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Atti della Giornata di Studi “Carcere: La salute appesa a un filo” Il disagio mentale in carcere e dopo la detenzione (Venerdì 20 maggio 2005 - Casa di reclusione di Padova)
Don Daniele Simonazzi
Vi chiedo un po’ di silenzio per il rispetto che dobbiamo portare ai ricoverati che sono in O.P.G. e che di solito da questo punto di vista sono persone intorno alle quali difficilmente si crea silenzio, ma sulla pelle dei quali spesso si dicono tante parole, quindi vi chiedo un po’ di silenzio per il rispetto che dobbiamo a loro. Non hanno nessun merito per essere rispettati, tranne che quello di essere poveri e di essere della povera gente. Cerco di stare nei tempi e quindi i passaggi che faccio li faccio in modo stringente, e lo faccio in questo modo: c’è un brano della bibbia, dell’antico testamento, in cui si parla della conquista che Israele deve fare della terra promessa, e nel momento in cui il popolo entra nella terra promessa, Mosè dà alcune indicazioni a coloro che saranno designati per entrare nella terra. Il passaggio che vorrei fare è questo: per me che sono cappellano L’O.P.G. è la terra promessa, dal mio punto di vista non c’è un luogo che per un prete, o anche per un operatore penitenziario, valga tanto quanto il manicomio giudiziario, solo che l’ingresso in una terra che è quella promessa ha delle condizioni. Vi risparmio il testo del libro dei numeri, però Mosè dice che c’è una prima condizione con la quale coloro che entrano nell’O.P.G. devono entrarci. Mosè non ordina a tutto un popolo di entrare in un O.P.G., ma una sola persona per tribù, e questo dice che la prima condizione per entrare in O.P.G. è quella di entrarci sapendo di entrare in un luogo in cui ci sono delle persone che abitano, delle persone che soffrono, ci sono delle persone che vivono, che sperano, che sognano e che subiscono. La mia impressione è che comunque all’interno di una realtà come quella dell’O.P.G., ci si entri in punta di piedi sapendo che comunque è per gentile concessione dei ricoverati che noi ci entriamo, a causa di una delusione che io ho dato ai ricoverati, il dialogo tra di loro è stato: “Perché non possiamo cambiare il cappellano?”. Mosè dice: “Uno per tribù, basta e avanza”. L’O.P.G. è prezioso, ma è prezioso e la preziosità dell’O.P.G. la si coglie semplicemente se non ne si fa un territorio di conquista, ma ci si entra chiedendo il permesso. Io ho imparato che nei confronti degli agenti sono due le parole che funzionano: per favore e grazie. Sì, e non solo nei riguardi degli agenti, ma anche nei confronti dei ricoverati. Allora l’O.P.G. riserva dei frutti su cui torneremo, questa è la prima cosa, quindi, attenzione, comunque sia noi entriamo sempre in un rapporto che è un rapporto sproporzionato tra le nostre forze e quelle che la gente subisce in un manicomio criminale. Il più delle volte l’entrare in O.P.G. significa renderci conto della nostra impotenza, perché non sappiamo dare risposte da questo punto di vista, quindi Mosè dice: “Uno per tribù, basta e avanza”. C’è una seconda condizione che Mosè pone al popolo per l’ingresso nella terra promessa, e gliela pone indirettamente perché le motivazioni per entrare in O.P.G. e per far parte di una terra che è promessa, ha come condizione questo, ve lo cito a memoria questo versetto, perché dice così: “Quando ritornano gli esploratori dalla terra promessa, che cosa dicono? Abbiamo visto gli abitanti di questa terra, gli abitanti di questa terra erano molto alti, tanto è vero che a noi pareva di essere locuste, nei loro confronti, e ai loro occhi anche noi sicuramente sembravamo locuste”. Le locuste nella Bibbia non sono solo citate per la loro piccolezza, ma per la loro voracità, e allora questo cosa vuol dire? Che noi entriamo in un manicomio criminale come in una terra promessa solo se non abbiamo la presunzione di sapere come gli altri ci vedono, e purtroppo la presunzione di sapere come gli altri ci vedono è la presunzione di sapere come siamo noi. La verità sulla mia vita me l’hanno detta i miei mattoni, cioè i matti grossi, capite? La