Carlo Alberto Romano

 

S.E.A.C. Triveneto - Conferenza Regionale Volontariato Giustizia

Sportello Giustizia di Rovigo - Ristretti Orizzonti

 

Meno carcere, più impegno sociale

 

Seminario sul volontariato penitenziario

(Padova, 3 - 5 luglio 2003)

 

Carlo Alberto Romano (Vicepresidente dell’Ass. "Carcere e Territorio" di Brescia)

 

Quando io parlavo di “controllo sociale”, voglio che sia ben chiaro il concetto che intendevo portare alla vostra attenzione. Io vorrei che chi si occupa di detenuti in misure alternative, o di detenuti in un contesto inframurario, non si sostituisse al giudice. Questo è controllo sociale. Il giudice deve fare il proprio lavoro. Alle volte, purtroppo, ho constatato una tendenza a volersi sostituire al giudice, per una sorta di presunzione che vi sia, nella magistratura, l’incapacità, derivante da una carenza di sensibilità, ad apprezzare compiutamente il significato di un determinato atto.

Ora, io non nego che questo possa anche essere accaduto, e che ci possano essere state  delle storture, come quelle alle quali accennava Francesco Morelli, ma non è la regola.

( Per inciso, io ho analizzato in una ricerca riguardante gli affidamenti particolari i motivi delle revoche e Le do pienamente ragione: i tre quarti delle revoche non avvengono per commissioni di reato, ma per violazioni de facto, per violazioni delle prescrizioni e, il più delle volte, trattandosi di affidamento particolare per uso di droghe. A parte che qui devo contraddire quanto ho detto prima, perché il legislatore in questo contesto ha commesso un errore colossale, che è quello della non concedibilità, oltre la seconda volta, dell’affidamento particolare; in un contesto,  il consumo di sostanze d’abuso, nel quale la ricaduta è elemento prioritario di quella patologia cronica recidivante che è la tossicodipendenza. )

La sfiducia supposta, nei confronti della magistratura, è un errore, perché porta a prendere decisioni avventatamente. Nascondere l’eventuale fatto che va segnalato alla magistratura è un errore. E’ compito del giudice valutarlo, anzi, semmai si dovra cercare di essere parte attiva raccogliendo e proponendo quegli elementi che al giudice potranno servire per decidere al meglio.

Questo, io intendevo come concetto di controllo sociale.

Un ulteriore accenno, per la chiamata in causa precedente.

Mi è stato chiesto cosa pensassi in tema di modello americano, ed è una domanda che mi preme molto, perché mi ci sono trovato a ragionare. Innanzi tutto, vi consiglio una lettura estremamente interessante, che è “Perché è diminuita la criminalità negli Stati Uniti”, di Barbagli, che è un testo estremamente accessibile, con il quale si dà in qualche modo conto di quelle cifre di cui si accennava in precedenza e che, in qualche modo, hanno colpito tutti. Cioè, l’aumento spaventoso della detenzione negli Stati Uniti, al quale ha, indubitabilmente, corrisposto un calo della criminalità. Il collega, bravissimo, nel suo testo, ha riportato una serie di lavori di sociologi americani, i quali hanno evidenziato alcuni fatti.

Innanzi tutto, sul lungo periodo, non è assolutamente detto che l’aumento della carcerazione comporti un risultato positivo. Vi è chi ritiene utile operare la distinzione tra carcerazione di neutralizzazione e  carcerazione di disincentivazione, molto tecnica e per la quale non mi pare questo il momento idonea per dissertarla, significando come sul  periodo ultratriennale la seconda si appalesi fallimentare.

Secondariamente dice: attenzione, nel contesto americano, nel quale si è avuta la diminuzione della criminalità, vi è stato un forte aumento del benessere sociale, sono stati gli anni del boom, ai quali adesso stanno seguendo, come ben sappiamo, quelli della recessione. L’aumento del benessere sociale, da sempre (ma questo non lo dice la criminologia, lo dice il buonsenso), implica una diminuzione del disagio e una diminuzione, quindi, del ricorso alla condotta criminale.

Quindi l’assioma tolleranza zero = diminuzione della criminalità, è erroneo.

Possiamo condividere, possiamo non condividere, però questa è una tesi che va perlomeno approfondita, anche perché si sviluppa citando bibliografia assolutamente autorevole.

In secondo luogo, vi è il problema del contenimento di quest’aumento di detenzione. Il ricorso, che hanno fatto gli americani, al sistema della privatizzazione, si è rivelato quanto meno discutibile. Anche su questo alcuni studi ci dicono che cosa ha significato l’instaurazione del regime privatistico nell’esecuzione penale americana: storture, distorsioni, l’ennesima riproposizione di un modello nel quale il più debole è sempre più debole.

