L’articolo
35 del T.U. ed il relativo art.43 del Regolamento di attuazione disciplinano l’erogazione
delle prestazioni sanitarie non solo per gli stranieri regolarmente soggiornanti
sul territorio nazionale, ma anche per gli stranieri non in regola con le norme
relative all’ingresso e al soggiorno. In
particolare, i due articoli, prevedono che anche agli stranieri non in regola
con le norme di soggiorno, siano assicurate prestazioni sanitarie che non sono
solo quelle dell’urgenza (come prevedeva la legislazione antecedente), ma
anche:
Sappiano
bene però che “garantire” sul piano legislativo un diritto, non significa
renderlo accessibile a chi ne deve godere. Dichiarare
che anche gli stranieri “clandestini” hanno diritto alle cure (d’urgenza,
essenziali e preventive), non vuol dire che queste “cure” siano per loro
accessibili e usufruibili come per i cittadini Italiani. Questo
fa si che, ancora oggi e in maniera assolutamente paradossale, il carcere sia
per moltissimi stranieri clandestini, il primo luogo in Italia dove possono
sottoporsi a cure mediche e a visite preventive. Purtroppo,
questo stesso meccanismo, fa sì che, all’uscita dal carcere, difficilmente
sia possibile effettuare una seria e adeguata continuità terapeutica rispetto a
quanto intrapreso durante il periodo di detenzione. Il
carcere, d’altra parte, come ben documentato nel “Documento Base”
presentato al Convegno di studio “Il Servizio sanitario per il diritto alla
salute dei detenuti e degli internati” (Roma, aprile ‘99), “ha manifestato
nel complesso, al di là dell’impegno dei singoli operatori, una difficoltà
strutturale a garantire una globalità e una unitarietà delle prestazione
preventive, curative e riabilitative. (…) Si tratta, in generale, di servizi
che si attivano a “domanda individuale”, con difficoltà oggettive a
svolgere la funzione di presa in carico del bisogno globale di salute”.
A questo si aggiunge il fatto che, sempre secondo quanto indicato nello
stesso documento, “la finalità di fondo del servizio sanitario penitenziario
è rappresentata, in prevalenza, dalla copertura del rischio per garantire le
responsabilità dell'Amministrazione”. Il
carcere, dunque, da una parte rappresenta, molto spesso, una prima occasione di
“cura” per chi, come gli stranieri irregolari, non ne ha avute all’esterno.
Allo stesso tempo, però, neppure il carcere garantisce una “presa in carico”
sanitaria delle persone che sono detenute, ma si limita ad affrontare e a
tentare di risolvere quelle situazioni emergenti o “a rischio” per la salute
di tutti (es.: malattie infettive). L’assoluta
carenza di collegamento tra carcere e territorio (che riguarda anche le
strutture pubbliche sociali e sanitarie) rende quasi impossibile il passaggio di
documentazione tra interno ed esterno. Nello
stesso tempo, iniziare cure e terapie all’interno del carcere, senza sapere se
queste terapie potranno essere poi continuate al momento dell’uscita (es.:
epatite, infezione da HIV) fa si che tali terapie non possano di fatto essere
prescritte neppure se ci sarebbero le indicazioni per farlo. Le
strutture territoriali chiedono un tale grado di attivazione da parte dei
singoli soggetti, da renderle di fatto non usufruibili da parte di coloro che,
stranieri e malati, non sono in grado di “muoversi” in maniera autonoma nel
complesso sistema territoriale. Neppure coloro che sono affetti da malattie
documentate o diagnosticate in carcere possono godere di una maggiore presa in
carico da parte delle strutture territoriali: tossicodipendenza, infezione da
HIV, malattie psichiatriche. L’uscita dal carcere non prevede la consegna di
alcuna documentazione sanitaria (anche per questa deve essere il singolo ad
attivarsi… ma per farlo dovrebbe sapere come muoversi!) e spesso le strutture
territoriali richiedono la residenza o comunque un domicilio effettivo per
attuare la presa in carico. Di
fatto, dunque, neppure il carcere garantisce una uguale usufruibilità di cure e
di accesso ai servizi sanitari per le persone straniere, mantenendo anche al suo
interno un sistema che “blocca” chi si trova in una situazione di maggior
disagio, limitandone ulteriormente le possibilità di risorse personali. Donatella Zoia
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