verità sul mio modo di essere prete, me la dicono loro ogni volta, non posso avere io la presunzione di sapere chi sono io per loro né la presunzione di sapere come loro mi vedono, se io da questo punto di vista non do loro la parola. Ecco perché tutto all’interno di un manicomio giudiziario come quello di Reggio Emilia, tutto è nato dall’ascolto di chi gli ha dato la parola, abbiamo fatto dei mensili, abbiamo fatto delle robe legate a delle attività fuori, c’è tutta una serie di attività, ma tutto è nato da quello. Allora bisogna che ci lasciamo dire da loro chi sono, o meglio chi sono e chi siamo. Non si può dare di noi stessi e di loro una definizione che è spesso legata alla voracità con la quale noi abbiamo a che fare con la povera gente. Comunque sia diceva un signore, uno di Pinerolo, che non ha sempre voluto bene alla sua mamma e a tutta la sua famiglia: “In fondo, se tu percepisci uno stipendio e se tu don Daniele sei quello che sei, lo devi a me”. Ecco, io personalmente ho ascoltato molto volentieri tutte le relazioni, però c’è un’annotazione che a me piace molto in quel testo del libro dei numeri che è questa. Dice il testo: “Era il momento in cui veniva a maturazione l’uva. Ecco io ho l’impressione che quanto più da questo punto di vista si elenchino i problemi dei nostri ambienti – sto parlando del manicomio criminale – tanto più io credo che queste siano le condizioni per le quali maturino i frutti, e allora proverei a indicare brevemente i frutti che vengono a maturazione e che stanno venendo a maturazione in O.P.G. La prima questione, il primo frutto da raccogliere che dobbiamo far venire a maturazione è questo: la riconciliazione tra quelle due componenti che l’ambiente carcerario mette l’uno da una parte e l’altro dall’altra del cancello: gli agenti e i ricoverati. Gli agenti sono coloro che reggono per ore il peso del manicomio criminale, il conflitto nasce lì, se in un carcere dell’alta Italia gli agenti hanno permesso l’evasione, nell’O.P.G. di Reggio Emilia gli agenti addirittura li portano fuori loro i ricoverati. Quindi noi siamo da questo punto di vista ben più avanti di qualsiasi evasione, quindi il primo frutto da raccogliere è questo. Il secondo frutto da raccogliere è il recupero delle famiglie. Le famiglie sono le grandi dimenticate, ne accennava la direttrice di Bollate. Non è solo un problema di gestione di un affettività, naturalmente l’affettività, come diceva la dottoressa, va inserita in un cammino, in un contesto di recupero di un rapporto, questo è il secondo frutto. Il terzo frutto, e avrei voluto che oggi se ne fosse parlato di più, è che di fatto in tutto quello che è stato detto, ci si è dimenticati di una cosa semplicissima. Ci si è dimenticati delle vittime. La domanda è: “Tu per rifarti una vita, ti rendi conto della necessità di chiedere perdono, sai di averlo ottenuto, sai di averlo concesso, perché molti in O.P.G. ci sono a causa del male che hanno ricevuto da altri?”. Ecco, e naturalmente a me che sono il cappellano, questo pone dei problemi per chi è incapace di intendere e di volere. Perché? Perché mi costringe a prendere da una parte a subire la violenza di chi ha colpito, ma anche il male di chi ha subito. Ecco, questo è l’ultimo frutto. Io ho da questo punto di vista una pretesa che è quella di riuscire a far uscire tanti ricoverati, da far sì che chi esce si faccia carico di chi rimane dentro. Io non sono per la chiusura né per la riapertura degli O.P.G., non sono per far dei progetti all’interno degli O.P.G. L’O.P.G. è un progetto, e a me piace chiamarlo progetto legato alla terra promessa, e allora concludo: c’era Augusto che è un signore di Verona, che quando veniva a messa a fare la preghiera dei fedeli stava 30-40 secondi a grattarsi la testa, poi a un certo punto si rivolge a me col dito puntato e mi dice, in dialetto veronese, non so se riesco a dirlo: “Mi voria domandarghe a lu, lu el saria disposto a dar la vita par mi?”. Augusto è uscito 5-6 anni fa, da me non ha ottenuto risposta, spero la ottenga da voi. Grazie.
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