Documento Balducchi

 

S.E.A.C. Triveneto - Conferenza Regionale Volontariato Giustizia

Sportello Giustizia di Rovigo - Ristretti Orizzonti

 

Meno carcere, più impegno sociale

 

Seminario sul volontariato penitenziario

(Padova, 3 - 5 luglio 2003)

Dal "visitare" al "liberare"

 

1. Panorama e punto di osservazione

 

La lettura della ricerca effettuata dalla Caritas italiana nel 2002 ha suscitato la definizione del titolo delle riflessioni che vi offro. Il panorama che osservo è ricchissimo di sfumature multicolori ed accattivanti, un insieme di luci di speranza perforanti zone d’ ombra e di oscurità, dove gli uomini e le donne che costellano i vari paesaggi sono purtroppo più in ombra che nella luce.

Le persone detenute, le loro famiglie, le vittime dei reati si affacciano e provocano le ragioni delle nostre azioni per domandarci il senso del nostro operare e i molti volti, che non ricevono il nostro sguardo, chiedono di venire alla luce. Il punto di osservazione predetermina sicuramente la visione e pertanto è doveroso esplicitarne i contorni:

lo sguardo è rivolto non solo al carcere ma, in generale, all’amministrazione della giustizia nella società;

l’osservazione si lascia provocare da un invito suggeritomi da un amico dopo numerosi reincontri per nuove carcerazioni: "Io posso non credere alla mia capacità di cambiare, tu no. Se lo pensi, non è più vera la celebrazione dell’Eucarestia che celebriamo alla domenica";

la visione di insieme è dettata dalla convinzione che l’ agire non è affare privato ma azione di cittadinanza e di chiesa anche nei momenti di non comprensione sociale o conflittualità intra-ecclesiale;

i colori, le luci e le ombre sono elementi del già esistente e dell’oggi, segno del futuro sperato e cercato, sintetizzato nel titolo del messaggio di Giovanni Paolo II per la giornata mondiale del 2002: "Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono";

la definizione del fotogramma nasce dalla convinzione che sia necessario coniugare meglio il "vistare" in carcere le persone con il "liberare", suggeritoci dalle Scritture come azione prioritaria di Dio nei confronti dei prigionieri;

il fotografo è un cappellano del carcere da tredici anni, che collabora con la Caritas nella sua funzione pedagogica e di coordinamento.

 

2. Criteriologia

 

L’azione della Chiesa ha costantemente bisogno di rileggersi alla luce della Parola per trovare i criteri del proprio agire. Le parole guida, nei rapporti con l’amministrazione della giustizia, le troviamo in due indicazioni dateci da Gesù: "proclamare la liberazione ai prigionieri… visitare i carcerati".

 

La prima è la definizione che Gesù dà della realizzazione in Lui del Regno di Dio: la proclamazione della liberazione dei prigionieri fa parte della sua missione e rappresenta la prova del suo essere Messia. Non si tratta quindi di un’azione secondaria o marginale ma della realizzazione di un segno che ci fa incontrare Dio.

La richiesta di libertà, detta in multiformi modi - anche chi si impicca in carcere in fondo ci grida questo - è una costante dei nostri incontri: "Strappa dal carcere la mia vita, perché io renda grazie al tuo nome...", è la supplica del salmo 141,8.

È una richiesta che cerca l’incontro liberatore. Si tratta quindi di trovare strade e percorsi di libertà; il carcere è la privazione-negazione della libertà, è un male e, per questo, il suo progressivo abbattimento come necessità sociale, è azione di Chiesa.

Proclamare la liberazione ai prigionieri implica oggi l’impegno di trovare forme di risoluzione dei conflitti che riqualifichino l’essere libero dell’uomo, che facciano appello alla sua capacità di riscegliere il bene laddove è stato scelto il male. Inoltre, la morte di Gesù ci suggerisce di attuare una funzione vicaria laddove le persone o non sono in grado o non riescono a proporsi con le proprie forze.

Vi è qui un rimando all’azione di riscatto che Gesù fa nei confronti delle nostre colpe per liberarci dal male. San Paolo nella sua lettera a Filemone ce ne da un esempio, rinviando lo schiavo Onesimo come fratello, affermando: "Se dunque mi consideri come amico, accogli Onesimo come me stesso. E se in qualche cosa ti ha offeso, o ti è debitore, metti tutto sul mio conto. Lo scrivo di mio pugno, io, Paolo: pagherò io stesso" (vv. 17-19).

L’altra parola fondante il nostro agire è l’invito a visitare i carcerati: azione che vede coinvolti tanti volontari cristiani, con la sensazione, molte volte, di essere sempre troppo in pochi e poco ascoltati. Mi si permetta, a questo punto, di far risuonare la Parola per accorgerci che è parola creatrice e sorgente di attenzione ecclesiale.

