La salute appesa a un filo

 

Atti della Giornata di Studi

“Carcere: La salute appesa a un filo”

Il disagio mentale in carcere e dopo la detenzione 

(Venerdì 20 maggio 2005 - Casa di reclusione di Padova)

 

Franco Scarpa

 

Io vi darò dei dati, dei numeri che spero non siano aridi ed ho la sensazione che possano essere numeri ricchi, che si sentono e che oserei definire “spine nella pelle di noi operatori”, che quotidianamente lavoriamo nel carcere sul tema della salute mentale e della salute in generale e ancor più sentono nella e sulla pelle le persone a cui ci rivolgiamo, cioè i detenuti, gli internati. Per quanto riguarda questo problema del disagio psichico non ci sono studi sistematici o comunque con una certa concretezza: io provo a darvi delle indicazioni. Gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari hanno 1300 persone, siamo sull’ordine del 2,5% rispetto al numero totale degli internati ristretti negli istituti penitenziari: che ipotesi si possono fare invece per quelli che sono i soggetti, le persone con un disagio psichico nel carcere? Se dovessimo partire dal 2001, quando l’allora ministro Veronesi nella prima conferenza nazionale della salute mentale parlò di 10 milioni di cittadini italiani ammalati, certo era un dato molto gonfiato, che comunque assommava in sé malattia e disagio difficoltà esistenziale e così via.

Questo nel carcere dovrebbe significare 10.000 e più detenuti con problemi psichici. Non ci sono dati specifici, tranne alcuni tentativi di analisi di questa realtà, con dati che però passano dal 4, 7, 12, 15 c’è chi parla del 30-35%, però da poco tempo io posso darvi qualche elemento che ci può far capire di più. Tanto per cominciare dalle carceri agli O.P.G. si muovono annualmente circa 900 detenuti che vengono mandati in quella che è l’osservazione psichiatrica, cioè l’articolo 112 del D.P.R., quindi persone che vengono mandate per 30 giorni in Ospedale Psichiatrico Giudiziario ad avere una valutazione della condizione psichica e un primo dato. E questo è un numero non indifferente: 900 persone di cui, anche se la maggioranza rientra nel carcere, sicuramente un buon 30-40% ha reali problemi psichiatrici o problemi su cui porre l’attenzione psichiatrica.

Recentemente è partito nella nostra amministrazione un sistema di rilevazione dei cosiddetti “indici di stato di salute” e, anche se in maniera parziale, non su tutti gli istituti, ma su una buona percentuale sono venuti fuori una categorizzazione di disturbi di cui ci sono due diverse categorie che poi vanno in cosiddetta comorbidità, però si parla di disturbi mentali in generale e ne sono stati registrati 4700 casi, pari circa al 75 per mille e solo i casi di depressione registrati – anche qua dai livelli minimi ai livelli massimi – sono 7560. Quindi arriviamo a una percentuale totale di 197 per mille, quindi quasi il 20%: non è poco e dice molto qual è veramente la pressione e la difficoltà quantitativa di affrontare questo problema. Vi dico, per esempio, che sono caduti di moda gli studi sull’autolesionismo, che erano quasi un obbligo, una sorta di bandierina che si alzava a descrivere l’attività del medico penitenziario. In realtà vi posso semplicemente dire che nell’ospedale psichiatrico giudiziario il 40% dei casi di eventi critici, in cui si sommano sia gli autolesionismi che gli scompensi, le difficoltà e i momenti di grave crisi, sono a carico di soggetti che arrivano dal carcere per fare questi 30 giorni di osservazione, un numero non da poco.

A questo punto, resi noti questi dati, la prima spina si conficca nella pelle di operatori e di persone detenute internate. Andiamo ora a guardare le risorse, perché bisogna capire questo tentativo di passaggio di chiusura di questo ghetto che efficacemente Dell’Acqua descriveva, cioè sanità penitenziaria e sanità del servizio sanitario nazionale.

