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Don Virgilio Balducchi (Delegato dei Cappellani della Lombardia)
Io credo che le motivazioni per cui una persona fa delle cose hanno un inizio, hanno un cambiamento, si modificano, si strutturano. Io, personalmente, sto cercando di lavorare con i volontari perché ognuno verifichi le sue motivazioni e si domandi il perché lo fa. Ma non può farlo solo quando entra. Allora, io devo domandarmi oggi, perché continuo a fare il cappellano del carcere e potrei, tra un anno, decidere che probabilmente non lo devo fare più. Io ho l’impressione che uno dei problemi è che, ogni tanto, coloro che entrano in carcere abbiano dimenticato di domandarsi il perché fanno le cose, come mai sono lì, se stanno facendo cose che riguardano loro, oppure qualcun altro, se stanno lavorando – per esempio – solo in funzione di quello che dice la direzione, se stanno facendo cose da soli, se quello che fanno fa bene alle persone con cui stanno oppure no, se le cose che facevano 15 anni fa vanno ancora bene… su questo terreno siamo tutti alla stessa stregua e, forse, dovremmo imparare a ragionarne un po’ di più. Sono d’accordo che dobbiamo ridurre il danno del carcere. La maggior parte del mio tempo è spesa, oggi, per lavorare, con credenti e non credenti, perché si abbatta la necessità del carcere. So che è una battaglia che stiamo facendo da tanto tempo, ma non dobbiamo lasciarci fregare, anche se ci mettono i bastoni fra le ruote, anche se la politica sta andando da un’altra parte. Noi non dobbiamo mollare. Perché solo questo cambierà il vissuto delle persone e, secondo me, su questo aiuta la mediazione penale, non come uno strumento che si utilizza all’interno del percorso carcerario, che potrebbe avere grandi problemi… perché io per primo ritengo che, ormai, si è tutte vittime, fondamentalmente. Perché se io non do a una persona la possibilità di riparare, consapevolmente, al danno fatto, se l’ha commesso, lo rendo vittima, perché gli tolgo il diritto di rispondere della sua vita, di ciò che ha fatto. È proprio sul "prima" che, secondo me, bisogna lavorare, progettando ad esempio una giustizia che parte dalla vittima e non dal reato. È un discorso sul quale dovremmo avere più tempo, per parlarne. Per quanto riguarda le parrocchie, ripeto quello che dicevo all’inizio. Come cappellani, le parrocchie sono fatte di uomini. Però ritengo anche di essere un po’ più ottimista, forse perché essendo in una Chiesa un po’ più ricca dal punto di vista economico è più facile… la Chiesa di Bergamo, probabilmente, è molto più ricca della Chiesa di Padova, e anche i preti. Il mio modo di fare è questo: se c’è una persona in carcere, naturalmente della mia diocesi, che mi incrocia – noi siamo in due e tentiamo di incontrare, almeno una prima volta, tutte le persone che entrano in carcere – gli chiedo, tra le altre cose, se conosce il suo parroco, se gli piacerebbe che il suo parroco venisse a visitarlo. Se la persona risponde di sì, siamo noi che ci occupiamo della relazione con il suo parroco. Io sono 13 anni che lavoro in carcere e non ho mai trovato nessun parroco o nessun curato che si sia rifiutato di venire a trovare una persona in carcere. È chiaro che bisogna telefonare, andare a trovare, creare una relazione e, questo, è il mio compito. Con i preti, non glielo faccio fare neanche ai volontari, perché so che una certa parola mia conta diversamente da quella di un altro. Questo comincia a creare un legame. Molti parroci mi hanno ringraziato, perché questo è stato il modo per poter entrare anche nelle loro famiglie, perché non sapevano come fare. Avevano paura di entrare nelle loro famiglie, perché non le avevano mai viste, perché loro, come tutti gli altri, pensavano che quella famiglia fosse fatta così, che rifiutasse… Queste sono dinamiche corte, che poi però permettono alle comunità cristiane di essere sensibilizzate. Con questo non voglio dire che va tutto bene, che ci sono comunità che rispondono subito. È un cammino da costruire. Oggi siamo arrivati a certi risultati, però è da 13 anni che lavoriamo, per quel che riguarda me e la Chiesa di Bergamo. E l’Associazione "Carcere e territorio" è dal 1983 che lavora, non da un giorno. Oggi l’Associazione "Carcere e territorio" riesce a fare delle cose perché ci siamo creati una credibilità politica e sociale, quindi, quando facciamo delle cose, le facciamo assieme al Comune e alla Provincia. In qualche caso, anche se non ci piace il suo stile, abbiamo avuto anche il ministro della giustizia dentro i nostri progetti e questo ha fatto sì che il direttore del carcere respirasse un po’ di più quando concedeva gli articoli 21. Ne ha concessi 2 in 12 anni, ne ha concessi 6 l’anno scorso e ne concede 10 quest’anno, per lavorare nei Comuni. Però queste non sono cose che nascono così, vuol dire che tu scavi e poi costruisci, ma non costruisci da solo, non si può costruire da soli…
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