Il capitolo 25 di Matteo è conclusivo di tutta quella sezione che, a partire dal capitolo 24, enuncia cosa dobbiamo fare in attesa del Signore: anche qui, visitare i carcerati è un’azione da compiere in attesa dell’arrivo del Signore. Ancor più interessante è che questo capitolo presenta il Cristo glorioso, la gloria di Dio. Il veder faccia a faccia il Signore ha, come condizione e realizzazione storica, la capacità di riconoscere il volto del Cristo in quello dei suoi piccoli fratelli in difficoltà.

Se poi guardiamo il "come", ci accorgiamo che alcune sottolineano in modo speciale l’aiuto, altre invece la compagnia. I malati e i carcerati vengono messi assieme. Il termine "malato" vuol dire pure prostrato, stufo, depresso, svuotato. Sono stati d’animo che leggiamo anche sui volti delle persone in carcere, dei loro familiari e delle vittime dei reati. D’altra parte, pure i malati in casa si trovano in una specie di prigionia.

Chiamati a visitare coloro che non possono vivere la socialità, ci troviamo a vivere la compagnia di Gesù: "In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete/atto a me" (Mt 25,40).

Quel "a me", vuol dire veramente come Lui ha fatto con noi e come tu faresti con Me. Quel visitare ci riporta così al programma della Sinagoga di Nazaret, dove Cristo proclama la liberazione ai prigionieri: "Oggi si è adempiuta questa Scrittura, che voi avete udita con i vostri orecchi" (Lc 4,21).

L’agire concreto della chiesa si struttura e si incarna poi nelle comunità ecclesiali, che devono trovare realizzazioni storiche per dire e continuare la missione dell’annuncio della buona notizia della liberazione.

Nell’ambito dell’amministrazione della giustizia, accanto al compiere l’opera di misericordia corporale, è necessaria un’attenta riflessione sulla proposizione di un cammino culturale, con proposte a partire dallo stile del Signore, lasciandosi appiattire su schemi ed ideologie retribuzioniste.

I convegni su "Colpa e Pena", fatti in Lombardia, hanno dato piste di riflessione teologiche, proposte ecclesiali, strumenti giuridici maggiormente incentrati sul concetto di "riconciliazione". È una sfida per rileggere pure l’agire nel mondo del penale, in quanto "essere Chiesa" nella società implica pure il proporre democraticamente nella società valori e strumenti di convivenza ispirati all’essere uomo Gesù Cristo.

Nel suo processo, Cristo invita Pilato a ricercare la verità, ad agire la sua funzione di giudice, senza pregiudizi veicolati da fonti autorevoli e potenti (i sacerdoti), senza accogliere le spinte sociali (la folla) e non avendo paura di chi lo ha delegato nel potere di giudicare (l’imperatore).

Il vissuto del condannato Gesù, porta alla nostra memoria molte storie simili e ci obbliga a lottare per una giustizia più equa in tutti gli strumenti sociali messi in campo per fare giustizia. C’è un diritto alla giustizia che è compito anche per la chiesa prima ancora che di testimonianza di carità.

 

3. L’impegno delle Chiese

 

La Chiesa è chiamata a presentare il volto di Cristo, vuol essere "segno" del Cristo fattosi povero, affamato, assetato, malato, carcerato… per testimoniare la bontà del Padre che ha cura di tutti i suoi figli. "Segno" che non si esprime solo nell’aiuto di chi è bisogno ma che si rende trasparenza della volontà del Padre di proporci la beatitudine della famiglia di Dio.

Giovanni Paolo II, nella lettera apostolica "Novo millennio ineunte", ci suggerisce: "È l’ora di una nuova fantasia della carità, che si dispieghi non tanto e non solo nell’efficacia dei soccorsi prestati, ma nella capacità di farsi vicini, solidali con chi soffre, così che il gesto di aiuto sia sentito non come obolo umiliante, ma come fraterna condivisione. Dobbiamo per questo fare in modo che i poveri si sentano, in ogni comunità cristiana, come a casa loro. Non sarebbe, questo stile, la più grande ed efficace presentazione della buona novella del Regno? " (n. 50).

Le parole espresse sono, sicuramente, il risultato di un lungo cammino di riflessione ecclesiale e il punto di partenza per una buona progettazione pastorale. Questa stessa finalità alta, suggeritaci da Giovanni Paolo II, indirizzano l’agire della Chiesa nel "visitare e proclamare la liberazione ai prigionieri".

I due aspetti trovano qui la loro correlazione più vera. Siamo invitati a una nuova creatività nell’azione della Chiesa di cui siamo membri, assumendo con ciò un ruolo culturale e profetico nella società in cui viviamo.

