La salute appesa a un filo

 

Atti della Giornata di Studi

“Carcere: La salute appesa a un filo”

Il disagio mentale in carcere e dopo la detenzione 

(Venerdì 20 maggio 2005 - Casa di reclusione di Padova)

 

Stefano Vecchio

 

Ringrazio gli organizzatori di questa iniziativa per avermi invitato in questa realtà che per me è interessante, perché forse non mi capiterà mai di essere invitato in un carcere napoletano a discutere di questi temi. Al massimo mi è capitato di partecipare a iniziative di formazione, vi ringrazio perché credo che aprire una istituzione totale come il carcere a una discussione, significa non solo renderlo permeabile all’esterno, che è importante, ma anche poter ragionare all’interno, come per esempio mettere in discussione quello che Beppe Dell’Acqua definiva “necessità del carcere”. Vorrei fare una brevissima premessa a questo mio intervento: io faccio parte di una generazione che è riuscita a vivere l’esperienza della grande lotta alla destituzionalizzazione dei manicomi, e devo dire che penso che sia un danno per tutti quanti noi il fatto che, attraverso la generica critica alle ideologie, si è messo in discussione un certo stile critico che nel passato.

E ancora oggi, per quanto mi riguarda, contraddistingueva e contraddistingue alcuni di noi, il nostro lavoro dentro le istituzioni, cioè, prima ancora di pensare a ciò che noi dobbiamo fare, il tentativo di comprendere qual è il senso e la funzione dell’istituzione per la quale operiamo, perché il nostro agire non può essere non solo avulso, non può essere staccato da questa analisi e da questa indagine. Mi sembra che oggi invece ci sia una tendenza a tecnicizzare troppo, e a pensare che con le tecniche si risolvano i problemi: con le tecniche si producono problemi!

A partire da questo dirò qualcosa anche sulla domanda che mi faceva Segio. Se mi permettete io vorrei riportarvi una veloce citazione presa da Franco Basaglia, non tanto per una mia esigenza nostalgica, ma perché io sono molto sorpreso dal fatto che in tutti gli studi, anche italiani, sulla cosiddetta “doppia diagnosi” e sulla comorbidità, come la vogliamo chiamare, non vi sia nessuno, anche quelli più interessati, che faccia riferimento a questo grande movimento che c’è stato in Italia e che ha messo in discussione e ha criticato fortemente quella istituzione manicomiale che in qualche modo ha segnato la nostra storia, la quale probabilmente oggi è un po’ soggetta a quella dimenticanza che probabilmente produce queste realtà.

Io vorrei fare questa citazione perché è un po’ l’orizzonte largo, dialogando con i vostri orizzonti ristretti, a partire dal quale vorrei dare il mio contributo, “… ed è per questo che la diagnosi psichiatrica ha assunto il significato di un giudizio di valore, di un eticchettamento, ciò significa che il malato è stato isolato e messo tra parentesi dalla psichiatria, perché ci si potesse occupare della definizione astratta di una malattia, della codificazione delle forme, della classificazione dei sintomi. Ora, sommersi sotto un castello di entità morbose, di etichettamenti, di definizioni, siamo costretti a mettere tra parentesi, noi stessi, la malattia come classificazione nosografica, se si vuole riuscire a vedere in faccia il malato e il suo disturbo reale. Non è dunque la lotta contro la malattia mentale che deve essere la finalità della nostra azione nella schematica affermazione, secondo cui la malattia mentale non esiste se non come prodotto sociale, ma la lotta reale dovrebbe ora ricominciare a muoversi contro l’ideologia che tende a coprire ogni contraddizione”.

Vorrei sottolineare che non solo la parentesi non è stata eliminata attorno alla malattia mentale, ma questa parentesi si è ispessita e, a mio parere, sono nate altre realtà che, a mio avviso andrebbero messe tra parentesi, come la tossicodipendenza, la stessa comorbidità per cercare di comprendere la loro natura. Io vorrei partire da una domanda: come è possibile che, dopo un certo periodo, gli anni ottanta, e anche in parte gli anni novanta, nei quali molti di noi si erano convinti che si restringeva sempre di più l’area delle istituzioni totali, con la chiusura dei manicomi, l’assestare delle istituzioni carcerarie, il boom delle alternative alle pene, oltre a tutte le analisi che facevano riferimento a Focault, a tutta una certa cultura, non vi era più la società, lo Stato non gestiva più la devianza attraverso l’esclusione ma attraverso il controllo sociale, ed il controllo diffuso, che molti della nostra generazione siano stati permeati da queste culture? Com’è possibile, che cos’è questo ritorno delle istituzioni totali, oggi, dell’istituzione carceraria, se consideriamo che il ritorno di una certa ideologia di istituzione totale, in psichiatria è presente oggi un disegno di legge, come quello Burani-Procaccini, che ripropone la ricostruzione dei manicomi?

