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Ornella Favero (Coordinatrice di "Ristretti Orizzonti")
Mi dispiace che non c’è la dottoressa Roscioli, perché volevo partire dalla sua frase, quando ha parlato di "trattamento" e di "intrattenimento". Questo mi ha colpito. Io, ogni settimana, mi vedo la rassegna stampa sul carcere e sono, in qualche modo, costretta a darle ragione: al 90%, l’intervento del volontariato è su questo terreno, dell’intrattenimento. Io non sto criticando, sto facendo una constatazione: lo spettacolo musicale, quello teatrale… è prevalentemente questo! Allora, io penso che dobbiamo un po’ interrogarci su questo. Il titolo di questo convegno ce lo siamo inventati noi, quindi sappiamo l’idea che c’è dietro: secondo me ha due aspetti, il primo è "meno carcere, più impegno sociale" rivolto ai detenuti, dall’altra è un invito, a noi volontari, ad essere più presenti sul territorio. Per i detenuti – anche questo è un ragionamento che va fatto – vorrei tornare al ragionamento del dottor Romano sulla giustizia riparativa e vorrei tornarci perché, ultimamente, noi abbiamo discusso molto con i detenuti su questo tema. Abbiamo discusso, ad esempio, perché i magistrati chiedono, sempre più spesso, a chi va in misura alternativa, un impegno di volontariato che, messo così, rischia di essere una cosa forzata e poco sentita. Invece, per me, il discorso di "meno carcere, più impegno sociale" dovrebbe essere un impegno nostro, del volontariato, a discutere, a rimettere in discussione con i detenuti l’importanza dell’impegno sociale. Del lavorare, anche come detenuti, anche nella loro condizione, non sempre a partire da "io, io, io e gli altri", ma a partire da un ruolo sociale che i detenuti possono assumere. Il valore che do al nostro giornale è esclusivamente questo, che le persone si rendono conto che l’impegno sociale è anche appagante, sul piano personale, forse più dell’adrenalina del fare le rapine che ti raccontano loro. Ho visto persone scoprire che l’impegno sociale ti può, in qualche modo, riempire anche la vita. E noi volontari, secondo me, riusciamo poco a trasmetterlo, questo. Quindi, io inviterei a riflettere di più sul che cosa vuole dire ragionare e discutere con i detenuti il valore dell’impegno sociale. Perché noi volontari, a volte, rischiamo di dare voce, anche troppo, a questo problema, che è logico nel detenuto, che non avendo nulla e nessuno, parte sempre da un "io, io, io…". E noi andiamo a portare quello che manca, andiamo a supplire a queste cose. Forse dovremmo cercare, invece, di essere più presenti nella discussione sul ruolo sociale che anche loro devono assumersi. Nemmeno delegare al volontariato la rappresentanza dei loro interessi, non basta e non funziona ed è anche sbagliato. Detto questo, penso che dobbiamo riflettere, noi volontari, su alcune cose che io penso debbano cambiare: io penso che ci sia, da parte nostra, una sottovalutazione di questo lavoro di sensibilizzazione. Anche a me ha colpito quello che ha detto il professor Romano, del 14% dei detenuti che hanno capito che è una cosa importante. Per me, questo, è un grande successo. Cioè, dobbiamo capire che se non siamo noi a smuovere la società fuori, a fare in qualche modo cambiare certi meccanismi… ma chi lo può fare? Per "noi", intendo noi volontari, con i detenuti, anche in uno sforzo di generosità che dobbiamo chiedere a loro. Io dico sempre: sforzatevi di partire dalla vostra condizione, di raccontare la vostra storia, di raccontare le difficoltà. È davvero il racconto di vita che, fuori, nella società, suscita un grande interesse e fa capire che stiamo parlando di persone. Le lamentele, il vittimismo, è terribilmente irritante, fuori. E, questo, secondo me, è un tasto importante su cui battere. Primo, dunque, la sottovalutazione di questo. Secondo, la sottovalutazione del lavoro, che noi possiamo fare, di sensibilizzazione dei detenuti, nel senso che ci sono dei comportamenti, degli atteggiamenti, che sono davvero da rimettere in discussione. Mettiamoci anche noi in quest’ottica, di non prendere tutto… perché il detenuto ha bisogno, perché è in una