Le comunità cristiane, le Caritas diocesane, i cappellani, in questi anni hanno sviluppato multiformi servizi per le persone detenute ed i loro familiari. L’indagine della Caritas italiana conferma un proliferare d’iniziative, sia all’interno delle carceri sia all’esterno. Molto sinteticamente, a mo’ di slogan, sottolineerei che c’è una maggiore capacità di "visitare" i detenuti più che uno sforzo di liberarci dalla necessità del carcere.

Per questo ritengo prioritario sviluppare maggiore impegno attorno ai temi della pena e della giustizia, per non appiattirsi sul dibattito odierno, che parla sempre di più di certezza della pena, di sicurezza, di pene alternative premiali, di costruzioni di nuove carceri, con il risultato prevedibile di una maggiore carcerizzazione.

Le Caritas intervistate richiedono un intervento che le abiliti ad una maggiore progettazione territoriale, sia per l’operatività sia per la sensibilizzazione. Tali richieste, dettate dall’incontro con le persone detenute e con i loro drammi, interpellano le Caritas che, giustamente, sono preoccupate di trovate soluzioni concrete e velocemente spendibili.

Accanto a ciò, è necessaria un’azione più ampia di riflessione su strumenti amministrativi e legislativi, che portino di fatto sul territorio, e quindi anche nelle nostre comunità ecclesiali, l’intervento sui conflitti a rilevanza penale. In caso contrario, ci troveremo a promuovere esperienze residuali e di tipo premiale (i buoni detenuti di turno) anche nelle nostre Caritas ed organismi associati.

Mi pare di notare una mancanza di riflessione e d’attività promuovente l’incontro con le vittime: se ne parla poco e, soprattutto, si pratica e progetta poco. E questa è una sfida educativa per tutti. Qui si gioca la credibilità delle nostre proposte di solidarietà responsabilizzante per tutti, capace di dialogare anche con le giuste esigenze di sicurezza sociale.

 

Sinteticamente propongo alcune linee guida:

la promozione della dignità della persona;

a sensibilizzazione delle comunità;

a funzione di stimolo verso le istituzioni.

 

Come metodo:

la circolarità nell’attuare queste linee nel temporalità;

la promozione di assunzione di responsabilità concrete;

l’accogliere le persone nella normalità dei nostri vissuti quotidiani.

 

Per concludere, vi leggo una lettera inviatami, dopo una messa, in cui commentai la parabola del Padre misericordioso con lo scritto di un altro detenuto:

"Oggi ho partecipato per la prima volta alla SS. Messa del carcere e devo dire con molta sincerità che ci sono andato per passare un’ora fuori dalla cella, insomma come un passatempo. Ebbene mi sono ricreduto, in un’ora ho trovato in me quella fede che in parecchi anni non sentivo così forte, mi sono lasciato andare, ho ascoltato, ho riflettuto e ho anche pianto, sì ho anche pianto nel mio angolino tutto nascosto per la vergogna di essere visto, visto da persone che poi in fin dei conti non sono che dei fragili e dei deboli come tutti noi siamo.

Siamo in carcere, soffriamo, piangiamo e dobbiamo condividere il nostro star male perché chi forse ha ancora un po’ di fede sa benissimo che questa è una realtà passeggera ma che ci può essere di aiuto in fin dei conti, naturalmente se lo vogliamo. Ma torniamo a noi, oggi mi sono ricreduto, ho sentito davvero qualcosa che mi arrivava dal dentro, qualcosa forse di sconosciuto ma che intendo con lei conoscere, imparare, capire, sono stato male e bene nello stesso tempo, certe parole sulla famiglia mi hanno fatto rabbrividire, pianger e pensare cosa ho buttato via dei miei 27 anni.

Ho pensato, ho riflettuto e non voglio buttare la mia vita dietro quattro sbarre verdi, ibride che non riescono che a suscitare in me solo una rabbia bestiale, che qui difficilmente riusciresti a sfogare. Non mi sembrava di essere in chiesa, pensavo di essere nella mia casa, dove mio padre mi diceva le parole che io incredulo di me stesso ascoltavo e le facevo mie.

Il tutto si conclude con una comunione, di cui non sapevo se fare, ma io in quel momento mi sentivo anche senza confessione pentito del male che avevo fatto a tante persone. Alla fine della messa volevo abbracciare il padre ma mi sentivo osservato e non l’ho fatto, così ho pensato di scrivere quattro parole di ringraziamento a lei, non tanto per la messa, ma per quello che forse ho ritrovato, adesso devo pensare un po’ a me stesso e ho bisogno di persone che capiscano la mia sensibilità e la mia fragilità".

 

Don Virgilio Balducchi

 

 

Precedente Home Su Successiva