Personalmente pavento molto il rischio di andare incontro a una situazione di questo genere. Io ritengo che l’esecuzione penale, come molti altri aspetti del nostro vivere, debba essere un problema gestito esclusivamente dallo Stato: nel momento in cui interviene il privato, si creano rischi che non siamo in grado, in questo momento, di percorrere.

Una fonte di grossa preoccupazione, vedo anche nella sanità penitenziaria. Al momento, è la situazione che maggiormente mi preoccupa. C’è un disincentivo a lavorarci, c’è un taglio di risorse, che noi tutti sappiamo. Plaudo all’esempio toscano, al quale faceva riferimento la Dottoressa Favero, e spero che sia ripetibile, ma nelle altre realtà e, purtroppo, devo dire, nei Protocolli, non ho visto posizioni di assunzione di responsabilità che, in qualche modo, attenuino questa preoccupazione. Io vedo l’aumento del rischio che la sanità penitenziaria e, quindi, la tutela dei cittadini reclusi – cittadini reclusi, ma tutelati dalla Costituzione, né più né meno di quelli che non sono reclusi – si stia veramente deteriorando. Abbiamo situazioni paradossali, per le quali lo stesso tipo di trattamento terapeutico viene elargito dal sistema sanitario a chi non è detenuto e, nel momento in cui lo è, non viene più elargito, perché non se ne fa carico nessuno. Per fortuna esistono degli strumenti alternativi, come la detenzione domiciliare e l’articolo 11 O.P., con il quale, in qualche modo, si cerca di porre freno a questa situazione. Ma sono palliativi: in realtà, noi abbiamo una sanità penitenziaria che corre dei grossi rischi. La mancata applicazione del Decreto Legislativo 230 è un punto sul quale noi dobbiamo vigilare e farci promotori di attenzione presso le amministrazioni regionali.

Vedo, invece, un aspetto positivo, e spero che da questo punto di vista in qualche modo ci possa essere un’implementazione delle strategie orientate in tal senso,  nella possibilità che le misure alternative si avvicinino sempre di più al momento della sentenza, al processo di cognizione. È entrato in vigore, in questi giorni, il cosiddetto patteggiamento allargato, e voi sapete che ha aumentato i termini per l’applicazione della semidetenzione, istituto presente nel nostro ordinamento da tantissimi anni ma assai poco applicato. Io spero veramente che, con l’allargamento delle competenze, si vada sempre di più verso l’applicazione delle misure alternative direttamente al termine del processo di cognizione. Perché è questo il modo per fare breccia nell’opinione comune, per far capire che anche quello è un modo di scontare la pena, per non correre il rischio di cui parlavo stamattina: la sanzione (giusto castigo) gli viene data da un giudice, che è bravo perché capisce la gravità del fatto, poi il condannato non entra in galera perché un altro giudice,  che invece, nell’opinione comune, è portato a scusare tutto, gli dà i permessi, gli dà la licenza, gli dà la semilibertà, gli dà quant’altro, e la gente non capisce. Dobbiamo far capire che la misura alternativa è un modo di scontare la pena e auspico che, sempre più, possa avere un ruolo la vittima, nello scenario del processo di esecuzione. Nelle ordinanze del Tribunale di Sorveglianza occorre che si focalizzi sempre più l’attenzione su quel settimo comma dell’articolo 47 dell’Ordinamento penitenziario. Perché quei 3, 6, 9 mesi, 2 anni, 3 anni di affidamento o di semilibertà, siano veramente un momento importante, ed offrano una duplice occasione di riscatto sociale.

Da una parte, al condannato, di riparare al torto che egli ha commesso e per il quale deve essere tenuto a impegnarsi. E, dall’altra parte, alla vittima, di sentirsi partecipe di un processo che spesso, invece,  la vede esclusa, perché dal momento in cui si perfeziona la sentenza di condanna definitiva non sa più niente e, magari, legge sul giornale; ecco, quello che ha fatto del male a mia figlia, a mio nipote, a me, è già fuori, e non gli hanno fatto niente… e sappiamo tutte le cose che si dicono. Invece no, se riusciamo a coinvolgerla, se riusciamo a farle capire che è fuori perché c’è uno scopo, che è quello del suo reinserimento, e  questo suo reinserimento  può  passare  anche attraverso un impegno nei confronti del contesto sociale, magari in un’Associazione di volontariato o magari se ha un lavoro ed è in grado di sostenerlo offrendo alla vittima un contributo di carattere economico, anche piccolo, ma dall’immenso valore simbolico,  noi la vittima la recuperiamo e forse  riusciremo a farla divenire parte della positiva riuscita del percorso di reinserimento.

 

 

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