Posso dirvi che fino al 1997-1998 venivano spesi circa 280 miliardi per l’assistenza sanitaria ed erano i tempi dove c’erano ancora 30-35.000 detenuti: che cosa è successo negli anni, nei tempi? Attualmente quest’anno la nostra Amministrazione ha a disposizione 97 milioni di euro, 180 miliardi di lire, di cui 7 milioni di euro vengono assegnati all’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Castiglione delle Stiviere, che ha una convenzione con noi, quindi ci restano 90 milioni di euro circa. Il budget che viene assegnato ai 5 restanti O.P.G., credo si aggiri a non più di 4 milioni di euro: restano per tutti gli altri 55.000 detenuti non più di 85 milioni di euro.

La quota parte di assistenza psichiatrica, cioè quella che viene data a convenzione per psichiatri, faccio un esempio sulla Regione Toscana dove la quota parte di risorse che vengono assegnate per le convenzioni specialistiche psichiatriche è di circa il 4%, quindi credo che ci muoviamo a livello nazionale che, grosso modo, sono gli aspetti numerici che possono essere messi in campo, sul 4-5%,  quindi sono non più di 4 milioni di euro in generale su tutti i 50.00 detenuti. Non è molto: ecco perché questa è la seconda spina che si conficca nella pelle.

Vi dico molto semplicemente come si sta operando in Toscana: c’è un buon sistema di rapporto una grande collaborazione con la Regione Toscana, che ha portato in questi anni a stabilire dei protocolli di rapporto di intesa attraverso cui l’assistenza farmaceutica è quasi a totale carico della Regione. Si sta introducendo un sistema per una cartella clinica informatizzata, ci sono interventi formativi che vengono fatti a carico della Regione Toscana in conformità con quelli che sono gli interventi fatti anche per gli operatori del Servizio sanitario nazionale e in più, quello che ha citato il dott. Margara, cioè un’ipotesi di attuazione di quel decreto legislativo 230 che doveva disegnare il passaggio della sanità penitenziaria a quella del Sistema sanitario nazionale e che è fallita, e qua apro il primo capitolo.

Questa legge è fallita sicuramente per tutta una serie di mancanze di procedure, di condivisione, era forse fallita anche perché, come avete visto, i fondi si sono drammaticamente ridotti. Questa legge prevedeva il passaggio a costo zero, cioè senza carico, senza oneri per il Ministero della Salute, ma credo che negli anni, altro che senza oneri! Credo che si sia addirittura peggiorato il bilancio, nel senso che passare da 280 miliardi a 89-90 milioni di euro, quindi con una riduzione del 30%, abbia letteralmente tagliato le gambe a quelle già scarse velleità e difficoltà di far passare e di applicare questa legge.

Io credo che questo sia un punto fondamentale. Ho fatto un piccolo calcolo e continua a esserci sicuramente per il trattamento dei soggetti delle persone detenute una quota capitarla, se la vogliamo chiamare così, di 1900 euro annui. Sicuramente più alta di quella che viene data al cittadino libero, ma considerati i numeri che vi ho dato e potrei continuare ad elencarveli anche sulle altre patologie, che sono abbastanza corpose e sostanziose, non credo che si possa fare molto con cifre o comunque con un sistema così ridotto. Sono sicuramente convinto che non sia solo un problema di soldi, assolutamente, ma sia anche un problema di organizzazione, di integrazione, di omogeneizzazione con quella che è l’organizzazione, i principi di efficienza ed efficacia del Sistema sanitario nazionale.

Vedrete più tardi questo piccolo video su alcune iniziative di Montelupo Fiorentino, e l’intervista con Stefano Bentivogli che abbiamo fatto a Montelupo Fiorentino, quindi potete leggere alcune delle mie considerazioni sul carcere, sul disagio mentale: però credo che sia importante definire fondamentalmente tre aspetti. Si può affrontare efficacemente il disagio psichico in carcere, sicuramente condivido quello che dice Giuseppe Dell’Acqua, cioè con un intervento dei servizi psichiatrici esterni. Non si possono affrontare questi problemi con una semplice prestazione professionale se non è accoppiata una presa in carico, un progetto che è rivolto verso la persona, non solo al suo disagio, soprattutto quello che ha detto Dell’Acqua che riscontro in pieno e che recepisco.