Alcune amministrazioni regionali, anche di area di centro sinistra, ripropongono soluzioni del genere, la stessa legge Fini, a mio parere, è una proposta, un laboratorio ancora più definito che nella società americana a tolleranza zero. Il passaggio dallo stato sociale allo  stato penale, per cui all’interno delle carceri americane ci sono esattamente gli stessi soggetti che precedentemente usufruivano di tutti i vantaggi oggi tagliati, quindi non c’è stato un aumento dei reati, ma solo un cambiamento delle politiche, politiche penali invece di  politiche sociali.

Anche se in Italia, in Europa, non siamo a questi livelli, vi sono però dei tentativi che spingono verso questo, e la legge Fini è un tentativo di trasformare il sistema dei servizi per le tossicodipendenze in un continuum tra assistenza e carcere, per cui il servizio pubblico dovrebbe fare la diagnosi da inviare nelle carceri, e l’area carceraria si allargherebbe alle comunità terapeutiche. Io l’ho semplificato, ma di fatto il disegno è questo, per cui, da una parte vi sarebbe un cambiamento della rappresentazione sociale del tossicodipendente e non solo, ma anche dei consumatori, e dall’altra un circuito di questo genere.

Ritengo vi sia una trasversalità, magari più moderata, più attenuata su questa area. Io penso che questo ritorno dell’istituzione totale sia un ritorno legato a queste cose piuttosto che un ritorno alla vecchia ideologia dell’istituzione totale. Noi ci troviamo di fronte a una realtà, nonostante l’onorevole Prestigiacomo abbia detto in televisione, a Porta a porta che c’è stato un aumento dell’8% dell’occupazione in Italia. Io che sono meridionale me ne sono accorto, però è strano pensare che vi è un aumento dell’occupazione e contemporaneamente l’Istat e vari studi di ricerca mettono in evidenza che vi è un aumento della povertà. Probabilmente questo aumento dell’occupazione non aumenta il reddito al punto tale da dare possibilità alle persone di poter vivere dignitosamente. Credo che il problema stia lì: sono aumentati i processi di degrado, di povertà nel sociale, c’è stata una rinuncia e un cambiamento nella funzione degli stati sul controllo sociale. Più disperazione, povertà, meno comunità, legami, per cui il carcere diventa il luogo dove la spazzatura viene buttata.

Quando noi siamo entrati in carcere, la prima cosa che abbiamo trovato sono state pile di carte di domande inevase. Gente che non sapeva perché stava in quel luogo, tossicodipendenti che stavano lì perché non riuscivano a telefonare, perchè non c’era la possibilità di usufruire di un’alternativa alle pene. Tossicodipendenti che stavano buttati in un posto dove, se possibile, stavano peggio degli altri detenuti. Credo che il problema è che vi debba essere una maggiore permeabilità tra dentro e fuori, una maggiore logica. Il carcere deve farci riflettere e pensare contemporaneamente a cosa fare dentro e fuori dal carcere. Volevo fare riferimento a uno psichiatra argentino, credo che noi europei dobbiamo fare molto più riferimento al modo latino americano per superare la nostra presunzione e da lì ci vengono alcune indicazioni molto importanti. Si chiama Michele Benonsaiag, ha scritto un libro molto interessante che si chiama L’epoca delle passioni tristi, ma ha scritto anche altri libri molto interessanti che vi consiglio, perché lui è uno psichiatra particolare.

Particolare oggi, ma insomma uno psichiatra al quale noi psichiatri far riferimento un po’ di più perché, pur occupandosi di psichiatria in Francia, in Argentina però segue e dialoga con i cosiddetti movimenti argentini, per questo ha scritto un altro libro molto interessante che si chiama Contropotere e un altro che si chiama Per una nuova radicalità. Lui dice: “Com’è possibile che mi arrivino oggi domande così ampie, sempre maggiori, di intervento di assistenza, ma queste persone cosa ci portano? Ci portano problemi che con la psichiatria veramente hanno a che fare molto poco, allora noi che cosa possiamo fare come psichiatri? No, non possiamo eludere la risposta, ma dobbiamo dire, in primo luogo, che noi siamo inadeguati a rispondere. In secondo luogo, cosa pensiamo di poter fare? È come se questo insieme di persone stessero in un mare in tempesta, quindi noi, in qualche modo, è come se rappresentassimo una specie di scialuppa che aiuta questi soggetti a raggiungere un porto. Ma il problema, qual è? Che oggi i porti non ci sono più, questo è il cambiamento, quindi noi non possiamo accompagnarli in un porto, ma possiamo aiutarli a creare un equilibrio nella crisi”.