situazione di un certo tipo. Faccio un esempio concreto: l’altro giorno è venuta in redazione, da noi, Monica Vitali, che è giudice del lavoro e che ha scritto il libro "Il lavoro penitenziario". Ed è emersa una cosa curiosa ed interessante: quando i detenuti si lamentavano, anche giustamente, delle tutele sul lavoro, lei a un certo punto ha detto: "Ma guardate che fuori, oggi, con la precarizzazione del lavoro che c’è, non è molto diverso. Io sono andata in posti di lavoro e ho visto come lavorano, ad esempio, gli stranieri, e vi assicuro che non è meglio e che, comunque, non siete gli ultimi diseredati". Questo mi sembra importante perché ci sono dei comportamenti e degli atteggiamenti, ad esempio quando parliamo di reinserimento lavorativo, con i quali ci si scontra, che sono, per esempio, la sensazione del detenuto di essere sempre sfruttato, sfruttato dalle cooperative… il fatto è che il mondo del lavoro è cambiato radicalmente, in peggio, e bisogna fare i conti con questo, non con la propria idea, mitica, del lavoro a tempo indeterminato. La realtà è diversa, se non ci si confronta con questa, finisce che uno va fuori, va a lavorare, si sente insoddisfatto, sfruttato, e cerca altre alternative. Quindi, anche questa non è una battaglia da poco. Un terzo punto è il livello d’ignoranza, anche nostra, come volontariato. Oggi, secondo me, non ci possiamo permettere di non essere informati. Un esempio, anzi due, ne voglio fare… in Italia risono 6 – 7.000 volontari, nel settore del carcere: possibile che non siamo capaci di avere delle "parole forti"? Sulla questione degli stranieri, io sono andata un po’ in giro, recentemente, in Emilia Romagna e in Umbria, e ho scoperto che pure gli operatori sostengono che gli stranieri che non hanno documenti non possono andare in misura alternativa. Una balla clamorosa! Tutto si può dire, fuorché questo: Venezia e Padova sono piene di detenuti stranieri, entrati come clandestini, senza documenti, che lavorano in misura alternativa e questo, ad esempio, per le donne della Giudecca significa – se saranno espulse, come saranno, con questa legge – perlomeno andare via in condizioni un po’ più decenti, con un po’ di soldi. Per esempio, vedo qui, davanti a me, un volontario dell’Altro Diritto di Firenze che, sul tema degli stranieri, fanno delle cose eccezionali. Possibile che noi, volontariato, non riusciamo ad avere delle parole d’ordine forti, primo sul discorso degli stranieri, secondo sul discorso della salute? C’era un rappresentante della Regione Veneto, stamattina… a me veniva da piangere… L’altro ieri, la regione Toscana ha finalmente firmato un Protocollo nel quale si è assunta buona parte della spesa per la sanità penitenziaria. Cioè ha detto: "C’è stata la riforma, in senso federale, il famoso Titolo quinto della Costituzione, quindi è già competenza nostra, non dobbiamo aspettare nessun passaggio ulteriore". Mi pare che questa cosa sia arrivata in porto proprio in questi giorni: l’Amministrazione penitenziaria ha messo la sua quota di finanziamenti e il resto lo ha messo la Regione. Ora, queste sono pratiche da conoscere, prima di tutto: dobbiamo conoscerle e poi lavorare per esportarle. Allora, noi dobbiamo capire l’importanza di questi punti: uno, l’informazione; due, avere delle parole d’ordine forti comuni; terzo, avere come interlocutori gli enti locali, ma su questi temi. In questi anni ho visto firmare tanti Protocolli ma, o siamo noi a dargli delle gambe… chiedendo alla Regione, esportando le buone pratiche. Siamo stati noi a chiedere di venire qui a "Carcere e territorio" di Brescia: non stiamo sempre a inventarci tutto da zero. L’esperienza di Firenze, sugli stranieri, deve essere messa in circolazione… dobbiamo lavorare su poche cose chiare. Stamattina, su Verona, mi ha un po’ spaventato il numero di Tavoli. Io ho visto, anche lì, l’inesperienza di carcere. C’è senz’altro bisogno di informazione e di specificità degli interventi, ma c’è anche bisogno forte di unificare la presenza delle persone nel carcere e, se non lo facciamo noi volontari, secondo voi, chi lo fa?
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