Però è importante anche dirci, e l’ho detto molte volte nell’intervista: bisogna modificare la cultura del carcere, la cultura nel carcere. Credo che sia un aspetto fondamentale. Molti degli elementi di sofferenza, di fonte di disagio dal carcere, che dipendono dal tipo di cultura che ancora regna: nei rapporti dell’organizzazione penitenziaria, nei rapporti tra operatori e detenuti. Vi dico ancor di più, è una cultura che condiziona pesantemente anche i rapporti tra detenuti, persone stesse che ne subiscono le conseguenze nel carcere, bisogna fortemente lavorare su questo.

L’altra cosa importante che può diminuire le fonti del disagio mentale in carcere, è la mancanza di spazi esterni, esterni alla cella, ma anche esterni al carcere stesso. Credo che non si possa andare molto lontano se non si danno opportunità concrete di uscita e di futuro. Corleone le ha elencate tutte, dalla Smuraglia alle possibilità di accoglienza esterna. Di ospedale psichiatrico e giudiziario, ne parlo sempre con molto dispiacere perché si dice che i problemi spiacevoli si nascondono sotto il tappeto. Io vorrei fare, ma continuo a dire che non mi piace parlare di leggi, di norme di proposte politiche, di progetti di legge, fin quando non c’è una reale volontà di attuarle.

Credo che sia importante dire questo: incombe la parola “soppressione” che significa una legge che elimina l’O.P.G., elimina la misura di sicurezza e così via. Bene, credo che il problema sia come sempre sopprimere per andare dove? O verso il carcere o verso il sistema sanitario nazionale, questo credo che sia un problema che, tra l’altro, continua a dividere le possibilità di mettere insieme le volontà e le intenzioni giuste per trovare una soluzione sul piano legislativo. Però, a fronte della difficoltà di intervenire con la soppressione continuano ad essere messi all’attenzione due aspetti: uno è la cosiddetta sanitarizzazione, che il dott. Margara ben ricorda perché ci abbiamo lavorato insieme nell’Amministrazione penitenziaria per introdurre sempre più dei principi di trattamento sanitario vero dentro queste, che, per chi ha modo di conoscerle, sono strutture penitenziarie a tutti gli effetti, quindi lavorare sulla sanitarizzazione. È un po’ quel viaggiare verso un modello manicomiale che è assolutamente obsoleto e privo di prospettive.

Credo che sia importante invece lavorare su alcuni principi, cioè introdurre servizi esterni, modificare la cultura, aprire spazi esterni all’istituzione, su quella che io chiamo deistituzionalizzazione della misura di sicurezza. Il che significa, su un piano giurisprudenziale: attualmente la misura di sicurezza forse è più flessibile di un giunco, si può applicare quando si vuole, si può revocare quando si vuole. Bontà permettendo, però va resa sempre più,  destituzionalizzata sugli aspetti concreti operativi, cioè spazi esterni, ingresso dei servizi psichiatrici del territorio nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario e condivisione di progetti sui pazienti insieme agli operatori dell’O.P.G.; apertura di spazi sul territorio dove esercitare proprio quei principi di riabilitazione, di partecipazione, di riacquisizione di cittadinanza.

Condivido ancora quello che dice Dell’Acqua, solo così si può effettivamente curare, fare degli interventi e dare delle prospettive alle persone. Bene, io credo che se si lavora con questa metodologia, con queste prassi operative, con queste intenzioni, non si può e né si deve avere paura di dare a questo problema il giusto nome, la giusta dimensione e la giusta collocazione. Si tratta di venire incontro a bisogni di persone che hanno veri problemi di integrazione, di risocializzazione, di recupero della propria immagine. Solo così potremmo effettivamente fare insieme terapia.

 

 

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