Ora io credo che il problema col quale confrontarci sia questo: quanti equilibri della crisi sono possibili, a seconda dei diversi dubbi, con la quale si esprime con diversi travestimenti? Ora io credo che questo problema della cosiddetta doppia diagnosi e della comorbidità, io preferisco parlare di tossica follia, cioè di una specie di figura mitologica, se volete, che ostacola ogni possibilità di riduzione attraverso delle diagnosi astratte, fredde, che non tengono presenti le storie delle persone. Questa storia che sta sempre al di sotto delle idee, delle diagnosi, delle descrizioni puntuali, anche le ricerche che si sviluppano, sia in esterno che in interno, le cifre sono quelle, il 75% dei soggetti sono in comorbidità. Ora io dico che, riprendendo Basaglia, chi sta in carcere vive una condizione di sofferenza profonda ed è una sofferenza che, a mio parere, non ha niente a che vedere con la psicopatologia, così come è stata descritta nei manuali psichiatrici, ma è la sofferenza “normale” di chi è deprivato della propria libertà, degli affetti, delle emozioni, delle relazioni e del rapporto con se stesso e dei propri cari, con l’esterno e con la comunità.

In questo soggetto normalmente deprivato, se noi pensiamo di poter costruire un disegno di ricerca che, in qualche modo, debba andare a descrivere questa cosa e trasformare questa esperienza esistenziale in una diagnosi, un’etichetta, facciamo un’operazione a mio parere discutibile sul piano scientifico, sempre. Ma rischiamo di fare qualche altra cosa, di pensare che all’interno di questa istituzione totale come il carcere, sia possibile curare sul serio qualcosa. Cioè che sia possibile, attraverso una tecnica, risolvere un problema, quindi non dobbiamo liberarci dalla necessità del carcere, ma migliorare questa necessità perché funzioni. Perché un soggetto era ammalato, forse era criminale, ma anche perché ammalato mentalmente, il carcere debba essere il luogo della sua cura. Ora questo è il rischio e io credo che questo produca ricerche del genere. Io personalmente credo che all’interno del carcere, anche per l’esperienza che noi stiamo conducendo con i tossicodipendenti ristretti detenuti, noi più che curare dobbiamo pensare alla possibilità di istituire servizi specialistici, penitenziari per la salute mentale, ma ritengo, per quanto riguarda la tossicodipendenza, che la soluzione organizzativa sia diversa. E cioè che nelle grandi carceri, come sono quelle dove lavoriamo noi a Napoli, la Casa circondariale di Secondigliano, quella di Poggioreale, il centro penitenziale di Poggioreale dove ci sono migliaia di soggetti internati, sia necessario avere un punto fermo all’interno.

Cioè un servizio che possa garantire ai tossicodipendenti detenuti un’assistenza simile ai liberi, perché quei detenuti erano liberi precedentemente, quando sono entrati in carcere seguivano un trattamento, quel trattamento gli deve essere garantito esattamente come quando erano liberi, e garantirgli quel trattamento come quando erano liberi, significa non farli soffrire, non fargli avere astinenza. Pensate che quando siamo entrati a Poggioreale, la maggioranza dei tossicodipendenti era dipendente da benzodiazepine, che ritengo che sia una dipendenza dei giovani, da quella dell’eroina.

Allora, il nostro lavoro deve essere quello di garantirgli la continuità delle cure, provare a sostenerli, pur sapendo che non si risolve il problema e che non si riuscirà neanche a dargli una assistenza adeguata e, a partire da questo, provare a farli uscire. Io sono convinto di questo: di alleviare la sofferenza in carcere e sollecitare quanto più possibile tutti i meccanismi a nostra disposizione perché questi soggetti escano, perché il motivo che ha determinato il reato è prevalentemente da attribuirsi alla loro condizione sociale, esistenziale e dal consumo di sostanze stupefacenti.

Ora questo significa naturalmente che la strategia di intervento nell’area penale, se mi permettete questo termine un po’ più ampio, deve prevedere un sistema unico di intervento dentro e fuori. In questo senso noi abbiamo provato a far sì che questo intervento fosse a carico del Dipartimento e che si occupasse sia dell’assistenza ai detenuti, sia dello sviluppo alternativo alle pene, e inoltre di creare possibilità per cui queste alternative all’esterno fossero possibili nel circuito più generale dei servizi. Infine voglio fare solo una veloce riflessione sul fatto che vi è una difficoltà che io vorrei sottolineare.

Rispetto a questa problematica, tra la salute mentale e la tossicodipendenza, c’è a mio parere il fatto che noi non possiamo nemmeno rifugiarci dietro a schematiche soluzioni e sistemi organizzativi, ma sarebbe opportuno ripromuovere un processo di confronto tra le culture di riferimento, sugli stereotipi dei quali anche noi spesso cadiamo, sulle difficoltà tra i servizi delle culture, perché io credo che, attraverso un nuovo modo di relazionarsi di questi servizi e di promuovere culture, può passare anche un modo diverso, non dico di funzionamento del carcere, ma un modo diverso di liberare dal carcere i tossicodipendenti, soggetti che non si meritano questa esperienza.

 

 

Home Su Successiva